Negli ultimi giorni il presidente del consiglio si è (nuovamente) esibito in una serie di anatemi contro i suoi ormai usuali nemici di comodo. Davanti al blasonato pubblico dell’incontro di Cernobbio ha tuonato contro i “salotti buoni”, mentre al festival dell’Unità a Milano ha riproposto la divisione degli italiani tra i buoni – quelli del sì – e i cattivi – quelli del no.
Mentre non è chiaro ormai a cosa si riferisca la vetusta espressione “salotti buoni”, che finita l’era di Mediobanca non pare avere concreti riferimenti nel paese, è invece chiarissimo con chi se la prende Renzi nella contrapposizione tra quelli del sì e quelli del no.
I primi si identificano con coloro i quali, nell’immaginario del presidente del consiglio, aderiscono entusiasti alla via del cambiamento tracciata da lui medesimo, senza opporre inutili obiezioni o sollevare sgraditi dubbi.
I secondi, va da sé, sono invece coloro i quali obiettano, distinguono, criticano e, così facendo, dimostrano un’attitudine deplorevolmente recalcitrante rispetto alle luminose prospettive indicate dal governo.
Sono quelli che, anziché inghiottire contenti le “riforme” – qualsiasi cosa voglia dire questo termine, che ha smarrito ogni aggancio a precisi dati di realtà – pretendono di dire la loro, di suggerire alternative, di invocare (addirittura!) superiori competenze. Sono, insomma, i “gufi”, anzi meglio: i “gufi laureati”! espressione di nuovo conio varata a Milano e che avrà sicura fortuna presso gli estimatori del tirar dritto.
Nel suo evidente tentativo di ipersemplificare i conflitti e le complessità della vita associata, il presidente del consiglio sembra avviato verso l’utilizzo di un linguaggio sempre più smaccatamente populista: da un lato, i “salotti buoni”, in cui oscuri potenti tramano contro di lui, vengono evocati allo scopo di sollecitare la solidarietà del “popolo”, dei piccoli imprenditori, della classe media. Dall’altro, una falange di “sapientoni” sempre ostili, che antepongono i loro privilegi al bene del paese, sono dipinti per tirare dalla propria parte i “semplici”, per far apparire le opposizioni come minoritarie e passatiste. Alle quali si contrappongono i fiduciosi, i progressivi, i sani.
Quante volte in tragiche vicende del passato si è dovuto assistere a questo utilizzo sconsiderato del linguaggio per screditare chi la pensa diversamente, per costruire artificiose alleanze contro nemici immaginari?
E’ un linguaggio umiliante, per chi lo usa e per i cittadini che ne sono involontari destinatari; i quali vengono interpellati non come cittadini pensanti ma come “pubblico” suggestionabile mediante vaghe parole d’ordine e la creazione di barriere tra chi la pensa come il capo e chi invece no. In un mondo complesso e su temi ardui come il funzionamento della democrazia, nessuno ha la risposta giusta in tasca e tutti – “sapientoni” per primi – devono essere aperti al confronto. Ma certamente il linguaggio del populismo non è il linguaggio della democrazia.