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venerdì 16 luglio 2021

Renzi è peggio di Craxi: per lui la politica è un affare privato. - Pietro Corrias

 

Nel mondo capovolto di Matteo Renzi, foderato di inchieste, ville col mutuo, querele, prestiti bancari, telefonate imbarazzanti, tradimenti doppi e tripli, amici carcerati, conferenze a tassametro, i soldi sono solo soldi, la politica non c’entra. Ci mancherebbe. E a proposito dei 700 mila euro ricevuti da Lucio Presta per girare un documentario davvero inedito sulla Firenze Rinascimentale, purtroppo valutato pochi spiccioli dai ragionieri del libero mercato, ci raccomanda di non farci idee sbagliate sull’intreccio giudiziario che sventatamente lo riguarda: il malloppo è suo, lo ha incassato “in modo lecito, regolare, trasparente”. E più precisamente: “Quei soldi appartengono alla mia vita privata e li uso per la mia vita privata”.

Accadeva – in un tempo ormai remoto – proprio il contrario. Qualunque Cirino beccato con la grana nel materasso o il quadro d’autore appeso nel salotto, s’affrettava a scaricarsi la coscienza sulle spalle (e nelle tasche) del partito. Il malcapitato chiedeva clemenza per il disguido d’appropriazione indebita, ammetteva con la lacrima del rimorso e l’inchino delle buone intenzioni, tipo l’indimenticabile Lorenzo Cesa, “sono pronto a vuotare il sacco”, tutti sempre giurando di averlo fatto non “per arricchimento personale”, ma per l’ideale. Intitolato qualche volta a don Sturzo, talaltra a Pietro Nenni, o a Umberto Terracini. E che solo nelle urgenze della vita reale, ahinoi, quell’ideale si era voltato in una bella villa sulla costiera, una sede sfarzosa di partito, qualche clientela, qualche viaggio, qualche discoteca, e poi vabbè, le pupe, i vestiti, i ristoranti, oltre alla ricorrente seccatura delle campagne elettorali utili a rinnovare l’ideale e il malloppo. Una commedia che ha smesso da tempo di andare in scena, salvo che nella cella frigorifera dove si ostina ad abitare Stefania Craxi, immune agli anni che sono passati dalla parabola di suo padre, che si rubò, al netto dei miliardi, l’intera storia del Partito socialista.

Il pronipote Renzi è di tutt’altra pasta. Rivendica, non dissimula. Nella sua celebre auto-intervista a Piazzapulita, ha detto: “Se lei mi domanda se sono stato in Arabia Saudita a fare conferenze, sì. Sono stato negli Emirati Arabi? Sì. In Cina? Sì. Oggi ero in Olanda. L’altra settimana a Barcellona. Sì, vengo retribuito per fare delle conferenze perché c’è gente che pensa che sia interessante ciò che ho da dire”. Anche su Santa Croce, sul David di Donatello e su una sua recente scoperta, gli Uffizi. Nulla lo turba. La politica per lui è un lavorare in proprio. Che sia per un documentario o per il Quirinale prossimo venturo. Con il Pd e contro il Pd. Con Berlusconi quando serve, con Denis Verdini sempre. Qualche volta contro Matteo Salvini, qualche altra volta in coda. Arbitro in proprio del suo dire e disdire. Imbrogliare le carte in tavola. Rivoltare la frittata. Friggere la parola data: “Se perdo il referendum non mi vedrete più”. Come? Gli avevate creduto?

A questo giro dell’inchiesta – mentre il fiorentino si traveste da vittima dei guelfi neri, i magistrati – ci cascano i più facinorosi della destra di carta, quella che strilla legge, ordine e mazzate, ma solo per i poveracci. Lieti di condividere, nel manicomio delle loro ossessioni extralegali, l’ora d’aria con il nuovo martire della “giustizia a orologeria”. Renzi Matteo, l’ennesimo prigioniero della “vendetta dei pm”, anzi del “cancro della magistratura incosciente” diventata “una emergenza nazionale che necessita un intervento non più rinviabile”. Preparate i moschetti. Avanti con i referendum. Che Renzi forse firmerà o forse no. Intanto lancia il libro. Incassa il fatturato. Minaccia: “Non temo niente e nessuno” come ringhiavano agli sceriffi i cercatori d’oro nel Klondike.

ILFQ