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sabato 5 gennaio 2013

Quando la Cultura fa mercato. E' l'Italia che si muove. - Sergio Di Cori Modigliani



L’augurio per il 2013 al mio paese.
Che cosa fare e dove operare.

La Cultura fa mercato e crea le condizioni per lo sviluppo economico di una nazione”.

Un’affermazione ovvia, che fino a qualche decennio fa, quantomeno in tutto l’emisfero occidentale, sarebbe stata considerata banale e rozzamente elementare.

Oggi, invece, in Italia è diverso.

E’ considerata una frase priva di Senso compiuto, sia teorico che pratico.
Molti non ne comprendono neppure il Significato.

Il successo –direi un vero e proprio trionfo- che ha ottenuto, negli ultimi venti anni, in Italia, l’ideologia iper-liberista mercatista si fonda sull’ abbattimento della “Cultura delle Imprese” (per sua natura anti-aristocratica) e la ricostituzione della  vecchia burocrazia imperiale al posto di quella efficiente manageriale, sullo spostamento dall’economia reale, ovvero la produzione di merci uniche e nazionali,  a una economia virtuale sorretta dalla finanza internazionale, disinvestendo quindi dall’innovazione, dalla ricerca e dallo sviluppo culturale. La classe politica si è prestata a questo gioco, mettendosi al servizio degli oligarchi e fornendo il servizio richiesto: i partiti politici si sono trasformati in aziende commerciali di gestione burocratica, sostituendosi alle aziende vere e proprie, costituendo un meccanismo capillare di finanziamento alle imprese attraverso la ricostituzione di un vero e proprio dispositivo di tradizione medioevale: le corporazioni rinascimentali gestite dalle antiche signorie, ovverossia, le fondazioni bancarie. I partiti si sono divisi i posti di comando nelle fondazioni e l’intero sistema industriale italiano ha finito per perdere la possibilità di esercitare alcuna forma di pressione sociale sulla politica, sulle istituzioni, sulla società civile, sullo Stato centrale, rinunciando alla propria funzione nella formazione dell’inconscio collettivo nazionale.  Ogni singola fondazione si è occupata di “globalizzare mentalmente” il paese omologandolo agli aspetti più deteriori del consumismo, abbassando quindi il livello della domanda collettiva per poter giustificare l’appiattimento dell’offerta proposta.  Essendo guidate da funzionari di partito che in parlamento guidavano il paese, hanno usufruito di continue sovvenzioni da parte dello Stato, restituendo una parte dei soldi in forma di tangente a favore di persone, personalità, enti, associazioni, gruppi, strutture, controllate dai partiti. E’ stata scelta questa forma di sussidio all’italiana, al posto del finanziamento alle aziende per sostenere il loro sviluppo. In tal modo è stato costruito, consapevolmente, un “incartamento” della struttura industriale della nazione che non si è più trovata nelle condizioni di poter essere in grado di produrre merci e prodotti. Le aziende italiane sussidiate dalle fondazioni bancarie/dai partiti/dallo Stato, sono diventate, in realtà, degli  “enti astratti”  delegati al trasferimento di  soldi alla società civile, abbattendo, in questo modo, l’identificazione “Lavoro = Valore”.
E’ nata così “l’imprenditoria italiana” della fine anni’90, una variante folle e surrealista, basata sulla rinuncia al concetto d’impresa, sull’annientamento della cultura d’impresa, sull’inesistenza della concorrenza, sull’inutilità dell’applicazione del concetto di merito e competenza tecnica, perché gran parte delle aziende si è trasformata in “mediatori di un continuo flusso di danaro” di cui i partiti diventavano garanti, con la totale complicità dei sindacati che si sono trasformati in gruppi oggettivi di conservazione di privilegi.
Nello stesso tempo è partito l’attacco alla Cultura, sostenendo anche che fosse inutile… In verità lo era diventata. Da potenza industriale variegata, ricca e policroma, autonoma e indipendente, l’Italia è diventata una gigantesca azienda nel settore terziario.
La struttura industriale italiana (potentissima e dotata di una sofisticata quanto invidiabile cultura) ha cominciato prima a pencolare verso la quantità invece che verso la qualità, e poi ad uniformarsi a concetti standard ideologizzati “nel nome del mercato” dove la concorrenza internazionale ha avuto gioco facile nel massacrare letteralmente la spina dorsale della nazione. “Deculturalizzando la redditività e la produttività” è stato poi un gioco da ragazzi far passare il principio quantitativo al posto di quello qualitativo; comprensibile e giusto per una nazione di 1 miliardo e mezzo di persone senza nessuna tradizione né cultura di mercato, come la Cina; completamente suicida per una nazione di 60 milioni di persone come l’Italia, che negli ultimi 1000 anni era sempre stata all’avanguardia nel produrre Cultura di mercato e quindi anche mercato della Cultura.

Fondamentale, in questo senso, l’opera egregia svolta da Silvio Berlusconi, la persona migliore per riuscire a guidare un processo generale di de-industrializzazione, non essendo lui né un imprenditore né tantomeno un industriale, ma un venditore di pubblicità e uno speculatore, quindi l’individuo migliore per dar vita a un processo generale e collettivo di “idiotizzazione”, ignoranza diffusa, investimento finanziario nella speculazione, caduta generalizzata di valori etici e di rispetto verso lo Stato di Diritto, in modo tale da poterne poi giustificare l’espoliazione sistematica. La Chiesa si è perfettamente inserita in questo trend approfittando di un’occasione unica e irripetibile: la possibilità di riagguantare la Storia, riportando il paese alla situazione precedente all’unità d’Italia, quando l’accesso all’istruzione e alla sanità passava soprattutto attraverso i loro centri di ricerca, le loro ottime università specializzate, i loro ospedali e le loro cliniche ben attrezzate. Ha perfettamente ragione Berlusconi nell’ammonire il Vaticano, come ha fatto dieci giorni fa,  ricordando loro “l’enorme generosità dei governi da me presieduti che non hanno mai dimenticato di servire la Chiesa aiutandola in ogni senso e in tutti i campi”. E’ andata proprio così. Ha perfettamente ragione.

La frase di Giulio Tremonti, nel maggio del 2011, “la Cultura, notoriamente non dà da mangiare neanche un panino” è una frase che se fosse stata pronunciata da un ministro dell’economia italiano nel 1983, avrebbe comportato immediatamente le sue dimissioni e un allontanamento dai vertici del suo partito, qualunque esso fosse. Una frase come quella, infatti, nel 1983, in un paese come il nostro, sarebbe stata interpretata come uno slogan delle brigate rosse, nel senso di un vero e proprio attacco al cuore pulsante dello Stato. Perché allora il “prodotto Italia”, ovvero la grande massa di merci italiane che si erano imposte nei decenni dovunque, portando la nazione dal 49esimo posto nel mondo, com’era nel 1945, alla quinta posizione come potenza industriale, com’era nel 1985, ruotava tutta intorno alla imbattibile “qualità culturale delle imprese nazionali”.  Valga per tutte la celeberrima frase di Doug Watson, famoso grande industriale americano, pronunciata alla fine degli anni’70, quando entrò furibondo alla riunione del consiglio di amministrazione della sua mega azienda californiana, accompagnato dai suoi assistenti che spingevano una piccola lavatrice -l’ultimo modello commercializzato dalla Zoppas- e dopo aver sgridato tutti e aver annunciato il licenziamento dell’intero management direttivo, diede un pugno sul tavolo e disse: “Ditemi voi come sia possibile che un piccolo paese di cantanti d’opera e di pizzettari sia in grado di fare una lavatrice così potente e così bella come questa, a un prezzo il 20% inferiore alla nostra migliore produzione?”.

Bisogna ripartire da lì.

Il 2013  inizia, in Italia, in piena campagna elettorale.
Il che vuol dire che almeno fino al 24 febbraio non si potrà parlare di nulla di sensato e utile perché saremo, inevitabilmente, oggetto di manipolazione, propaganda, continuo bombardamento mediatico e non. Ogni partito si affannerà a pedinare l’attualità cercando di agguantare il massimo di voti possibili, disponibili al più squallido trasformismo.
Ho letto i programmi di tutti i partiti e della maggior parte di movimenti e liste civiche rappresentati a livello nazionale. Non c’è nessuno che abbia mai menzionato (neppure tangenzialmente) il termine “cultura d’impresa” o “impresa della Cultura”; nei rari casi in cui termini analoghi sono stati impiegati erano inseriti all’interno di una frasetta demagogica perché qualche consulente media avrà ricordato al gruppo dirigente di dedicargli almeno mezza riga.
E’ come se questo paese avesse volontariamente scelto di eliminare la propria migliore e più succosa eredità e avesse deliberatamente scelto di non investire nella più facile e naturale delle vie da seguire: quella già battuta e dimostratasi nei decenni vincente.

Qualunque sia l’appartenenza ideologica degli italiani pensanti, non è realistico poter puntare a una ripresa e uscita dalla crisi se non si ritorna a coniugare la Cultura all’Impresa, come fece l’ingegnere Adriano Olivetti nel 1950 quando diede vita alla rivista “Civiltà delle macchine”, un fondamentale mensile dell’epoca dove si fecero le ossa Calvino, Moravia, Pasolini, Bertolucci, Parise, Morante, Piovene, Ginsburg, Pratolini, Ortese, dando poi vita a un intero settore culturale che sfociò in quella particolare e specifica corrente letteraria dei primi anni’60 che si chiamava “letteratura industriale” di cui Ottiero Ottieri fu il geniale interprete e ideatore, finanziato da Valentino Bompiani.

Senza la Cultura, la “Impresa Italia” non ce la farà a rimettersi in piedi, è bene che la Confindustria se lo metta bene in testa e che gli industriali e imprenditori lo capiscano.
Ma senza le imprese che finanziano gli intellettuali e la Cultura, non sarà possibile neppure rifondare la necessaria nuova classe di liberi intellettuali non più asserviti agli squallidi interessi di bottega dei partiti-azienda, è bene che la Confindustria se lo metta in testa; ed è bene che gli intellettuali e artisti comincino –a loro volta- ad avere il coraggio di voltar le spalle ai partiti-azienda e rivolgersi invece alle aziende e agli imprenditori in cerca di finanziamenti, committenze, per costruire le alleanze necessarie per ricostruire il paese.
E finalmente costruire insieme mercato, quindi lavoro, pertanto sviluppo.

Così era il paese quando funzionava. Sta nelle nostre corde. Sta nella nostra tradizione. Soprattutto appartiene al nostro dna culturale.
Ed è lì che bisogna andare a pescare.

Mentre pensavo a scrivere questo post, cercavo di pescare nella mia memoria un forte ricordo aneddotico da potervi offrire come bel viatico per l’anno che si apre. L’ho cercato nel 2012, e poi nel 2011 e sempre più indietro. Non riuscivo  a trovarli. Finalmente mi sono ricordato di un episodio di cui sono stato fortunatissimo e orgoglioso testimone, a metà degli anni’90, prima che l’attuale classe politica decidesse e scegliesse di gestire e pilotare il declino della nazione.
Vi regalo questa mia memoria biografica come passaporto d’augurio per il nostro futuro.

E’ avvenuto a New York, a Manhattan, dove allora risiedevo, nel mese di ottobre, in una giornata di splendido sole e di perfido freddo ventoso. Si celebrava in quei giorni la settimana della moda, in un momento molto particolare perché gli Usa avevano deciso di lanciare New York per far concorrenza a Milano, Parigi e Londra nel campo del pret a porter, degli accessori, del lancio dei trend di massa, nel tessile lavorato. Tra le mie varie attività, allora, c’era quella di editorialista di un bel settimanale edito dalla Rizzoli, “Il Mondo” dove curavo una rubrica di economia e finanza dalla costa occidentale americana. Una delle mie fonti principali era un funzionario dello stato, il responsabile a New York dell’Ice (Istituto per il Commercio con l’Estero) un funzionario di carriera, ormai vicino alla pensione, con 35 anni di carriera alle spalle, tutta costruita all’interno dell’apposito ministero, con promozioni ottenute grazie alla sua competenza, onestà, vastissima cultura del mondo industriale e una notevole intuizione dinamica. Ci eravamo messi d’accordo per una intervista in esclusiva, ma all’ultimo momento aveva rimandato di qualche giorno, e poi rimandato ancora. Pensavo che avesse deciso di non concedermela più, finchè un pomeriggio mi aveva telefonato e mi aveva detto: “Venga domattina nel mio ufficio alle 11.50, così le faccio vedere in esclusiva come entriamo alla grande nel mercato americano. Mi raccomando la puntualità. L’aspetto”. Mi aveva colpito la precisione dell’ora perché non mi risultava che alle 12 ci fosse nessun tipo d’appuntamento o scadenza. Il mattino dopo, siccome dovevo fare delle commissioni in diversi uffici che si trovavano dalle parti del consolato, decisi di uscire un paio d’ore prima per avviarmi verso quella zona. Uscii da casa senza aver letto prima i quotidiani. Mi incamminai a piedi pensando di prendere un taxi ma tutte le vie erano intasate e c’era un traffico impressionante. Mentre camminavo per il marciapiede, a un certo punto vedo uscire da un ricco condominio una donna impellicciata con una bandierina italiana in mano. Trovai il fatto curioso, ma non più di tanto, a New York succede di tutto. Dopo qualche metro vedo uscire da un altro portone due donne, probabilmente madre e figlia, anche loro con due bandierine italiane in mano. La cosa mi colpì. Decisi di lasciar perdere le mie commissioni e data l’impossibilità di muoversi nel traffico pensai di andare all’appuntamento a piedi. Ogni tanto, mentre mi avvicinavo al consolato mi capitava di incontrare delle persone che avevano in mano una bandierina italiana, ma non riuscivo a capire perché e dove stessero andando. Feci una scorciatoia e passai davanti all’ingresso dell’agenzia di modelle Tom Ford, la più famosa all’epoca. Davanti all’ingresso c’erano una decina di modelle vestite di tutto punto con una bandierina italiana in mano. Arrivai all’appuntamento con una decina di minuti di anticipo e il funzionario mi ricevette subito. “Venga venga, andiamo subito di corsa, mi segua, parliamo strada facendo”. Uscimmo dall’ufficio e ci incamminammo a piedi per una via laterale, dopo circa trecento metri entrammo in un edificio attraverso l’ingresso di servizio. Salimmo dentro un enorme montacarichi fino al quarto piano. Era un gigantesco loft, saranno stati almeno 1000 metri quadri, pieni di casse, alcune imballate, altre già aperte con degli impiegati che prendevano il contenuto e lo sistemavano su degli scaffali. Il funzionario mi spiegò che quello era il magazzino dell’Ice e quelle erano le merci delle diverse aziende italiane, suddivise per regioni, che avrebbero dovuto partecipare sia alle sfilate che alla fiera del tessile che si apriva di lì a venti giorni. Attraversammo l’ampio salone e arrivammo a una porticina in fondo, in ferro, una delle uscite di sicurezza. Il funzionario, prima di aprirla, prese un binocolo e me lo porse: “Questo è per lei, così può vedere i dettagli”. Uscimmo fuori, all’aperto, dava su un ballatoio anti incendio. Percorremmo la ringhiera e arrivammo su un piccolo balcone che dava sulla Fifth Avenue, la più importante arteria commerciale del mondo occidentale. Sotto c’era una enorme folla assiepata ai due lati della strada, migliaia  e migliaia di persone, soprattutto tante donne, e tantissimi fotografi, tutti con in mano una bandierina italiana che agitavano continuamente. Il funzionario controllò l’orologio e mi disse: “Tra cinque minuti passa”. Mi diede il binocolo per seguire meglio la scena. Guardavo in giro morendo dalla curiosità, perlustrando la folla. E finalmente arrivò il corteo, preceduto da una ventina di carabinieri a cavallo in alta portata, e dopo di loro una limousine decappottabile che procedeva a passo d’uomo tra due ali di folla. Non appena comparve la macchina la gente cominciò a urlare e applaudire. Accanto all’autista che guidava c’era una specie di quadro, con una vecchia cornice, ma il sole ci sbatteva sopra e non riuscivo a distinguere il disegno. Nel sedile di dietro c’erano tre persone. In piedi, con un fazzoletto in mano che sventolava salutando la folla, Luciano Pavarotti. Accanto a lui, seduto e impettito, immobile, Riccardo Muti. Sembrava una statua di sale. Dalla parte opposta, Franco Zeffirelli, accasciato su se stesso, che piangeva senza ritegno. La gente urlava e buttava fiori verso la limousine. Pavarotti li raccoglieva e li ributtava verso la folla. Una scena davvero incredibile. L’automobile attraversò tutta la via, lentamente, fino a Central Park. Un trionfo davvero impressionante. Il funzionario mi fece vedere il New York Times che non avevo ancora letto “Ha visto che roba? Così ci apriamo il mercato, e questa volta, vedrà faremo centro”. Sulla prima pagina –un fatto rarissimo e unico- c’era l’articolo del critico teatrale del giornale. Il titolo era “When Italians bring us to Paradise” (quando gli italiani ci portano in paradiso) ed era la recensione dell’anteprima, che si era svolta due sere prima al Metropolitan, della Turandot di Puccini, per la regia di Zeffirelli e la direzione musicale di Muti, con Pavarotti come tenore. Gli americani erano rimasti totalmente ipnotizzati dalla serata e dalla impressionante ricchezza della messa in scena, con centinaia di metri di tessuto, tutto fatto fare a mano, con dei costumi davvero splendidi. In città non si parlava d’altro. Il giorno dopo, guardando la fotografia sul giornale, mi resi conto che il quadro incorniciato messo accanto all’autista era una immagine del 1920 di Giacomo Puccini. Sull’onda dell’immediato passaparola, in poche ore, il funzionario era riuscito a organizzare questo corteo, facendo spendere al ministero una cifra -per il suo budget- spropositata, dato che aveva fatto chiudere al traffico due chilometri e aveva fatto pagare circa 300 modelle d’alta moda, davvero costose.
Una settimana dopo, il made in Italy, nel campo della moda, sfondava sul mercato di New York. Venti giorni dopo, alla locale fiera del tessile, l’Italia faceva il pieno conquistandosi il mercato nazionale e trascinandosi appresso anche l’industria del mobile e dell’arredamento da cucina di tutta la Regione Marche. In città non si parlava d’altro. Dovunque si andasse, a un vernissage, a parlare con un analista di borsa a Wall Street, con un gallerista, un’ attrice, in una libreria, si parlava soltanto dell’eleganza e del gusto degli italiani. Se uno diceva “io sono italiano” ci si sentiva dire “beato te, che grande fortuna”. L’Ice, nei successivi due mesi, riuscì a strappare commesse che diede lavoro, complessivamente, a circa 15000 nuove imprese dislocate in diverse regioni italiane, dalle passamanerie alle maioliche, dai divani alle cucine, dai jeans alle cravatte, dalle scarpe alle barche. Entrarono nel mercato gli sconosciuti  Cavalli, Dolce & Gabbana, Diesel, Tod’s, Bluemarine, e altri 200 marchi consolidati. Incontrai il funzionario di nuovo, un anno dopo, quando offrì una cena per festeggiare il suo pensionamento. Pieno di orgoglio mi disse che quella edizione della Turandot aveva fatto scattare un meccanismo che aveva prodotto un giro d’affari per le imprese italiane che rappresentavano il 7% del pil; tradotto in cifre odierne, parliamo di diverse decine di miliardi di euro.

E tutto ciò provocato da quattro artisti italiani, di cui uno morto più di 80 anni prima.  Un toscano, un emiliano e un pugliese.

E secondo Giulio Tremonti “la Cultura notoriamente non dà neppure un panino”.

Questo è il mio augurio per il 2013.

Vorrei sapere che a ottobre di quest’anno, da qualche parte del mondo, potrà accadere la stessa cosa.

Allora, vorrà dire che questa nazione ha ripreso il ruolo che le spetta.

Buon 2013 a tutti.