Visualizzazione post con etichetta curriculum. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta curriculum. Mostra tutti i post

giovedì 17 marzo 2022

CHI E' DAVVERO ZALENSKY? - Saverio Masi

 

Chi è davvero il comico ucraino divenuto beniamino della stampa occidentale e decantato come un eroe sulle copertine dei nostri settimanali e nei nostri Telegiornali?
Chi è il personaggio che sabato scorso si è palesato in divisa militare comparendo in diretta a Firenze tra gli applausi e le ovazioni della piazza dei Pacifisti a mano armata del PD?
Sappiamo che nasce nel 1978 da una famiglia di origini ebraiche e che la sua prima lingua non è l'ucraino, ma il russo.
Sceglie la carriera di attore e comico , fonda il 𝗞𝘃𝗮𝗿𝘁𝗮𝗹 𝟵𝟱 𝗦𝘁𝘂𝗱𝗶𝗼 e produce la Telenovela "Sluha Narodu" (Servitore del Popolo) in cui lo stesso Zelensky interpreta l'uomo qualunque che stanco della corruzione politica che imperversa in Ucraina, viene inaspettatamente eletto presidente.
Pare che a Igor Kolomoyskyi - potente uomo d'affari dal triplo passaporto ucraino, cipriota e israeliano, fiduciario degli USA e principale oligarca di Ucraina - guardando la popolare telenovela venga la magnifica idea di trasformare la fiction in realtà e di far interpretare all'attore comico Zelenzky la parte del Presidente non soltanto in video ma anche nella realtà.
Subito dopo Zelensky annuncia la fondazione di un partito che porta lo stesso nome della popolare telenovela: "Servitore del popolo" e, all'apice della sua popolarità televisiva, annuncia la propria candidatura alle elezioni presidenziali dell'anno successivo.
Da quel momento la sua società, la Kvartal 95, registrerà un anomalo flusso di finanziamenti, gestiti attraverso società off-shore con sedi in paradisi fiscali, per un ammontare di 𝟰𝟬 𝗺𝗶𝗹𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗱𝗶 𝗱𝗼𝗹𝗹𝗮𝗿𝗶.
Il principale sovvenzionatore della campagna di Zelensky è proprio il discusso oligarca Kolomoyskyi, proprietario di 𝗣𝗿𝗶𝘃𝗮𝘁𝗕𝗮𝗻𝗸, la più importante banca in Ucraina, coinvolta in diversi casi di bancarotta fraudolenta e investimenti illeciti.
𝗜𝗴𝗼𝗿 𝗞𝗼𝗹𝗼𝗺𝗼𝘆𝘀𝗸𝘆 𝗲̀ 𝘀𝘁𝗮𝘁𝗼 𝘂𝗻𝗼 𝗱𝗲𝗶 𝗽𝗿𝗶𝗻𝗰𝗶𝗽𝗮𝗹𝗶 𝗳𝗶𝗻𝗮𝗻𝘇𝗶𝗮𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗱𝗶 𝗮𝗹𝗰𝘂𝗻𝗶 𝗱𝗲𝗶 𝗴𝗿𝘂𝗽𝗽𝗶 𝗽𝗮𝗿𝗮𝗺𝗶𝗹𝗶𝘁𝗮𝗿𝗶 𝗻𝗲𝗼𝗻𝗮𝘇𝗶𝘀𝘁𝗶 𝗲𝗱 𝘂𝗹𝘁𝗿𝗮-𝗻𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗶𝘀𝘁𝗶 che nel 2014 hanno prodotto il colpo di stato che ha rovesciato il legittimo governo del Presidente Janukovic innescando 8 anni di instabilità e guerra civile nella regione.
Nell'Aprile del 2019 Zelensky appena eletto Presidente provvede subito a distribuire incarichi governativi ai soci della sua società, la Kvartal 95.
Ivan Bakanov, già Amministratore Delegato della società, diventa il capo dei Servizi Segreti, mentre il Vice Direttore Serhiy Shefir diventa il portavoce ufficiale del presidente.
L'oligarca Igor Kolomoysky, padrino e finanziatore di Zelensky, ha forti interessi economici sul Donbass, motivo per cui il suo esercito privato di organizzazioni neonaziste, in parte inquadrate nell'Esercito ucraino, dal 2015 𝗵𝗮 𝘀𝘁𝗲𝗿𝗺𝗶𝗻𝗮𝘁𝗼 𝗰𝗶𝗿𝗰𝗮 𝟭𝟲 𝗺𝗶𝗹𝗮 𝗿𝘂𝘀𝘀𝗼𝗳𝗼𝗻𝗶 𝗻𝗲𝗹 𝘀𝗶𝗹𝗲𝗻𝘇𝗶𝗼 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗰𝗼𝗺𝘂𝗻𝗶𝘁𝗮̀ 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗻𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗲.
Questo è anche il motivo per cui Zelensky alle trattative di pace rifiuta le richieste russe di riconoscimento delle Repubbliche Popolari del Donbass ed è disposto a continuare la guerra con ogni mezzo, cercando in tutti i modi di coinvolgere la NATO e allargarla al resto d'Europa.
In base a quanto emerso nei Pandora Papers e riportato dal "𝗧𝗵𝗲 𝗚𝘂𝗮𝗿𝗱𝗶𝗮𝗻" 𝗱𝗲𝗹 𝟯 𝗼𝘁𝘁𝗼𝗯𝗿𝗲 𝟮𝟬𝟮𝟭, Zelensky detiene quote azionarie di tre società off-shore, ha legami con diversi oligarchi da cui riceve finanziamenti illeciti e introiti miliardari ed è coinvolto direttamente in un giro di armi e soldi ai neonazisti.
Alla luce di ciò e del suo 𝗱𝗶𝗰𝗵𝗶𝗮𝗿𝗮𝘁𝗼 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗲𝘀𝘀𝗲 𝗮 𝗳𝗮𝗿 𝗮𝗱𝗲𝗿𝗶𝗿𝗲 𝗹'𝗨𝗰𝗿𝗮𝗶𝗻𝗮 𝗮𝗹𝗹𝗮 𝗡𝗔𝗧𝗢, piazzando basi missilistiche americane ai confini della Russia, invocando la no-fly zone e l'uso della bomba atomica, viene da chiedersi se il presidente ucraino sia davvero l’eroe che i mass media europei stanno rappresentando.
Ci domandiamo se i politici e i mezzi di informazione occidentali si rendano davvero conto di quale grumo di affarismo e corruzione si celino dietro questo turpe personaggio e di quanto ci stiano facendo rischiare nell'assecondare i deliri bellici di questo faccendiere squilibrato.

domenica 23 gennaio 2022

Elisabetta Belloni, chi è? Orientamento politico, stipendio, vita privata, marito e figli. - Domenico Iovane

 

Elisabetta Belloni, chi è: una figura che è nata e cresciuta nel campo della diplomazia italiana ed internazionale. Ufficialmente fuori da ogni contesto e posizione politica, si definisce “orgogliosa di non avere nessuna matrice politica”. Il suo nome è uscito in occasione delle elezioni del Presidente della Repubblica 2022.

Elisabetta Belloni: orientamento politico.

Ufficialmente Elisabetta Belloni non fa parte di un partito politico specifico. Ha avuto ruoli istituzionali con governi sia di destra sia di sinistra. Viene considerato come un profilo politico “indipendente”. La sua carriera politica, istituzionale e diplomatica è sempre stata neutrale.

Dunque, il suo è un orientamento politico che è da considerarsi da “tecnico”, perché Belloni ha sempre rifiutato di esternare appartenenze o preferenze politiche. In un’intervista del marzo 2007 disse: “Io sono orgogliosa di non avere nessuna matrice politica. Qui ci sono colleghi di destra, colleghi di sinistra e alcuni definiti istituzionali. Io sono molto orgogliosa di definirmi istituzionale”.

Elisabetta Belloni: stipendio.

In campo diplomatico, il primo livello della carriera, segretario di legazione, assicura uno stipendio di 62 mila euro l’anno, 5 mila lordi al mese. Ne beneficiano già in 328. Al livello seguente, quella di caposezione (in servizio ce ne sono 161), la busta paga sale a 81 mila. Per i 264 consiglieri d’ambasciata l’ingaggio arriva a 174 mila euro, mentre per i 207 ministri plenipotenziari lievita fino a 240 mila, tetto che ufficialmente vale anche per i 25 ambasciatori e per il segretario generale Elisabetta Belloni.

Elisabetta Belloni: vita privata.

Elisabetta Belloni è nata Roma, (1 settembre 1958 ). Ricopre il ruolo di segretaria generale del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale dal 5 maggio 2016.  Ha una laurea in scienze politiche alla Libera università internazionale degli studi sociali Guido Carli (Luiss) di Roma nel 1982.

Nel suo curriculum si legge che parla quattro lingue (inglese, francese, spagnolo, tedesco) e tra le onorificenze ha ricevuto anche la Legion d’onore in Francia.

La sua carriera professionale è iniziata come diplomatica nel 1985. Ha ricoperto incarichi nelle ambasciate italiane e nelle rappresentanze permanenti a Vienna e a Bratislava, oltre che presso le direzioni generali del Ministero degli Affari Esteri. Dal novembre 2004 al giugno 2008 ha diretto l’Unità di Crisi del Ministero degli Affari Esteri. Nel febbraio 2014 è stata promossa ambasciatrice di grado e, dal giugno 2015, ha ricoperto la carica di Capo di Gabinetto del Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Nell’aprile 2016 viene nominata Segretaria Generale del Ministero degli Affari Esteri ed entra in carica il 5 maggio.

Nel maggio del 2021, è stata nominata da Draghi  capo dei servizi segreti del paese, la prima donna a ricoprire questo ruolo nella storia dei servizi segreti italiani.

Belloni: marito e figli.

Elisabetta Belloni è stata sposata con Giorgio Giacomelli, che però è morto nel febbraio 2017. Non ci sono informazioni pubbliche riguardo possibili figli. Sulla figura del marito si sa che Giacomelli era un ambasciatore di origini padovane, con oltre 30 anni di mandati diplomatici di alto profilo e ha anche prestato servizio in territori come la Siria e la Somalia. Nel corso della sua carriera, è stato responsabile dell’Agenzia palestinese per i rifugiati ed è stato direttore generale del Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo del Ministero degli Affari Esteri.

https://www.lanotiziagiornale.it/elisabetta-belloni-chi-e-orientamento-politico-stipendio-vita-privata-marito-e-figli/

domenica 7 novembre 2021

Cassese, il prof delle élites in corsa dal secolo scorso. - Ilaria Proietti

 

RISERVE - Il professore è servitore dello Stato e dei privati e i poteri forti se lo contendono. Il "dottor Sottile" ha collezionato poltrone e ha abbandonato la politica già due volte.

C’era ancora la liretta e già era la carta segreta da giocare per il Colle, che gli è poi sempre sfuggito. Ma Sabino Cassese, giurista sopraffino e sempreverde, pure stavolta è dato in corsa a dispetto degli 86 anni suonati che gli consigliano, per garbo, di schermirsi: “Qualcuno ha fatto il mio nome per il Quirinale? Se lo tolgano dalla testa” ha detto, anche se, vai a sapere, con quanta sincerità. Pochi giorni prima di spegnere le ultime candeline, ha comunque fatto intendere di essere pronto a tutto. “Ho orari da metalmeccanico. Lavoro otto ore al giorno, domeniche incluse e non faccio le vacanze”. Insomma, il leone di sempre, come è stato fin dagli esordi in quel di Salerno, quando a 17 anni, dopo aver masticato senza problemi il liceo, aveva vinto il concorso per entrare alla Normale di Pisa stracciando i concorrenti: laurea a 21 anni per poi spiccare il volo verso lidi più ambiziosi e amicizie importanti. Come quella con Luigi Sturzo che “tradì” per Enrico Mattei e un posto in prima classe all’Eni con uno stipendio da leccarsi i baffi per l’epoca e la giovane età. E poi una lunga carriera universitaria, che ha affiancato al ruolo di conferenziere in mezzo mondo per cinquant’anni, per tacere dei libri scritti, ovviamente un’infinità, e del ruolo di editorialista dal Corriere della Sera in giù. Ma è stato pure ministro della Funzione pubblica quando a Palazzo Chigi c’era Carlo Azeglio Ciampi, già suo compagno di studi a Pisa, che poi da presidente della Repubblica lo nominò nel 2005 giudice alla Corte costituzionale. Nel mezzo, una miriade di incarichi pubblici su chiamata di Palazzo Chigi o di qualche ministero per riformare questo e quello: dalla gestione del patrimonio immobiliare pubblico alle partecipazioni statali, passando per il contrasto alla corruzione. Ma è stato generosissimo anche con i privati e loro con lui: ha servito Olivetti, Autostrade, Assicurazioni Generali, Lottomatica, Banco di Sicilia. Poi la Consulta e più di recente altri ruoli da civil servant: fino al 2017 è stato presidente della Scuola dei Beni Culturali e per un soffio gli è da poco sfuggita la guida della Scuola nazionale dell’Amministrazione.

Ma che importa. Chiusa una porta si potrebbe aprire un portone, e che portone: del resto, per citar le sue parole, nella vita ci vuole “culo”, “nel senso di metterlo sulla sedia applicandosi con costanza”. E Cassese, quanto a culo, non ha pari. Per questo è sempre accreditato per il Quirinale, che di riffa o di raffa non ha mai smesso di frequentare: due dei suoi allievi più brillanti e prediletti sono il figlio del Capo dello Stato, Bernardo Giorgio Mattarella, e l’erede del presidente emerito, Giulio Napolitano. E poi c’è Marta Cartabia, altra protegé entrata nella sua nidiata e che soddisfazione vederla prima nominare dall’allora Re Giorgio alla Consulta e oggi Guardasigilli. Alla corte di Mario Draghi che Cassese, manco a dirlo, adora sicché ha posto fine alla deriva degli incompetenti, leggasi la masnada a cinque stelle che Giuseppe Conte si è preso in carico disonorando la pochette e, va senza dire, l’élite di cui il professore è massimo interprete. Sarà per questo che Cassese non ha mai digerito l’ex premier, figurarsi i suoi dpcm d’emergenza con cui avrebbe umiliato la democrazia. E che importa se Draghi ha fin qui varato una tombola di decreti che il Parlamento è costretto ad approvare senza neppure il tempo di averli letti: Cassese benedice, anzi se potesse ci metterebbe la firma. Basta saper attendere: alle 9 del mattino, fa sapere, è sempre pronto in giacca e cravatta.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/11/07/cassese-il-prof-delle-elite-servitore-di-stato-e-privati-in-corsa-dal-secolo-scorso/6382918

venerdì 20 novembre 2020

Renato Schifani non è una muffa, e torna come osso di seppia. - Pino Corrias

 

Il ritratto. Dalla Sicilia con Silvio nel cuore.

Renato Schifani non è una muffa, ma il nuovo consigliere politico di Silvio B. La prima circostanza l’ha stabilita a suo tempo un tribunale della Repubblica italiana, interpellato dallo stesso Schifani. E ci sta, visto che stiamo parlando di un ex presidente del Senato. La seconda è invece l’ennesima trovata del Dottore che (appena fuori dal giro degli inseparabili: Gianni Letta, Confalonieri, Dell’Utri) si diverte a nominare i suoi provvisori consiglieri come si fa con il personale di servizio, scegliendoli tra i molti dotati dell’X Factor della fedeltà, per poi spremerli sino a quando l’abnegazione dei prescelti si deteriora per sfinimento. È successo dai tempi di Enzo Cartotto, agli albori del partito azienda, passando per Giuliano Urbani, Giuliano Ferrara, Marcello Pera, Gianfranco Fini, Sandro Bondi, Sabina Began, Angelino Alfano, Francesca Pascale, giù giù fino a Giovanni Toti, il penultimo.

Ripescato dall’oblio, Renato Schifani, palermitano, detto in gioventù “freno a mano” per l’innato carattere oggettivato nella cautela con cui guidava la sua Fiat 500 L, servirà a facilitare l’ultimo giro di giostra del Dottore che secondo i migliori politologi di Palazzo, finiti i processi, le prescrizioni, le pupe, le bugie e forse anche i voti, si appresta a diventare Statista. Cioè pronto per le larghe intese, che poi sarebbero il salvataggio di Mediaset e la spartizione del malloppo vero, i 209 miliardi di euro in arrivo dalla perfida Europa.

Sebbene l’iracondo Filippo Mancuso, buonanima, a suo tempo ministro di Grazia e giustizia lo avesse definito “esperto in recupero crediti”, Renato Schifani è avvocato raffinatissimo, ramo civilista, cresciuto nella bella Palermo del sacco edilizio, quando la festa la organizzava Vito Ciancimino sindaco e i cronisti, come ha scritto Enrico Deaglio nel suo Raccolto rosso, scendevano in Sicilia per andare al mare o per un nuovo morto ammazzato importante.

Nato nell’anno 1950, Renato viene da una famiglia di piccola borghesia, padre e madre impiegati comunali. Studente senza soprassalti, blandì il suo cauto ’68 partecipando all’occupazione del liceo, “ma senza mai scendere in piazza”. A vent’anni è già democristiano. Poi dottore in Giurisprudenza con lode. Primo impiego al Banco di Sicilia. Il tempo di vestire la toga e due anni dopo entrare nello studio legale di Giuseppe La Loggia, avvocatone d’alta dinastia democristiana, diventando il timido amico del figlio esuberante, Enrico, detto ‘u babbiuni dai compagni del liceo Gonzaga. Insieme entreranno nella Sicula Broker, società di assicurazioni, con soci finiti anni dopo nei dossier dell’antimafia. A Palermo capita. E insieme saliranno i gradini di Forza Italia. A partire dalle leggendarie elezioni del 1996, quelle del 61 a zero, apoteosi del berlusconismo in Sicilia.

Trasferitosi con la famiglia a Roma, Schifani inaugura la sua seconda vita, facendo dimenticare certi dettagli della prima. Compreso il peculiare incarico professionale ricevuto nel 1983 da Giovanni Bontate, fratello del capomafia Stefano, principe di Villagrazia, per difendere la titolarità del suo ingente patrimonio – imprese edili, decine di appartamenti, ville, casali, agrumeti – dagli assalti giustizialisti della Cassazione che pretendeva di sequestrarglieli. Studia le carte, prepara la difesa, onora il mandato. Peccato che a rendere superflua la sua fatica professionale ci abbiano pensato i corleonesi di Totò Riina, che dopo avere fucilato a colpi di kalashnikov Stefano, morto nel centro di Palermo, liquidarono con due colpi alla nuca anche il fratello, appena scarcerato dall’Ucciardone per motivi di salute, anno 1988. A Palermo capita.

Ben venga Roma, dunque. Con le interminabili riunioni in Palazzo Grazioli, le serate al Bagaglino che fu il vero teatrino di quegli anni, e la mirabile carriera di Schifani, diventato prima capogruppo di Forza Italia, anno 2001, poi addirittura presidente del Senato, 2008-2013, seconda carica della Repubblica. Anche se la pertinenza non memorabile dei suoi interventi politici aveva ricadute blande sui giornali. Salvo che per due circostanze. La prima tricologica, per via del suo clamoroso riporto che occupava i due terzi della sua testa pensante, con scia di commenti, risate e disappunti estetici dell’intera nomenklatura arcoriana. E la seconda per il celebre Lodo intitolato a suo nome che mirava a difendere il suo maggiore cliente, Silvio B., dagli assalti giustizialisti delle Procure che pretendevano di metterlo sotto processo. Non bastando le batterie di deputati, giornalisti, lobbisti, la depenalizzazione del falso in bilancio, il blocco delle rogatorie, le norme sul legittimo sospetto, gli allungamenti dei processi e gli accorciamenti delle prescrizioni, i condoni fiscali, la detassazione degli utili, le macchine del fango contro i nemici, serviva aggiungere ancora l’ultimo miglio, l’ultimo sforzo. E fu il “Lodo Schifani” a incaricarsi di quel tocco coreano al nostro catalogo di leggi, anno 2003: vietato processare le cinque più alte cariche dello Stato, diceva la nuova norma, cancellata a stretto giro dalla Corte costituzionale per manifesta scempiaggine.

Di tutto il suo tribolare politico avvocatesco resta il vanto di avere contribuito all’ingaggio del celebre senatore Sergio De Gregorio passato da sinistra a destra per un intimo convincimento risarcito con 3 milioni di euro da Silvio B. E restano due frasi di prudentissimo conio: “Il presidente Berlusconi ha ragione”, ripetuta in premessa e a consuntivo di ogni intervento. E la più atroce per un palermitano: “Ho sempre tenuto al Milan”.

Sparì dai radar un giorno del 2014 con il consigliere politico di allora, l’Angelino Alfano, anche lui in fuga per crollo psicologico. Provarono insieme a costruire il castello di sabbia del Nuovo centrodestra, di cui non resta neanche la traccia del secchiello. Li inghiottì la stessa risacca che oggi ce lo restituisce calvo, come fa il mare con gli ossi di seppia. Vediamo quanto dura stavolta la sua prudenza.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/20/renato-schifani-non-e-una-muffa-e-torna-come-osso-di-seppia/6010029/