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lunedì 5 ottobre 2020

Financial Times: Ernst & Young poteva fermare tre anni prima la frode di Wirecard. - Dan McCrum e Olaf Storbeck

 

Marzo 2017. Molto prima di diventare due dei manager più ricercati al mondo, il direttore operativo di Wirecard, Jan Marsalek, e un suo giovane dipendente del team finanziario, Edo Kurniawan, discutono preoccupati di India.

Succede che Ernst & Young, il revisore dei conti di Wirecard, ha avviato un accertamento su alcuni rami d’attività che l’azienda aveva acquisito nella città indiana di Chennai. L’indagine prende il nome in codice di “Project Ring”.

Nonostante EY avesse supervisionato i libri contabili di Wirecard per diversi anni senza mai riscontrare problemi, Project Ring viene gestita da un team di investigatori diverso dal solito, che agisce sulla base di una soffiata. Un anonimo informatore aveva segnalato, infatti, che i senior manager di Wirecard potevano aver commesso una frode e avevano tentato di corrompere un revisore.

Il Financial Time è entrato in possesso di uno scambio di messaggi inviati da Marsalek a Kurniawan (che quest’ultimo ha poi condiviso con un amico) in cui Marsalek parla di un avvertimento ricevuto da qualcuno di EY. “Uno staff junior ha detto al nostro staff in via ufficiosa che ci sono dei dubbi sulle fatturazioni del nostro software e che potrebbero negarci la conferma della revisione”.

Marsalek incarica così Kurniawan, che era a capo del team finanziario di Wirecard per l’Asia, di andare a parlare con il responsabile della revisione contabile della società in India il lunedì successivo: “Dovremmo affrontare la cosa come se credessimo che si tratti di un malinteso o di una qualche stranezza indiana”, consiglia Marsalek al suo dipendente.

Lo sforzo di sviare i sospetti non funziona. Infatti, come conferma la corrispondenza esaminata dal FT, dopo tre mesi di ritardi e sotterfugi da parte di Wirecard il team antifrode di Ernst & Young ingiunge alla società tedesca di consegnare una serie di dati e documenti entro della settimana.

È a questo punto che Marsalek invia la seguente e-mail a Kurniawan: “Ciao Edo, hai tutto sotto controllo? Sembra piuttosto preoccupante. Saluti, Jan”.

Ma se Project Ring poteva essere un’occasione per smascherare una frode contabile all’interno di una delle aziende tecnologiche allora più blasonate della Germania, tre anni prima del crack di Wirecard, alla fine si è rivelata un’occasione persa. Attraverso una serie di documenti interni, corrispondenze private e il testo di una revisione di conti effettuata dalla società rivale KPMG, il Financial Times ha potuto tracciare un quadro dettagliato dei grandi sforzi fatti dai dirigenti Wirecard per soffocare l’indagine e far sì che EY continuasse a garantire alla società un certificato di buona salute delle transazioni.

Ci sarebbero voluti ancora tre anni per smascherare l’enorme inganno di Wirecard, anni durante i quali l’azienda ha raccolto miliardi di euro di capitale fresco. Ernst & Young ora sta affrontando un’indagine da parte dell’organo di controllo dei revisori dei conti tedesco, Apas, oltre a varie cause intentate dagli investitori e la fuga di clienti del calibro di DWS, ramo di gestione patrimoniale della Deutsche Bank, o Commerzbank.

Inoltre, la revisione di Project Ring realizzata da KPMG quest’anno nell’ambito di un’ampia revisione speciale sulle attività di Wirecard prima del crack di giugno, ma non resa pubblica, afferma che l’accertamento forense avviato da EY India è stato interrotto prematuramente e ha lasciato senza risposta alcune domande cruciali.

“KPMG vede prove che si oppongono alla chiusura dell’audit speciale avviato con Project Ring e che avrebbero dovuto essere oggetto di un’indagine definitiva”, si legge nel rapporto. KPMG sottolinea inoltre che EY avrebbe dovuto incaricare una terza parte di indagare il presunto tentativo di corrompere un membro del suo staff, cosa che non è avvenuta.

Il mistero del fondo alle Mauritius.

Le accuse vagliate dal team antifrode dell’EY in India si concentrano su un’acquisizione di Wirecard annunciata nell’ottobre 2015L’azienda paga in quella data 340 milioni di euro a un’opaca società con sede alle Mauritius denominata Emerging Markets Investment Fund 1A (EMIF 1A), per l’acquisto di tre società di pagamenti indiane: Hermes i Tickets, GI Technology e Star Global.

All’epoca Wirecard non rende noto il ruolo di questo fondo offshore, ma si scopre che EMIF 1A ha acquistato le attività indiane per circa 50 milioni di euro solo poche settimane prima di venderle a Wirecard, intascando quindi enormi profitti dall’operazione.

Qualcuno all’interno di EY sente puzza di bruciato. A maggio 2016, un informatore anonimo di EY invia una lettera alla sede centrale tedesca dell’azienda a Stoccarda, affermando che “i senior manager di Wirecard Germania” detengono direttamente o indirettamente partecipazioni in EMIF 1A.

L’informatore accusa anche i dirigenti di Wirecard di aver gonfiato artificialmente il profitto operativo delle attività acquistate, il cui prezzo era legato alla redditività.

Il rapporto di KPMG riporta che l’unico manager nominato dall’informatore dell’EY si chiama Stephan von Erffa ed è vicedirettore finanziario di Wirecard in Germania. Il team antifronde di EY non lo interrogherà mai, e Wirecard rifiuterà di dare accesso alla sua posta elettronica, negando qualsiasi illecito.

In una mail vista dal FT e datata 23 marzo 2017 von Erffa dà visibilmente l’impressione di rispondere alle richieste di Project Ring cercando di evitare altre indagini: “Se cominciamo ora a verificare aree totalmente nuove non vedremo mai la fine. Pertanto ho chiesto al mio team di concentrarsi sulla revisione avviata da EY India e di non lavorare su questi nuovi compiti da voi richiesti”. (Un avvocato di von Erffa non ha risposto alla richiesta di commento inoltratagli dal FT).

Un viaggio lampo a Chennai.

Tra i destinatari di questa e-mail c’è Andreas Loetscher, il principale partner di Ernst & Young nelle operazioni di revisione contabile di Wirecard, che ora è responsabile contabilità di Deutsche Bank. Un mese dopo Wirecard riceve da EY il consueto nulla osta.

A dicembre Loetscher vola a Chennai per una visita di due giorni a Hermes, una delle aziende acquisite da Wirecard nel 2015. In seguito scrive a Edo Kurniawan per ringraziarlo della “preparazione, delle discussioni, delle spiegazioni e dello svago”.

Ma a gennaio 2018, mentre l’audit di gruppo di EY su Wirecard è in corso, il ruolo misterioso giocato dal fondo EMIF 1A delle Mauritius nell’affare indiano di Wirecard, e il prezzo molto basso che la società ha pagato per gli asset, entra nel radar dell’organizzazione no-profit Foundation for Financial Journalism. Di fronte alle accuse, Wirecard nega categoricamente di aver derubato gli azionisti e cita proprio le revisioni sempre positive firmate da EY.

Nel frattempo il team antifrode di Ernest & Young continua a nutrire sospetti. A marzo 2018 condivide infatti un aggiornamento di stato con il top management di Wirecard: “Alcune delle osservazioni potrebbero potenzialmente supportare l’ipotesi che le entrate selezionate abbiano avuto un impatto significativo sul margine operativo lordo, fruttando al venditore di Hermes maggiore earn-out nei pagamenti”.

Insabbiare Project Ring.

Meno di un mese dopo, però, i dirigenti di Wirecard riescono a mettere a tacere Project Ring.

Il 3 aprile, in una mail indirizzata al team antifrode di EY e inviata in copia anche a Loetscher, Marsalek scrive: “Prendiamo atto che l’accertamento e l’analisi delle accuse contenute nella ‘lettera di denuncia’ del maggio 2016 non hanno portato alla luce alcuna prova a sostegno delle accuse”. Aggiunge poi che un’indagine interna portata avanti parallelamente da Wirecard ha concluso che non esistono prove di cattiva condotta da parte di nessun dipendente della società.

“Riteniamo quindi che le accuse siano infondate e non condurremo ulteriori indagini”. Alla fine del messaggio il manager ringrazia EY per “le analisi sempre trasparenti e altamente professionali e la relativa reportistica”.

Una settimana dopo, i responsabili del team antifrode di EY rispondono alla mail segnalando una errata caratterizzazione del loro lavoro da parte di Marsalek. Al contrario di quanto scritto dal manager, sottolineano che l’analisi ha effettivamente individuato “transazioni commerciali e collegamenti” che potrebbero sostenere le accuse sollevate nella lettera di denuncia, ma non contestano esplicitamente le dichiarazioni del loro cliente.

Il giorno dopo, l’11 aprile del 2018, Loetscher e il suo collega Martin Dahmen firmano la nota di revisione dei bilanci di Wirecard del 2017. Loetscher ha rifiutato di commentare la vicenda al FT.

Delle accuse mosse dall’informatore e dello stesso Project Ring, nelle 42 pagine dell’audit di Ernst & Young sui bilanci 2017 consegnato al consiglio di sorveglianza di Wirecard non si trova che un breve accenno. Il rapporto, visionato dal FT, afferma che l’accertamento si è “concluso” senza “alcuna prova che indicasse una contabilità errata o altre violazioni della legge”. La stessa affermazione verrà ripetuta nella relazione di revisione di Ernest & Young sui bilanci del 2018.

Hansrudi Lenz, professore di contabilità all’Università di Würzburg, ravvisa il profilo di una falsa dichiarazione da parte dei revisori contabili di EY. “Se gli eventi si sono verificati come descritto, a mio parere, il trattamento (da parte di EY, ndr) della questione ‘Whistleblower indiano’ nelle relazioni di revisione dei conti per il 2017 e il 2018 è inadeguata”, ha dichiarato Lenz al Financial Times.

Chi fossero i beneficiari finali dell’EMIF 1A resta un mistero. Di fronte alle domande sul fondo, Wirecard si è sempre schermita indicando nomi di rispettabili consulenti esterni coinvolti nell’affare. Nomi come quello di Linklaters, uno studio legale britannico specializzato in offshore.

La vicenda continua ad avere ripercussioni anche dopo l’implosione di Wirecard. A luglio, per esempio, un giudice dell’Alta Corte del Regno Unito ha rigettato la richiesta di risarcimento per frode avviata da alcune parti civili contro Wirecard con la seguente motivazione: “Fondamentalmente EMIF è stata certificata da Linklaters. Uno studio legale rispettabile come questo avrà indagato sulla posizione dell’EMIF e si sarà ritenuta soddisfatta su questioni quali la proprietà effettiva della società, il rispetto delle leggi sul riciclaggio di denaro e sul finanziamento del terrorismo, e l’assenza di frodi fiscali o altri tipi di frode”.

Tuttavia, il rapporto di KPMG dimostra invece (valutando accuse più ampie di irregolarità contabile del 2019) che il team antifrode di EY aveva già avanzato il sospetto che lo stesso Marsalek avesse legami con il fondo delle Mauritius.

Mancavano però le prove concrete, e Marsalek, dal canto suo, di fronte al consiglio di vigilanza di Wirecard negava qualsiasi rapporto. Tuttavia, secondo quanto hanno riferito al FT diverse persone al corrente dei fatti, insoddisfatto della risposta del top manager, il consiglio di vigilanza aveva chiesto una conferma al suo consulente fiscale, volta a certificare che Marsalek non aveva mai ricevuto entrate dalle Mauritius. Le stesse fonti raccontano che il direttore operativo di Wirecard ha ignorato la richiesta per molti mesi.

Wanted.

Oggi Marsalek è ricercato dall’Interpol e la sua faccia è sui manifesti affissi in tutta la GermaniaKurniawan, che ha detto agli avvocati di Wirecard di aver sempre agito secondo le istruzioni ricevute dal direttore operativo di Wirecard (cioè da Marsalek), è stato avvistato per l’ultima volta a Dubai 18 mesi fa. Quanto a von Erffa, attualmente si trova in custodia con l’accusa di frode contabile, appropriazione indebita e manipolazione del mercato.

Ernst & Young ha fatto sapere al Financial Times questa settimana che “le problematiche relative a potenziali problemi di frode e corruzione in India” sono state sollevate da un dipendente che stava seguendo “protocolli standard”.

Lo studio di consulenza ha anche sottolineato che le accuse “sono state vagliate dall’azienda e dal team di revisione contabile e forense di EY Germania” e che le osservazioni sono state riferite a Wirecard. “Sulla base delle informazioni a nostra disposizione – continua la nota –, riteniamo che il personale di EY India e di altri paesi abbia seguito le procedure in modo professionale e in buona fede”.

Ernst & Young ricorda inoltre che la prassi standard del settore prevede che i revisori contabil siano selezionati tra “i migliori revisori locali, a cui viene fornito uno schema chiaro di procedure di audit” e conclude che la transazione indiana di Wirecard “è stata oggetto di un’ampia due diligence da parte di studi legali e società di contabilità internazionali”.

Fonte: FT.com

(foto ilFQ)

Traduzione di Riccardo Antoniucci

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/05/financial-times-ernst-young-poteva-fermare-tre-anni-prima-la-frode-di-wirecard/5954396/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=il-fatto-economico&utm_term=2020-10-05

lunedì 29 giugno 2020

Il crack Wirecard arriva in Italia: bloccate almeno 325mila prepagate per oltre 20 milioni di euro. - Piaerangelo Soldavini

Reuters

Sono almeno 325mila la carte di debito emesse in Italia da Wirecard che sono state bloccate, con fondi attorno a 20 milioni di euro, dopo lo stop operativo imposto dalla Fca alla fintech tedesca finita nell’occhio del ciclone per l’ipotesi di falso in bilancio. SisalPay|5 è intervenuta subito assumendosi direttamente l’onere finanziario e impegnandosi a restituire i fondi congelati ai propri clienti, per lo più ignari di essere finiti nel mezzo dello scandalo Wirecard.
Non è chiaro al momento quanti siano altri clienti italiani che abbiano in tasca carte prepagate emesse dalla fintech tedesca dei pagamenti. Anche Soldo si trova nella stessa situazione. Sarebbero una settantina in tutta Europa le fintech e milioni gli utenti coinvolti nel crack.
Alla pari di altre fintech SisalPay|5 si trova ad avere Wirecard come “issuer” delle proprie carte prepagate: i 325mila possessori hanno visto le loro carte congelate senza alcun preavviso dopo che venerdì l’authority finanziaria inglese, la Fca, ha imposto lo stop operativo a Wirecard. Sulla base di una giacenza media attorno a 60-65 euro, SisalPay ha previsto una copertura finanziaria pari a 20 milioni di euro per l’intervento.
L’intervento di SisalPay|5, effettuato con il supporto degli azionisti Cvc Capital Partners e Banca 5 del gruppo Intesa Sanpaolo, punta a sostenere nell’immediato i propri clienti, molti dei quali colti di sorpresa dal blocco mentre erano in viaggio o in vacanza. Già sabato i clienti e gli esercizi convenzionati erano stati informati e rassicurati sul rimborso delle somme bloccate.
Nello specifico ai possessori della carta prepagata a brand SisalPay verrà data la possibilità di trasferire il saldo direttamente su una nuova carta, emessa in partnership con Banca 5, per permettere al cliente di tornare velocemente a effettuare pagamenti in tutta tranquillità oppure di ricevere l'accredito o rimborso del saldo presente sulla carta.
Ma SisalPay|5 non è l’unica società italiana ad essersi appoggiata per l’emissione delle proprie carte prepagate alla soluzione di Wirecard, istituto di moneta elettronica che ha accesso ai paesi dell’area euro. Anche Soldo, fintech italiana con base a Londra specializzata nella gestione delle spese aziendali.
Al momento non è stato possibile avere i numeri delle carte di debito di Soldo in circolazione in Italia. In un messaggio mandato immediatamente ai propri clienti la società afferma che sta accelerando il processo di migrazione degli account da Wirecard, per assicurare un ripristino tempestivo dell'operatività.
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sabato 27 giugno 2020

Wirecard, lo schianto tedesco con il suo gioiello tecnologico. - Uski Audino

Wirecard, lo schianto tedesco con il suo gioiello tecnologico

La società dei pagamenti che sfidava i colossi del web imbarazza la Germania, tra coperture politiche ed errori della vigilanza.
“Tutte le strade portano al successo”, era scritto fino a ieri sul sito di Wirecard, la società di servizi finanziari e pagamenti elettronici finita al centro del più grande scandalo finanziario tedesco dalla Riunificazione. Ma tanto ottimismo non gli ha portato bene. Le strade ieri hanno portato il gioiello della finanza tecnologica a presentare richiesta di insolvenza al Tribunale di Monaco e l’ex ceo dell’azienda, Markus Braun, in una cella della procura con l’accusa di falso in bilancio e manipolazione di mercato. Dalle stelle del Dax alle stalle della bancarotta. Una prima assoluta nella storia tedesca. Braun è uscito dalla custodia cautelare grazie al pagamento di una cauzione da 5 milioni di euro, ma sulla sua testa pende un’accusa molto grave: truffa. Dal bilancio della società mancano all’appello 1,9 miliardi di euro (il 255 del totale) depositati in due banche delle Filippine. Sono scritti in bilancio, ma non ci sono estratti conto che ne confermino l’esistenza. Le somme sui conti fiduciari a favore di Wirecard per un totale di 1,9 miliardi di euro molto probabilmente non esistono”, ha detto la portavoce delle autorità inquirenti.
L’ipotesi è che Braun volesse “far apparire l’azienda finanziariamente più forte e più attraente per gli investitori e i clienti”, dicono dalla Procura. La scelta della società di presentare ieri “un procedimento di insolvenza per il rischio di incapacità di pagamento e sovraindebitamento” fa mormorare. Che l’ammanco sia maggiore? Due terzi delle vendite, dicono fonti vicine ai creditori, potrebbero essere state falsificate. I 15 istituti bancari che hanno prestato a Wirecard 1,85 miliardi fanno sapere di “non aver staccato la spina”. Quanto duri, non si sa. Intanto il titolo ha perso l’80% del valore in pochi giorni. Per avere un’idea del tonfo basti pensare che all’ingresso in Borsa nel settembre 2018 l’azienda valeva 24,6 miliardi e ora ne vale circa 3, mentre le azioni vendute a 190 euro, ieri erano scambiate a 9,96. Con buona pace dei piccoli azionisti.
Tutto comincia a inizio 2019 quando l’azienda, fondata nel 1999 nella periferia di Monaco dall’allora 30enne austriaco Braun, subisce una perquisizione nella sede di Singapore. In quell’occasione il Financial Times scrive che i conti sul mercato asiatico potrebbero essere stati “abbelliti”. Il risultato è che le azioni sprofondano da 160 a 99 euro. Braun grida al complotto. L’autorità di vigilanza bancaria tedesca, il Bafin, per tutta risposta vieta di scommettere contro le azioni di Wirecard per due mesi e, invece di aprire le indagini, querela i giornalisti. Nell’ottobre 2019 FT torna a scrivere dell’azienda e la scena si ripete. Questa volta la stampa finanziaria tedesca si allarma, aspetta che il Bafin intervenga, ma lo dice sottovoce per non turbare la sensibilità di chi vuole continuare ad andar fiero di quel gioiello tecnologico made in Germany in competizione con i colossi del web. Per allontanare le critiche Wirecard incarica come revisori la società Kpmg. In aprile il responso: “L’azienda non ha fornito tutti i documenti richiesti” e “non è stato possibile verificare in modo sufficientemente approfondito l’esistenza dei volumi delle transazioni nel periodo dal 2016 al 2018”. In parallelo Ernst & Young, che lavorano alla certificazione del bilancio 2019, giovedì non lo certificano. Le due banche filippine dicono di non avere tra i loro clienti Wirecard e che i documenti sono stati falsificati.
Il ministro tedesco dell’Economia, Peter Altmaier, si dice scioccato: “Ci saremmo aspettati una situazione del genere ovunque, ma non in Germania”. Il danno di immagine per il Paese è serio. Più mirata è la reazione del ministro delle Finanze, Olaf Scholz, che punta il dito contro la Vigilanza: “Dobbiamo chiarire rapidamente come modificare i nostri requisiti normativi per monitorare in modo completo, tempestivo e veloce anche le reti aziendali complesse”, “revisori e autorità di vigilanza non sono stati efficaci”. Felix Hufeld, presidente del Bafin, ammette “il completo disastro”. Ci vorrà più di un mea culpa nell’audizione in commissione Finanze il primo luglio.
La stampa tedesca ora si chiede come l’illusione Wirecard sia potuta durare tanto. “Per troppo è stata vista come una piantina fragile cresciuta in casa che doveva essere protetta”, ha detto il deputato tedesco Fabio De Masi. Era il sogno che la Germania voleva sognare: guardare i giganti Usa del web “all’altezza degli occhi”.