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lunedì 10 agosto 2020

Emergenza Ponte infinita: tesoretto elettorale di Toti. - Paolo Frosina

Emergenza Ponte infinita: tesoretto elettorale di Toti

Il governatore-commissario incassa la proroga, così potrà rinnovare 316 contratti in scadenza e spendere 13 milioni.
“Il governo chiarisca subito il significato della proroga. Se qualcuno pensasse di utilizzare una legge speciale per rinviare le elezioni, o peggio ancora per chiudere in casa gli italiani, questo avrebbe un solo nome: golpe!”. Si indignava così Giovanni Toti, il 12 luglio scorso, all’idea di un prolungamento dello stato di emergenza per il Covid. “Conte e Speranza farebbero bene a evitare equivoci pericolosi per la nostra democrazia”, tuonava il governatore ligure.
È lo stesso Toti che nemmeno un mese dopo chiede e ottiene – per un anno intero – la proroga di un’altra emergenza, quella per il crollo del ponte Morandi di Genova. Che al contrario dell’emergenza sanitaria, dopo due anni dal disastro è quasi impalpabile: il nuovo viadotto è stato appena inaugurato e gli strascichi sulla vita quotidiana dei genovesi, ormai, del tutto scomparsi. Ma c’è un dato decisivo: il commissario delegato all’emergenza ponte è proprio Toti, che grazie alla proroga, nei prossimi mesi, spera di intestarsi nuove elargizioni alle imprese e persino il rinnovo di centinaia di posti di lavoro. Un asso nella manica che potrà tornare utile in vista della campagna elettorale.
A sentire il governatore, il prolungamento serve “a concludere degli iter già avviati, come gli ultimi risarcimenti per l’autotrasporto che per l’anno in corso partiranno nel 2021”. Poi “siamo in attesa di capire se le nostre richieste per impiegare i fondi residui (13 milioni e 710 mila euro sui 30 complessivi di aiuti alle imprese non utilizzati, ndr) saranno accettate dal Governo”.
E infine, “potranno essere rinnovati anche i contratti del personale assunto per far fronte allo stato d’emergenza”. Partiamo da qui. All’articolo 2 il decreto Genova ha previsto un piano di assunzioni straordinarie, a tempo determinato, in enti locali e società controllate, per tamponare una serie di urgenze post-crollo. Operatori ecologici a rimuovere i detriti, vigili urbani a gestire la viabilità, funzionari pubblici a evadere le pratiche per gli indennizzi.
Sono 316 i contratti di questo tipo, in scadenza a fine 2020. Le assunzioni vanno approvate dal commissario straordinario e Toti ha appena lanciato un messaggio preciso: saranno rinnovati. Anche se quelle esigenze non sussistono più: la viabilità in Valpolcevera è tornata regolare, i resti del vecchio Morandi smaltiti da tempo e gli aiuti economici distribuiti alle imprese, almeno fin dove permesso dalle contraddittorie scelte della stessa Giunta.
E qui veniamo all’altro tesoretto che Toti spera di distribuire: quei 13 milioni e passa di fondi per la ripresa ancora inutilizzati, su cui la Corte dei Conti ligure ha espresso preoccupazione. Si tratta di una parte dei 30 milioni stanziati dall’articolo 4-ter del decreto Genova per le indennità “una tantum” a imprenditori e autonomi (15 mila euro) e per la cassa integrazione in deroga.
Di questi 30 milioni, Toti ne dedica 15 alle “una tantum”, altri 15 alla cassa. Ma a quest’ultima aderiscono in pochissimi: da qui i 13 milioni avanzati e mai reinvestiti, nemmeno quando, a febbraio, il decreto Milleproroghe ne destina 5 all’area di crisi industriale in Valpolcevera. “Toti avrebbe potuto fare di tutto con quei soldi, a partire da nuovi bandi per i contributi una tantum. Invece ha scelto di tenerli fermi”, denuncia Giovanni Lunardon, capogruppo Pd in Regione Liguria.
Ora però promette che darà battaglia per destinarli alle Srl, la categoria di imprese i cui soci sono stati esclusi dalle indennità. “È il governo che deve autorizzarci”, dice. Ma, come ricorda Lunardon, “l’esclusione delle Srl è il frutto di un’interpretazione incomprensibile data dagli uffici della stessa Regione, senza nemmeno consultare l’Avvocatura di Stato.
Al solito Toti cerca di scaricare su altri i propri insuccessi. È facile, ora che siamo in campagna elettorale, accusare il Governo per nascondere la propria inerzia: un presidente di Regione serio avrebbe trovato da mesi il modo di sbloccare quei fondi, anche sbattendo i pugni sul tavolo a Roma, se necessario”. Ma per quello non serve uno stato d’emergenza.

lunedì 14 dicembre 2015

Etruria, banca spolpata tra fidi ai consiglieri e yacht "fantasma" - Alberto Statera



"Come è umano lei!" 
Se non ci fosse già la mestizia per un morto suicida, verrebbe da usare le parole di Giandomenico Fracchia ne "La belva umana" per giudicare "le misure di tipo umanitario" annunciate dal ministro Pier Carlo Padoan a favore dei risparmiatori più poveri, il parco buoi che con le obbligazioni "subordinate" di quattro banche ha perso tutto.

Ruggisce la Chimera di Arezzo verso i 13 ricchi ex amministratori e 5 ex sindaci di Banca Etruria che invece probabilmente non restituiranno mai i 185 milioni che si sono auto-concessi con 198 posizioni di fido finiti in " sofferenza" e in "incaglio", settore che in banca curava Emanuele Boschi, fratello del super-ministro Maria Elena. 
Né, visti i precedenti, restituiranno i 14 milioni riscossi di gettoni negli ultimi cinque anni. Figurarsi poi i 20 primi "sofferenti" per oltre 200 milioni. A cominciare da Francesco Bellavista Caltagirone dell'Acqua Antica Pia Marcia, "un dono fatto all'Urbe dagli dei"(Plinio il Vecchio) esposta con le sue controllate per 80 milioni o la Sacci (40 milioni) della famiglia Federici, passata adesso all' Unicem, o la Finanziaria Italia Spa del Gruppo Landi di Eutelia (16), o ancora la Realizzazioni e Bonifiche del Gruppo Uno A Erre (10,6) , l'Immobiliare Cardinal Grimaldi, titolare di un mutuo di 11,8 milioni a 40 anni, una durata che non esiste sul mercato, e l' Acquamare srl (17,1) sempre del gruppo Bellavista Caltagirone.

Tra le storie più deliranti tra quelle nelle quali ci si imbatte percorrendo i sentieri delle quattro banche fallite, la più sconclusionata è quella del panfilo più lussuoso al mondo che doveva essere costruito dalla Privilege Yard Spa a Civitavecchia, lungo 127 metri e già opzionato – si diceva - da Brad Pitt e Angelina Jolie. Dal 2007, quando fu costituito il pool di banche capeggiato dall'Etruria, esiste solo il rendering della nave di carta e la società è fallita con un buco di 200 milioni. L'inventore del bidone si chiama Mario La Via, che si definisce "finanziere internazionale", e che esibiva come suoi soci l'ex segretario generale dell'Onu Perez de Cuellar, il sultano del Brunei e Robert Miller, azionista di Louis Vuitton e CNN. L'inaugurazione del cantiere fu benedetta dal cardinale Tarcisio Bertone. 
Nel consiglio figuravano Mauro Masi, ex direttore generale della Rai, Giorgio Assumma, ex presidente della Siae, e il tributarista Tommaso Di Tanno. Per non farsi mancare niente, tra gli sponsor c'era anche Giancarlo Elia Valori, l'unico massone espulso a suo tempo dalla P2 di Licio Gelli. D'altro canto, la Banca Etruria è da lustri teatro dello scontro e anche degli incontri d'interessi tra finanza massonica e finanza cattolica. Quasi tutte storie che vengono dalla notte dei tempi.
La Banca dell'oro, come era chiamata per il ruolo nel mercato dei lingotti, nasce nel 1882 in via della Fiorandola come Banca Mutua Popolare Aretina. Ma è cent'anni dopo, nel 1982, che comincia l'espansione con l'acquisto della Popolare Cagli, della Popolare di Gualdo Tadino e della Popolare dell'Alto Lazio, feudo di Giulio Andreotti che era sull'orlo del default. E comincia il trentennio del padre-padrone Elio Faralli, classe 1922, massone, che rinunciò alla presidenza con una buonuscita di 1,3 milioni e un assegno annuale di 120 mila euro perché a 87 anni non facesse concorrenza alla sua ex banca. Scomparso nel 2013 e sostituito dal cattolico Giuseppe Fornasari, ex deputato democristiano, Faralli sponsorizzò tutte le prime venti operazioni in sofferenza di cui abbiamo dato conto, salvo 20 milioni deliberati ancora per la nave di carta durante la presidenza Fornasari. Risale poi al 2006 l'acquisto di Banca Federico Del Vecchio. Doveva essere la boutique bancaria che portava in Etruria i patrimoni delle ricche famiglie fiorentine, ma si è rivelata un buco senza fondo. Un giorno Faralli si rinchiuse da solo in una stanza col presidente della Del Vecchio e ne uscì con un contratto di acquisto per 113 milioni, contro una stima di 50, mentre mesi fa veniva offerta in vendita a 25 milioni.
"La Banca Etruria non si tocca," andava proclamando il sindaco di Arezzo Giuseppe Fanfani, nipote del leader storico della Democrazia Cristiana Amintore e figlio del leader locale Ameglio, alla vigilia di lasciare l'incarico per trasferirsi nella poltrona di membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura. Un sindaco aretino, chiunque egli fosse, era costretto a difendere "per contratto" l'icona bancaria cittadina, 186 sportelli e 1.800 dipendenti, con un modello fondato su un groviglio di interessi intrecciati tra loro. Lo stesso modello ad Arezzo, come nelle Marche, a Chieti e Ferrara, con banchieri improvvisati, politici locali, imprenditori, azionisti, grandi famiglie feudatarie, truffatori, a spese dei piccoli correntisti spinti ad acquistare prodotti a rischio per loro incomprensibili. Ma il mito della banca semplice, radicata sul territorio, per clienti semplici, dove tutti si fidano, si è infranto definitivamente un mercoledì del febbraio scorso, quando ad Arezzo di fronte ai capi- area convocati per avere comunicazione dei tragici dati di bilancio irrompono due commissari nominati dalla Banca d'Italia, Riccardo Sora e Antonio Pironti. Il presidente vuole annullare la riunione , ma i commissari dicono: "No, la riunione la facciamo noi." E di fronte ai dirigenti esordiscono così: "Qualcuno in Consiglio d'amministrazione insiste nel non voler capire bene la situazione". E dalla sala si alza un commento:"Meglio i commissari che il geometra", che non è altri che il presidente commissariato Lorenzo Rosi, affiancato dal vice Pier Luigi Boschi. Ma la Banca d'Italia finalmente muscolare non fa miglior figura. Passano due o tre giorni e si scopre che il commissario di Bankitalia Sora è indagato a Rimini, dove era stato commissario della locale Cassa di risparmio per l'acquisto di azioni proprie "a un prezzo illecitamente maggiorato".
Adesso, con il pellegrinaggio di ieri ad Arezzo di Matteo Salvini ed altri raccogliticci salvatori della patria, le polemiche tutt'altro che ingiustificate sulla Banca d'Italia, che era finora un tabernacolo inviolabile, si spostano dritte dritte sul governo Renzi. Il capo della Vigilanza Carmelo Barbagallo evoca i 238 miliardi di aiuti alle banche messi dalla Germania, che poi ha promosso i vincoli per impedire interventi analoghi agli altri paesi, contro il nostro miliardo. E lamenta gli inadeguati poteri d'intervento e sanzionatori. Ma non spiega perché il commissariamento non fu fatto dopo la terribile ispezione del 2010 o dopo quelle altrettanto tragiche del 2013 e 2014. Quanto al governo, ci ha messo non più di venti minuti per approvare il Salva-banche. Ma, attenzione. Così com'è, c'è chi teme che rischi di provocare altri monumentali guai.

Ex amministratori e sindaci si sono auto concessi prestiti per 185 milioni oltre a gettoni di presenza da 14 milioni in 5 anni I primi 20 prestiti in sofferenza ammontano a 200 milioni. Tra i beneficiari la famiglia Federici e Bellavista Caltagirone
LA PROTESTA
Un azionista della Banca dell'Etruria all'assemblea organizzata dai consumatori.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/12/11/etruria-banca-spolpata-tra-fidi-ai-consiglieri-e-yacht-fantasma08.html





Maria Elena Boschi e Banca Etruria: il “tesoretto” del padre. 

ROMA –  Poltrone in 14 diverse società per Pier Luigi Boschi, padre del ministro delle Riforme Maria Elena Boschi. 
Una di queste poltrone era, ormai è cosa nota, all’interno di Banca Etruria, una delle quattro banche salvate dal crac da un intervento del governo Renzi (in cui la Boschi siede). La “radiografia” alle posizioni ricoperte da Pier Luigi Boschi la fa Paolo Bracalini  sul Giornale, che parla di “un piccolo groviglio di interessi famigliari” tra i Boschi e la Banca Etruria, in cui lavorava anche il fratello della ministra, Emanuele, dirigente del settore incagli (i prestiti in sofferenza). 
Scrive Bracalini: “Vicepresidente della banca e azionista della banca stessa, una prassi normalissima se l’interessato non fosse anche il padre di un ministro e la banca in questione non fosse andata in rovina, mandando in fumo gli investimenti dei piccoli risparmiatori dopo il decreto del governo Renzi, dove siede la figlia. (…) Pier Luigi Boschi, il padre del ministro per i Rapporti con il Parlamento, così come gli altri parenti «entro il secondo grado» di Maria Elena Boschi, non hanno acconsentito nel 2014 alla pubblicazione della propria posizione patrimoniale, come previsto (senza obbligo per i famigliari) dalle norme sulla trasparenza dei membri del governo. Per fare un po’ di chiarezza sulla sua posizione, dunque, bisogna scartabellare le relazioni ufficiali della banca e i prospetti della Consob. Da una relazione all’assemblea dei soci del maggio 2014 veniamo a sapere che nel 2013 Boschi senior, ancora solo consigliere di amministrazione e membro del comitato esecutivo dell’Etruria (verrà promosso vicepresidente l’anno dopo) prende uno stipendio di 71.466 euro niente rispetto ai 638mila euro del direttore generale della banca, Luca Bronchi – e risulta proprietario di 9.563 azioni della banca. (…) 

Cosa sia successo a quelle azioni dal 2014 in poi, tra il clamoroso boom del titolo in Borsa dopo il decreto sulle popolari e il commissariamento, non emerge né dalla banca, né dalla Consob né tantomeno da casa Boschi che su questa vicenda ha preferito tenere il massimo riserbo. Quel che invece si ritrova nelle tabelle della Commissione è un prospetto che alimenta altri interrogativi. Si tratta di una serie di informazioni che una banca, in caso di emissione di obbligazioni, è tenuta a comunicare alla Consob, e riguarda tra l’altro anche gli incarichi degli amministratori dell’istituto in altre società esterne alla banca. La lista delle «poltrone» occupate da papà Boschi contempla quattordici voci diverse: tre presidenze di cda (società agricole e coop), due vicepresidenze e poi incarichi da consigliere in altre sette società, dal Consorzio Vino Chianti alla Società Immobiliare Casa Bianca fino a Progetto Toscana Srl. La domanda la pone l‘economista Riccardo Puglisi, responsabile economico di Italia Unica: «Dalla Banca d’Italia sarebbe opportuno conoscere l’ammontare di fidi che l’Etruria ha concesso a queste società in cui Pier Luigi Boschi ha cariche amministrative». Anche perché secondo gli ispettori di Bankitalia, «13 amministratori e 5 sindaci hanno interessi in n. 198 posizioni di fido, per un importo totale accordato, al 30-09-2014, di circa 185 milioni di euro». Tradotto significa che in media ogni amministratore ha interessi in più di dieci finanziamenti concessi dalla banca. Papà Boschi, con i suoi quattordici cda, rientra in questa media?”

http://www.blitzquotidiano.it/politica-italiana/maria-elena-boschi-e-banca-etruria-il-tesoretto-del-padre-2339874/