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martedì 10 novembre 2020

Charlie Hebdo, d’accordo o no, il diritto di blasfemia va difeso. - Daniela Ranieri

 

In merito al dibattito sulla “libertà di blasfemia” apertosi in Europa in seguito alla decapitazione da parte di un terrorista franco-ceceno del maestro Samuel Paty a Conflans-Sainte-Honorine e all’uccisione di tre persone a Nizza, sembra prevalere una posizione di buon senso. Barbara Spinelli sul Fatto cita il fisico Carlo Rovelli: “Non costa proprio niente evitare di offendere i musulmani pubblicando immagini offensive di Maometto”, e conclude che l’eccesso di laicità sfocia nell’islamofobia e alimenta la violenza, da cui segue che sarebbe meglio non venissero mostrate a scuola le vignette di Charlie Hebdo. Si dà per scontato che un’opera dell’ingegno possa essere oggettivamente definita offensiva, e che quella presunta oggettività debba essere interiorizzata e costituire un auto-limite. Ma chi stabilisce cos’è un’offesa? Chi decide quando qualcosa è oltraggioso, cioè a cominciare da quale tratto, stilema, allusione? Questo non possono deciderlo quelli col kalashnikov; non possono stabilirlo nemmeno governi e parlamenti, che in contesti culturali diversi darebbero di “offensivo” una definizione diversa, aprendo a una discrezionalità senza limiti.

Se deroghiamo a questo principio, cioè all’impossibilità di stabilire cosa costituisce un’onta passibile di essere lavata col sangue, entriamo in un territorio pericoloso. Lupi solitari vitaminizzati con video cruenti di YouTube e del tutto ignari dell’insegnamento del Corano possono decretare offensivo che un vignettista o un insegnante nomini Maometto invano, e vendicarsi uccidendolo. Autoregolarsi sulla base del terrore vuol dire che ciò che si può scrivere e disegnare lo stanno decidendo i fondamentalisti islamici. Desacralizzare ciò che è considerato sacro è uno dei compiti della satira: una società che lo consente non è una società sacrilega, bensì una società democratica. Dire che l’insegnante non avrebbe dovuto mostrare le vignette presuppone che non solo l’autore, non solo il direttore e l’editore del giornale che pubblica le vignette, ma anche chi ne spiega i codici, che ne condivida o meno l’atmosfera morale, deve censurarsi. Questo, ha detto bene Macron, è incompatibile con la democrazia. Un insegnante che volesse mostrare oggi quelle vignette per spiegare ai suoi alunni il delitto di Samuel Paty lo farebbe a rischio di finire decapitato. Deve forse operare una censura alla memoria collettiva? Come ha detto il filosofo Alain Finkielkraut a Repubblica: “Il libretto (con le caricature di Charlie Hebdo, ndr) è l’iscrizione nel marmo di questo fatto inaudito: delle persone sono state assassinate per aver pubblicato o commentato in classe dei disegni”. Il mondo occidentale progressista e blandamente laico ha ormai operato l’equivalenza tra islamofobia e delitto. Possiamo dire che essere islamofobi (o cristianofobi, etc.) non è una bella cosa, che non è civile, non è evoluto provare repulsione per i fedeli di una religione; ma non è un delitto. Parimenti non lo è non avere una sensibilità religiosa. Se approviamo come limite la suscettibilità di svitati armati, accettiamo la logica tribale, introiettiamo la legge del taglione. “Non ci costa niente non offendere” è un’asserzione di buon senso, ma fuori fuoco. Ci costa tutto. L’argomentazione su cui si basa è solo una: che essere rispettosi è meglio che non essere rispettosi. Ma questa legge di civiltà non può essere stabilita dai carnefici. A essa sono superiori il pensiero critico, la libertà creativa, la contemplazione di livelli del discorso più profondi di quelli immediati. Le vendette dei jihadisti vanno condannate senza alcuna riserva (“Eh, ma Charlie Hebdo ha esagerato”), altrimenti si rovescia la colpa del carnefice sulla vittima, quando semmai la colpa di Charlie Hebdo è quella di aver spesso nascosto sotto la libertà di blasfemia la conformità all’ideologia dominante e l’adozione dei suoi codici di insensibilità e cinismo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/10/charlie-hebdo-daccordo-o-no-il-diritto-di-blasfemia-va-difeso/5997895/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=commenti&utm_term=2020-11-10&fbclid=IwAR1wL5JnhjUfEb6E7O4x5hDDEporJ5FIFPS5xctQvV8eVMwiviMSxPAcWhk

Non può esserci diritto di blasfemia o fare appello alla democrazia per esercitare il diritto di blasfemia, quando chi pretende di esercitarlo non permette che si faccia blasfemia sul proprio Dio.
In Italia, la legge non considera reato la blasfemia, ma prevede un'ammenda amministrativa di 300 euro per chi bestemmia Dio.
Trovo assurdo, stupido e senza senso fare ironia sulla sacralità di ogni individuo, come trovo assurda la reazione di chi reagisce all'ironia uccidendo chi l'ha esercitata.
C.


martedì 18 novembre 2014

Università: ecco la classifica delle facoltà più “inutili”, secondo Almalaurea.



Il consorzio universitario che si occupa della ricerca dati dell’istruzione italiana ha pubblicato la classifica delle facoltà con la più alta percentuale di disoccupati a un anno dalla laurea. Nella top ten ci sono ben 9 università umanistiche.

La facoltà più inutile d’Italia? E’ Giurisprudenza. Almeno a guardare i dati del consorzio interuniversitario Almalaurea che ha pubblicato di recente la classifica dei corsi universitari con la più alta percentuale di disoccupati a un anno dalla laurea. Una precisazione va fatta subito, come del precisa lo stessa Almalaurea: per quanto possa trattarsi di una pubblicazione utile per gli studenti ancora indecisi in questi ultimissimi giorni d’iscrizione, è comunque una graduatoria da prendere con le molle vista la presenza di numerose variabili che entrano in gioco. Ad ogni modo in testa, come detto, c’è Giurisprudenza con il 24% dei disoccupati, seguita da Psicologia (18%) e Lettere (15%). Chiude la classifica Sociologia con l’11% di disoccupazione.

Le “inutili” facoltà umanistiche

Ciò che si evince da questa davvero poco onorevole classifica è che le facoltà umanistiche sono indubbiamente quelle che producono il numero più alto di laureati inadatti alle esigenze del mercato del lavoro. Non a caso, le prime nove facoltà con il maggior numero di senza lavoro a un anno dalla laurea sono tutte umanistico/letterarie: Scienze sociali, Lingua e letterature straniere, Scienze della comunicazione e Scienze politiche, Arte e design e Filosofia, sei facoltà con un tasso occupazionale compreso fra il 14 e l’11%. Per trovare una facoltà tecnico-scientifica bisogna scendere al decimo posto con Agraria. ”Fuori concorso” sono invece Medicina e Chirurgia, Ingegneria, Biotecnologie, Farmacia e Scienze Statische che registrano il più alto tasso di occupazione in Italia.
Fonte: http://opinioni-master.it/
I dati di Almalaurea non devono però essere interpretati alla lettera. Nel senso che l’utilità di una facoltà piuttosto che un’altra non può essere considerata esclusivamente sulla base dei riscontri occupazionali. Vanno infatti considerati anche fattori soggettivi: fondamentalmente, cosa ci piace fare. In altre parole, l’istruzione non è finalizzata unicamente alla realizzazione nel mercato del lavoro, ma contribuisce al nostro benessere anche in altri ambiti della vita personale. Inoltre, va considerata anche la qualità dell’inserimento professionale e non solo la quantità: oltre al guadagno e all’effettivo utilizzo delle competenze bisogna riflettere anche sul peso che ha la soddisfazione personale della scelta di una facoltà. Altra cosa importante: non ci si può limitare a verificarne gli effetti solo ad un anno dalla laurea. Insomma, il bagaglio di esperienze e conoscenze di cui ci dotiamo all’università ci accompagna lungo tutta la vita.
http://www.fanpage.it/universita-ecco-la-classifica-delle-facolta-piu-inutili-secondo-almalaurea/