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domenica 3 luglio 2016

LA PRIGIONE NEOLIBERALE: L’ISTERIA DEL BREXIT E L’OPINIONE LIBERALE. - Jonathan Cook,


Da Counterpunch, un nuovo articolo che commenta le reazioni scomposte della stampa, questa volta britannica, alla vittoria del Brexit: opinionisti liberali, ormai del tutto proni alla destra economica, che calpestano quegli stessi principi che dicono di difendere e invitano al sovvertimento dell’esito del referendum. L’articolo è anche un invito alla sinistra perché guardi in faccia la realtà e smetta di dare del razzista a chi, dentro la prigione liberista, non ha più diritto nemmeno all’ora d’aria e si ribella votando contro gli interessi dei carcerieri.
La furiosa reazione liberale al voto sul Brexit è un fiume in piena. La rabbia è patologica – e aiuta a far luce sul motivo per cui la maggioranza dei cittadini britannici ha votato per lasciare l’Unione Europea, così come precedentemente la maggioranza dei membri del partito laburista ha votato per Jeremy Corbyn come leader.
Alcuni anni fa lo scrittore americano Chris Hedges ha scritto un libro che ha intitolato “La morte della classe liberale“. La sua argomentazione non era tanto che i liberali erano scomparsi, ma che erano stati così cooptati dalla destra e dai suoi obiettivi – dal sovvertimento degli ideali economici e sociali progressisti da parte del neoliberismo, all’abbraccio entusiastico della dottrina neo-conservatrice nel perseguire guerre aggressive ed espansionistiche oltremare sotto la parvenza di “intervento umanitario” – che il liberalismo era stato svuotato di ogni contenuto.
Gli opinionisti liberali ci si angosciano sopra con sensibilità, ma invariabilmente finiscono per sostenere politiche a beneficio di banchieri e produttori di armi, e quelle che creano il caos nel paese e all’estero. Sono gli “utili idioti” delle moderne società occidentali.
I media liberali britannici attualmente sono traboccanti di articoli di commentatori sul voto del Brexit che potrei scegliere per illustrare la mia argomentazione, ma questo del Guardian, scritto della giornalista Zoe Williams, credo che isoli questa patologia liberale in tutto il suo sordido splendore.
Eccone una parte rivelatrice, scritta da una mente così confusa da decenni di ortodossia neo-liberale che ha perso il senso dei valori che sostiene di abbracciare:
“C’è un motivo per cui, quando Marine Le Pen e Donald Trump si sono congratulati con noi per la nostra decisione, è stato come prendere un pugno in faccia – perché sono razzisti, autoritari, meschini e rivolti al passato. Incarnano l’energia dell’odio. I principi su cui si fonda l’internazionalismo – cooperazione,  solidarietà, unità, empatia, apertura -, questi sono tutti elementi soltanto dell’amore “
Un’Unione Europea piena di amore?
Ci si chiede dove, nei corridoi della burocrazia dell’UE, Williams identifichi quell'”amore” che ammira così tanto. Lo ha visto quando i greci venivano calpestati e costretti alla sottomissione, dopo essersi ribellati alle politiche di austerità che sono  esse stesse un’eredità delle politiche economiche europee, che hanno prescritto alla Grecia di vendere l’ultimo dei gioielli di famiglia?
E’ innamorata di questo internazionalismo quando la Banca Mondiale e il FMI vanno in Africa e costringono le nazioni in via di sviluppo alla schiavitù del debito, in genere dopo che un dittatore ha distrutto il paese, decenni dopo essere stato insediato e appoggiato dalle armi e dai consiglieri militari degli Stati Uniti e delle nazioni europee ?
Che cosa pensa dell’internazionalismo pieno di amore della NATO, che ha fatto affidamento sull’UE per espandere i suoi tentacoli militari in tutta Europa, ad un pelo dalla gola dell’orso russo? Questo è il tipo di cooperazione, di solidarietà e di unità a cui stava pensando?
Williams poi fa quello che molti liberali britannici stanno facendo in questo momento. Chiede sottilmente il sovvertimento della volontà democratica:
“La rabbia del fronte progressista del Remain, però, ha un posto dove andare: sempre inclini all’ottimismo, ora abbiamo la forza per mettere da parte l’ambiguità al servizio della chiarezza, di mettere da parte le differenze al servizio della creatività. Senza più imbarazzo o distacco ironico, abbiamo indietreggiato di fronte a questa lotta per troppo tempo. “
Questo include cercare di cacciare Jeremy Corbyn, naturalmente. I sostenitori “progressisti” del Remain, a quanto pare, ne hanno avuto abbastanza di lui. Il suo crimine è provenire dall'”aristocrazia di sinistra” – a quanto pare anche i suoi genitori erano di sinistra, e avevano anche principi internazionalisti così forti che si incontrarono per la prima volta in un comitato sulla guerra civile spagnola.
Ma il maggiore crimine di Corbyn, secondo Williams, è che “non è a favore dell’UE”. Sarebbe troppo affanno per lei cercare di districare lo spinoso problema di come un sommo internazionalista come Corbyn, o Tony Benn prima di lui, abbia potuto essere così contrario all’UE piena di amore. Quindi non se ne preoccupa.
Ribaltare la volontà democratica
Non sapremo mai da Williams come un leader che sostiene le persone oppresse e svantaggiate in tutto il mondo sia fatto della stessa pasta di razzisti come Le Pen e Trump. Richiederebbe il tipo di “pensiero agile” di cui accusa Corbyn di essere incapace. Potrebbe insinuare il fatto che c’è una tesi di sinistra del tutto separata da quella razzista – anche se a Corbyn non è stato permesso di sostenerlo dal suo partito – per abbandonare l’Unione Europea. (Potete leggere le mia argomentazioni a favore del Brexit qui e qui.)
Ma no, ci assicura Williams, il Labour ha bisogno di qualcuno con una eredità di sinistra molto più recente, qualcuno in grado di adattare le sue vele ai venti dominanti dell’ortodossia. E quel che è ancora meglio è che c’è un partito laburista pieno di seguaci di Blair tra cui scegliere. Dopo tutto, le loro credenziali internazionali sono state dimostrate più volte, anche nei campi di morte in Iraq e Libia.
E qui, avvolta in un unico paragrafo, c’è una pepita d’oro della patologia liberale proveniente dalla Williams. La sua furiosa richiesta liberale è di strappare i fondamenti della democrazia: sbarazzarsi di Corbyn, democraticamente eletto, e trovare un modo, qualsiasi modo, per bloccare l’esito sbagliato del referendum. Nessun amore, solidarietà, unità o empatia per coloro che hanno tradito lei e la sua classe.
“Non c’è stato momento più fertile per un leader laburista dagli anni ’90. L’argomentazione a favore di rapide elezioni generali, già forte, si intensificherà soltanto nelle prossime settimane. Mentre l’assoluta menzogna della tesi del Leave diventa chiara – non ha mai avuto intenzione di frenare l’immigrazione, non ci saranno soldi in più per il servizio sanitario nazionale, non c’era nessun piano per compensare i fondi UE verso le aree svantaggiate – ci sarà un argomento potente per inquadrare le elezioni generali come una rivincita. Non un altro referendum, ma un freno all’articolo 50 e alla prossima mossa decisa dal nuovo governo. Se volete ancora lasciare l’UE, votate per i conservatori. Se avete capito o sapevate quale atto di vandalismo sia stato, votate Labour”.
La prigione neoliberale
Il voto sul Brexit è una grande sfida alla sinistra perché affronti i fatti. Vogliamo credere che siamo liberi, ma la verità è che siamo stati a lungo in una prigione chiamata neoliberalismo. I partiti conservatori e laburisti sono legati col cordone ombelicale a questo ordine neoliberale. L’UE è una istituzione chiave in un club neoliberale transnazionale. La nostra economia è strutturata per far rispettare il neoliberismo, chiunque apparentemente governi il paese.
Ecco perché il dibattito sul Brexit non è mai stato sui valori o sui principi – era una questione di soldi. Lo è ancora. I sostenitori del Remain stanno parlando soltanto della minaccia alle loro pensioni. I sostenitori del Brexit stanno parlando soltanto del ruolo degli immigrati nel far scendere i salari. E c’è una buona ragione: perché l’UE è parte delle mura della prigione economica che è stato costruita intorno a noi. Le nostre vite sono ormai solo una questione di soldi, come i giganteschi salvataggi delle banche troppo-grandi-per-fallire ci dovrebbero aver mostrato.
C’è una differenza fondamentale tra le due parti. La maggior parte dei sostenitori del Remain vuole far finta che la prigione non esista perché ha ancora il privilegio dell’ora d’aria. I sostenitori del Brexit non possono dimenticare che esiste perché non è mai permesso loro di lasciare le loro piccole celle.
La sinistra non può chiamarsi sinistra e continuare a frignare sui suoi privilegi perduti, mentre denuncia quelli intrappolati all’interno delle loro celle come “razzisti”. Il cambiamento richiede che prima riconosciamo la nostra situazione – e quindi di avere la volontà di lottare per qualcosa di meglio.
[Nota del Traduttore: nell’articolo, per far fronte all’italica dicotomia tra i termini liberismo e liberalismo, dicotomia che non ha corrispettivo in inglese – dove esiste soltanto la parola “liberalism” – , si è spesso tradotto “neo-liberalism” come “neo-liberalismo” a discapito del più diffuso, in Italia, “neo-liberismo”, che a parere del traduttore indica soltanto la dottrina economica dell’ideologia liberale. “Neo-liberismo/Neo-liberista”  è infatti stato usato soltanto laddove il riferimento alla teoria economica era esplicito]

venerdì 15 maggio 2015

La stroncatura del Guardian su Expo. - Oliver Wainwright

Visitors walk at the Expo 2015 in Rho, near Milan, Italy, Tuesday, May 12, 2015. The Expo opened Friday May 1 for a six-month run and its theme is "Feeding the Planet, Energy for Life". (AP Photo/Luca Bruno)
Una visuale dell’Expo di Milano (AP Photo/Luca Bruno)

Su quella di Milano e sull'evento in generale, che il grande giornale britannico si augura venga parcheggiato definitivamente a Dubai

Martedì 12 maggio il quotidiano inglese Guardian ha pubblicato un lungo articolo del giornalista Oliver Wainwright, critico di architettura e design, dedicato all’Expo di Milano. L’articolo analizza quelli che secondo il giornalista sono i problemi di questa Expo, insieme a quelli degli eventi Expo in generale, e il commento in generale è piuttosto severo.
Wainwright comincia descrivendo alcuni dei padiglioni, definendoli “un folle collage di tende ondulate, di pareti verdi e di ammassi contorti”. Wainwright ha intervistato Matteo Gatto, direttore del design dell’Esposizione, che ha detto: “Abbiamo cercato di costruire un palco su cui tutti gli attori potessero far sentire la loro voce”, anche se per il giornalista questa voce è decisamente troppo alta. Subito dopo nell’articolo c’è una parte che descrive gli scontri con i Black Bloc del primo maggio, contro Expo e quello che rappresenta, riassunto nelle parole di un attivista intervistato da Wainwright: “Dovrebbe essere una celebrazione dello slow food, dell’agricoltura locale e del mangiare sano. Lo slogan ufficiale è Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita, ma è sponsorizzato da grandi corporazioni come Coca-Cola e McDonald’s. È tutta una truffa”.
L’articolo definisce l’Expo di Milano come “la più controversa mai organizzata in Europa”, a causa delle spese sempre più elevate per l’organizzazione, dei ritardi sulla costruzione che avrebbero portato a spendere un milione di euro soltanto per le strutture che coprono i padiglioni non ancora finiti, e per la corruzione che è ancora presente anche nell’Italia “post-Berlusconi”. Wainwright si chiede quindi cos’abbia la città da mostrare dopo sette anni di lotte e fatica: secondo lui è difficile non vedere l’intero sito come una distribuzione sbagliata di risorse, e i contenuti dell’Esposizione sarebbero “insulsi tanto quanto sono stravaganti le architetture”. Molte delle esibizioni dei paesi sembrerebbero più appropriate in una fiera per agenti di viaggio, con immagini di scenari bellissimi mischiate insieme a giochi multimediali e assaggi di cibo tipico.
Wainwright ha poi intervistato Stefano Boeri, l’architetto milanese che ha fatto parte della consulta per Expo dal 2008 al 2010, quando fu interrotta la collaborazione. Boeri ha spiegato che lui e i membri della consulta erano convinti di poter fare qualcosa di diverso, dato che secondo lui le ultime Expo erano state abbastanza povere, e non avevano lasciato un’eredità importante. Oltre a Boeri, c’erano i famosi architetti svizzeri Herzog & de Meuron, il capo consulente dell’architettura e dell’urbanistica delle Olimpiadi di Londra Ricky Burdett, il designer americano William McDonough, e l’architetto spagnolo Joan Busquets: sarebbe stato difficile trovare un gruppo migliore, sulla carta.
Ma l’idea degli architetti di fare qualcosa di diverso e significativo si è persa nell’avanzare del progetto, secondo Wainwright: l’Expo di Milano sarebbe “un casino spettacolare, anche se è affascinante vedere le ambiziose costruzioni delle varie nazioni fianco a fianco”. Molti padiglioni vengono definiti kitsch, mentre il Palazzo Italia viene paragonato a un centro commerciale cinese.
L’articolo poi passa ad analizzare la programmazione su quello che verrà costruito sul sito di Expo, dopo la fine della manifestazione: prima della costruzione della struttura attuale, che verrà poi smontata, c’erano campi coltivati e campagna, e l’idea iniziale era quella di creare un parco vivibile una volta finita l’Expo, ma il sito è stato coperto da una lastra di calcestruzzo. C’era poi il progetto di riaprire le vie d’acqua di Milano: i lavori sono stati iniziati, prima di scoprire che c’erano problemi tecnici alla base che probabilmente non permetteranno di finirli. Secondo Wainwright non sarà nemmeno facile trovare un acquirente per la società che possiede il terreno su cui è stata costruita Expo, Arexpo (formata dalla regione Lombardia, dal comune di Milano, dalla Fondazione Fiera Milano e dal comune di Rho). Arexpo avrebbe infatti comprato da privati il terreno ad un prezzo fuori mercato, 160 euro al metro quadro, quando il prezzo di mercato sarebbe intorno agli 8-12 euro per metro quadroI piani per il futuro sono ancora vaghi e non si sa cosa verrà costruito dopo.
Wainwright conclude dicendo che a suo parere questa formula di Esposizione Universale è ormai da considerarsi sorpassata e dannosa, poiché lascia una scia di debiti e distruzione dovunque passi. Secondo Wainwright anche quando lascia qualcosa di positivo – come  l’Expo di Vancouver del 1986 che fece aumentare notevolmente il turismo verso la città canadese, o l’Expo di Montreal del 1967 che ha lasciato un parco e qualche struttura interessante – non ne vale la pena: tutti i benefici che si ottengono per la città non valgono lo sforzo di organizzare un evento del genere. L’esempio più significativo sarebbe quello di Siviglia 1992: molte delle strutture sarebbero dovute essere temporanee, ma alla fine dell’Expo la città non aveva più i soldi per smontarle e sono quindi rimaste lì abbandonate, lasciando anche la città piena di debiti.
La prossima Expo sarà ospitata nel 2020 da Dubai, che Wainwright definisce la capitale dell’arroganza architettonica: visti i grossi problemi del Qatar con l’organizzazione dei Mondiali di calcio del 2022, secondo il giornalista “il mondo starà a vedere con trepidazione”. Per Wainwright però gli Emirati Arabi, “dove vengono quotidianamente realizzati sogni impossibili con un costo umano e ambientale incalcolabile” potrebbero essere la perfetta destinazione definitiva per l’Expo: soprattutto per il bene delle altre città in giro per il mondo.