Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
mercoledì 1 ottobre 2014
Un’altra specie. - Eugenio Orso
Sappiamo per esperienza di vita vissuta che le differenze generazionali allontanano i giovani dai vecchi, le differenze di genere rendono le donne uniche rispetto agli uomini, le differenze culturali, a parità di età e di genere, dividono gli asiatici dagli europei. E’ questo un mosaico elementare le cui tessere – i giovani e i vecchi, gli uomini e le donne, i bianchi e i neri, gli asiatici e gli europei – compongono l’umanità. Anche se le generazioni successive sono diverse dalle precedenti, le donne sono diverse dagli uomini, gli asiatici sono diversi dagli europei, i neri dai bianchi, la specie è sempre la stessa, non cambia. Qualcuno può esaltare la razza, altri esprimono un razzismo più sottile, culturale e non biologico, o addirittura generazionale, altri possono sentirsi superiori a chi ha un’educazione modesta o un ruolo sociale meramente esecutivo, ma la specie è la stessa per tutti.
Da qualche tempo, nonostante le considerazioni fatte, ho l’impressione che una parte di coloro che vedo intorno a me, per strada, al lavoro, sui mezzi pubblici, nei negozi, appartenga a un’altra specie. Una specie nuova, apparentemente affine alla vecchia umanità (di cui faccio parte), ma con un diverso modo di intendere e di “leggere” la realtà. Un modo che a noi, appartenenti alla vecchia specie, può sembrare fuorviante, distorto, Non si tratta solo di giovani e giovanissimi, nati e cresciuti nello sfacelo della cosiddetta civiltà occidentale e in un habitat neocapitalistico colonizzato. Sono uomini e donne che percepisco come distanti, troppo diversi perché io possa considerarli miei simili.
Non si tratta soltanto del riconoscere la diversità in profonde differenze culturali, come potrebbe accadere se incontrassi un uiguro del Turkestan orientale o un calmucco, ma molto di più, una frattura più grave e forse definitiva. Una frattura che traccia una linea di demarcazione fra ciò che è stato l’uomo del secolo precedente, pur “consumistico”, imborghesito, ideologizzato, comunque prigioniero nella “gabbia di ferro” del capitalismo, e ciò che è ora questa sua caricatura, che annuncia la comparsa di una nuova specie. L’estinzione dello spirito critico e indipendente, della capacità di comprendere il senso delle dinamiche sociopolitiche e talora il funzionamento sistemico complessivo, ancora vive nel secolo precedente, non rientrano nelle caratteristiche di quella che ho provocatoriamente definito “la nuova specie”. Questa si sta affermando in occidente, a partire dal Nord America, e dilaga a macchia d’olio in Europa, dove consolida la sua presenza, non risparmiando però l’est e la Russia.
A volte, con il piglio del “naturalista” d’altri tempi in osservazione delle specie viventi (Linneo, Lamarck), ascoltando i loro discorsi, osservandone la postura e i movimenti, valutando il loro aspetto e cogliendone gli sguardi, m’illudo di capire e credo addirittura d’intuirne i processi mentali. Chi e cosa sono costoro, con i quali difficilmente riesco a sviluppare un dialogo e con i quali, il più delle volte, avvertendo una certa alienità non cerco neppure di comunicare? Mi sono posto la domanda e ho cercato la risposta, non senza provare un senso (non mi vergogno a dirlo) di superiorità antropologica e culturale, perché avverto in loro – è difficile da spiegare, ma ci provo – una grave carenza, quasi una “mutilazione”, che comporta una discesa lungo la scala evolutiva. Riflettono tutta l’inconsistenza e la vacuità del mondo liquido al quale appartengono, per dirla alla Bauman.
Con loro in genere parlo pochissimo, causa incomunicabilità, e solo quando è necessario. Riesco ormai a distinguerli con una certa facilità dai miei simili, che sempre più raramente incontro. Se mi rivolgo a loro, lo faccio per ottenere informazioni banali e quotidiane, scandendo bene le parole. Ad esempio, chiedo << che _ ora _ è? >> non aggiungendo altro, oppure <>, evitando di dare l’impressione di cercare un dialogo. Se devo rispondere a una loro domanda, lo faccio laconicamente, per lo stretto necessario, attenendomi scrupolosamente all’oggetto. Ad esempio, rispondo in estrema sintesi <>, oppure <>, per chiudere in fretta ed evitare discussioni estemporanee.
Quando sono costretto ad avere un contatto più prolungato con un esemplare della nuova specie, mi guardo bene dall’affrontare argomenti complessi, riguardanti la politica, la geopolitica, gli assetti sociali, la moneta e la sovranità degli stati, le responsabilità di questo complessivo impoverimento delle classi subalterne. Meglio evitare anche il classico e apparentemente innocuo <>, oppure sbilanciarsi insinuando qualche dubbio sulla natura e sui veri scopi dell’attuale governo. Mi comporto in tal modo per evitare problemi, nella forma d’inutili ed estenuanti discussioni che non approdano a nulla e alla fine si rivelano controproducenti. Lo faccio perché da qualche tempo mi sono accorto che non esiste una controparte con la quale discutere sensatamente. Non esiste in loro alcuna “sensibilità” per questi temi ed anche le espressioni uomo, stato, governo, economia, non hanno per loro lo stesso significato che hanno per me, ammesso e non concesso che siano in grado di attribuirgli un qualche senso compiuto. Ripeto che non si tratta semplicemente di una questione di differente cultura, perché le basi culturali, i fondamenti dovrebbero essere gli stessi, o di salto generazionale, poiché, nonostante l’appartenenza ad altra generazione, si dovrebbe riconoscere il proprio simile. E’ qualcosa di profondo e di più netto, come se si trattasse della distanza fra specie diverse, per quanto con significativi punti di contatto. Mi viene in mente il mistero che avvolge i primi contatti fra l’homo neanderthalensis e il sapiens sapiens, solo che oggi le parti mi sembrano rovesciate. Infatti, la specie in via di affermazione non è quella con maggiori possibilità evolutive – in termini di linguaggio, elaborazione culturale, autocoscienza, progettazione di sistemi sociali complessi – ma l’altra. La seconda differenza di rilievo è che il neandertaliano apparteneva a una specie naturale, mentre la nuova che osservo ha un’origine manipolatoria, artificiale.
Con loro non discuto, se posso evitare di farlo, perché la particolare “involuzione” che manifestano riguarda il livello di comprensione della realtà storica, sociale e politica in cui vivono, tendente a zero. Inoltre, l’artificialità dell’origine di questa nuova specie è testimoniata dall’accettazione acritica del funzionamento sistemico, la completa sottomissione ai suoi dogmi, l’estrema adattabilità all’habitat creato dal modo di produzione neocapitalistico, che prevede nuove forme di schiavitù per i dominati e differenziali di ricchezza, potere e prestigio sociale destinati a schizzare alle stelle. Davanti alla comparsa di questa nuova “forma di vita intelligente”, nata dalla vecchia specie per volontà degli agenti strategici neocapitalisti, persino la spiegazione di natura classista, che darebbe un senso alla loro estrema “docilità”, mi pare inadeguata.
Costanzo Preve sosteneva che una classe dominata, nata all’interno di uno specifico modo storico di produzione, è sempre in condizioni di minorità e non può guidare la trasformazione intermodale (in termini di passaggio da un modo di produzione all’altro), né liberarsi da sola delle proprie catene. Il proletariato industriale, nel caso del capitalismo del secondo millennio, non ha potuto rivoluzionare il sistema da solo, ma soltanto sotto la guida e il controllo di élite rivoluzionarie appartenenti, in buona misura, alla classe dominante (Ottobre Rosso, partito dei Bolscevichi, nascita dell’Unione sovietica). Nel nostro caso, la situazione è ancora più grave perché alcuni decenni di forte manipolazione antropologica e culturale di massa, in occidente, non solo hanno reso possibile il passaggio dal capitalismo del secondo millennio al neocapitalismo globale e finanziario, ma hanno diminuito l’uomo fino al punto di creare una nuova specie intelligente, per sua natura e genesi docilissima, totalmente incapace di pensarsi libera, fuori dalla “gabbia di titanio” neocapitalista.
Basta osservare intorno a noi, ascoltare i discorsi, analizzare i comportamenti, avere attenzione anche per i dettagli, per capire che non si tratta di un normale, “buon vecchio” condizionamento, al quale ci si può sottrarre riconoscendo la realtà. Si è andati in profondità, agendo sul lavoro, martellando con i media che creano “realtà parallele”, smantellando dalle fondamenta la classe, la comunità, le basi culturali del vecchio mondo, utilizzando tutto il possibile, dall’alimentazione alla diffusione delle droghe e degli psicofarmaci. Non si è ancora arrivati al punto di manipolare gli embrioni prima della nascita, agendo direttamente sulla riproduzione umana, come preconizzato da Aldous Huxley nel celebre romanzo Brave New World (Il mondo nuovo), del lontano 1932, ma certo i risultati fino ad ora ottenuti sono sorprendenti. Qui non centra l’eugenetica e non c’è ancora riproduzione massiva extrauterina.
Se in passato ho scritto qualcosa a riguardo della costruzione sociale dell’uomo precario, in occidente, definendola un gigantesco “esperimento di massa” in dimensioni mai viste prima nella storia dell’umanità, con grande dovizia e impiego di mezzi, tecnologie e scoperte scientifiche, oggi mi sento di andare oltre e di parlare esplicitamente di “nuova specie”. Il processo di “spersonalizzazione” del nuovo capitalismo che ha divorziato dalla borghesia (classe dominate problematica, talora incline essa stessa alla ribellione), non solo ha creato una nuova classe dominante senza problemi di “coscienza infelice”, legata a doppio filo alla riproduzione sistemica, ma una nuova specie, diminuita rispetto alla nostra, che per sua genesi non può mettere in discussione il sistema, o pensarsi al fuori, sia pur limitandosi a un semplice “rivendicazionismo”, per ottenere qualche concessione di natura economica.
Basta guardarsi intorno, qui, in Italia, e notare che nel momento in cui si negano apertamente, con ferocia, la giustizia sociale, i diritti del lavoro e al lavoro, la redistribuzione dei redditi, una pur limitata partecipazione di massa alla decisione politica, vi è un picco di adesioni ai governi elitisti-neocapitalisti e alle politiche contro i dominati che questi esprimono. Una situazione solo apparentemente paradossale e inspiegabile, per la quale in passato, metaforicamente, ho evocato il masochismo e la “sindrome di Stoccolma”. Oggi mi sento di affermare, in modo meno metaforico e meno allegorico, che siamo davanti non tanto a una nuova classe dominata, pauperizzata e ridotta in stati di semi-incoscienza, ma a una “nuova specie”, che il neocapitalismo ha creato da uomo e donna per riprodursi senza scossoni, attraversando indenne tutto il ventunesimo secolo.
Persicaria maculosa.
Il Poligono persicaria (Persicaria maculosa è una pianta di tipo arbustivo della famiglia delle Polygonaceae con piccoli fiori bicolore raccolti a spiga.
La famiglia di questo genere è mediamente numerosa (una cinquantina di generi per circa un migliaio di specie), mentre il genere Persicaria comprende una cinquantina di specie, di cui una dozzina circa sono spontanee della nostra flora.
Il Sistema Cronquist assegna la famiglia delle Polygonaceae all'ordine delle Polygonales mentre la moderna classificazione APG la colloca nell'ordine delle Caryophyllales. Sempre in base alla classificazione APG sono cambiati anche i livelli superiori (vedi tabella a destra).
Il genere di questa pianta è relativamente nuovo in quanto fino a qualche decennio fa questa pianta e altre specie simili facevano parte delgenere Polygonum. Questa ristrutturazione tassonomica non è accettata unanimemente da tutti i botanici, infatti tuttora ci sono ancora diverse classificazioni che non contemplano un'esistenza autonoma per il genere Persicaria.
All'inizio dell'altro secolo il botanico italiano Adriano Fiori (1865 – 1950) aveva sistemato questa pianta nella sezione “PERSICARIA” del genere Polygonum; sezione caratterizzata dall'avere foglie lanceolate, ocree ad angolo retto, fusti ramosi con infiorescenza a spiga ecotiledoni “accombenti”, ossia nel seme le “radicicole” sono piegate sul margine dei cotiledoni, e si sviluppano sulla linea di fenditura di separazione degli stessi[1]. Questa sezione ora è stata convertita in una genere autonomo.
All'interno del genere la specie maculosa appartiene al gruppo Gruppo di Persicaria lapathifolia formato, oltre che dalla specie descritta in questa scheda, dalla specie Persicaria lapathifolia L. (ex Polygonum lapathifolium), e anche da varianti e sottospecie.
Il nome del genere (Persicaria) deriva semplicemente dal fatto che le foglie sono molto simili a quelle del pesco. Il nome specifico (maculosa) deriva invece da una caratteristica macchia scura posta al centro delle foglie.
Il binomio scientifico Persicaria maculosa è stato definito dal botanico britannico Samuel Frederick Gray (1766 – 1828) nella sua opera The Natural Arrangement of British Plants del 1821. In realtà la pianta era stata precedentemente studiata e documentata (oltre che da altri) dal botanico e naturalista svedese Carl von Linné (1707 – 1778) col nome diPolygonum persicaria nella pubblicazione Species Plantarum del 1753.
Gli inglesi chiamano questa pianta Red leg ma anche Redshank; i francesi la chiamano Renouée persicaire oppure Pied rouge; i tedeschi la chiamano Floh-Knöterich.
Farmacia
- Sostanze presenti: questa pianta contiene una notevole quantità di sostanze tanniniche.
- Proprietà curative: secondo la medicina popolare questa pianta ha diverse proprietà curative fra cui la proprietà vulneraria (guarisce le ferite), vermifuga (elimina i vermi intestinali), rubefacente (richiama il sangue in superficie alleggerendo la pressione interna), emostatica (blocca la fuoriuscita del sangue in caso di emorragia – funzione svolta dalla foglie fresche), astringente (limita la secrezione dei liquidi), ediuretica (facilita il rilascio dell'urina). In generale questa pianta viene usata contro le malattie renali, contro la gotta e lo scorbuto; sembra sia valida anche per il mal di denti.
- Parti usate: le foglie sotto forma d'impiastro. In America gli indiani Cherokee, Chippewa, e Iroquois (popolazione originaria del Nord-Est degli Stati Uniti) usano dei decotti di questa pianta per usi dermatologici (infezioni della pelle), gastrointestinali (diarrea) e urinari, ma anche per usi veterinari.
Cucina
Le sue foglie possono essere usate (trattate opportunamente) al posto del pepe (sono aromatiche molto piccanti); se sono giovani si possono usare come insalata. Ma sembra che possano causare danni al fegato per cui è meglio non usarle; possono inoltre contenere minime quantità di acido ossalico (sostanza nociva). In certe zone vengono considerati eduli anche i semi.
Semi
Industria, agricoltura e pascolo
L'industria tessile ricava da queste piante dei coloranti giallo-rossastri soprattutto per la tintura del lino. Per l'agricoltura la specie “Poligono persicaria” è una pianta infestante; comunque il tipo di danno è limitato in quanto si risolve in spazio sottratto a specie più utili. In genere è una pianta non molto appetibile agli animali da pascolo; invece i semi sono molto ricercati dagli uccelli.
Giardinaggio
La “persicaria” una pianta abbastanza facile da coltivare; va messa in luoghi luminosi (la luce del sole deve essere abbastanza diretta); teme il freddo, non sopporta temperature sotto lo zero, quindi se l'inverno è troppo rigido è bene ricoprire gli arbusti con teli o almeno ricoprire la base della pianta con paglia e foglie secche.
Cesare Pavese.
Meravigliosa lettera del 1942 da Pavese a Einaudi.
Tratto da "Cesare Pavese" di Franco Vaccaneo, Gribaudo Editore.
Lucio Perotta Ovviamente sapete che la lettera fa parte di un carteggio-cazzeggio tra i due e che questa è la risposta ironica a una missiva matta inviata da Einaudi, no?
Nicola Nebbia Questa "lettera" dovremmo scriverla anche noi e inviarla ai vari "Spettabile Editore" che ci spremono la vita convincendoci a privarla dei piaceri che la rendono (e ci rendono) VIVI, VITALI… Senza assaporare, o disimparando ad assaporare, quei piaceri, talvolta semplici, ci trasformiamo in esseri sempre più grigi e gretti, tristi e insoddisfatti...
Meravigliosa lettera del 1942 da Pavese a Einaudi.
Tratto da "Cesare Pavese" di Franco Vaccaneo, Gribaudo Editore.
https://www.facebook.com/174907189474/photos/a.10151996745524475.1073741837.174907189474/10152141300859475/?type=1&theater
martedì 30 settembre 2014
Irak: chi arma l'ISIS e perché gli Usa non interverranno. - Maria Grazia Bruzzone
I commenti di questi giorni sull’avanzata travolgente degli estremisti sunniti dell’ISIS calati dalla Turchia e dal nord est della Siria fino a Mosul, la seconda città irakena con 2 milioni di abitanti, e fin quasi alle porte di Bagdad, non possono evitare ironie o addirittura sarcasmi. La guerra dell’Occidente per “portare la democrazia” in Irak dopo 10 anni (e 5000 morti e 100.000 feriti solo fra i soldati Usa, un milione la stima delle vittime civili) si sta risolvendo in una beffa: dove sventolava la bandiera dell’Irak di Saddam Hussein – non certo immacolata sebbene il raiss non avesse armi di distruzione di massa, né rapporti con Al-Qaeda, al contrario di quanto sostenevano G.W. Bush e Blair – sventola il drappo nero dei quaedisti sunniti dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante (o in Iraq e Siria) ovvero Islamic State of Iraq and Al-Sham, l’ISIS, insomma.
E’ una lettura di gran lunga troppo facile di quel che accade, e non da oggi, in quel settore del Medio Oriente dove le parti in gioco sono tante - Usa, Iran, Siria, Monarchie del Golfo in particolare Arabia Saudita e Qatar, Irak del governo sciita di al-Maliki e Irak dei combattenti sunniti - con interessi in parte in conflitto fra loro, come cerca di chiarire ai lettori una sorta di mappa sul NYTimes. Un coacervo di contraddizioni ben analizzato sulla Stampa da Claudio Gallo (“Nella guerra a distanza Arabia-Iran la Turchia gioca la carta dei curdi”).
Più drastici, i blog “alternativi” vanno oltre e non esitano a puntare il dito sul ruolo degli Stati Uniti. Ruolo peraltro ambiguo. Al punto che il governo Usa sembra molto riluttante a soddisfare la richiesta di aiuto da parte del filo-americano al-Maliki (che ha subito chiesto un intervento con aerei o droni) al quale si è clamorosamente unito l’Iran offrendo agli Usa collaborazione per respingere la minaccia sunnita. “Questa volta no”, ha dichiarato Hillary Clinton, potenziale candidata presidente nel 2016, contraria a ogni tipo di iniziativa (vedi Politico.com) Il dibattito negli Usa è quanto mai aperto, specie dopo che l’Iran sciita ha proposto agli Usa una collaborazione contro i sunniti dell’ISIS.
Mr President: is the US still arming ISIL in Syria? Chiedeva provocatoriamente un tweet di @zerohedge venerdì scorso (13/6 ). Il giorno prima lo stesso blog postava un pezzo, senza punti interrogativi, intitolato Come gli Usa armano i due fronti del conflitto irakeno, ripreso da Infowars.
Armi all’Irak di Maliki. Il primo, sulla scia di una notizia Reuters, si dava conto del primo F-16, del contingente di ben 36 aerei ordinati dal governo irakeno di al-Maliki, 18 nel 2011 per $3 miliardi, altrettanti nel 2012. Per meglio proteggere l’Irak in marzo gli Usa hanno fornito all’Irak 100 missili Hellfire, e fucili d’assalto e munizioni, si aggiungeva. E in aprile avevano mandato altre armi, e 11 milioni di rotoli di munizioni e altre forniture.
“L’Irak è un grande paese con 3600 km di confini, e dobbiamo proteggerli”, dichiarava l’ambasciatore Usa, in procinto di priedere alla cerimonia di consegna alla Lockeed. Il paese non ha più un’aviazione dopo l ‘invasione del 2003 che rovesciò Saddam, dopo aver distrutto l’esercito del raiss, ora tocca ricostituirlo, fantastico - osservava il post.
E armi ai jihadisti combattenti sunniti . “Qualcuno mente. Obama dichiara di non armare i 'ribelli 'siriani, loro affermano il contrario”, titolava due settimane prima (28/5) lo stesso blog economico-finanziario (ad influenzare Borse, valute, petrolio e materie prime e Borse come si sa sono le notizie più varie). Riferendosi da una parte alle affermazioni del presidente (stiamo pensando di addestrare e armare i ribelli siriani “moderati” che combattono cotro Assad, come fosse solo un’intenzione), dall’altro al servizio della tv pubblica PBS, Frontline dove ribelli volutamente non identificati ma apparentemente moderati al giornalista che li ha seguiti per vari giorni sul terreno asserivano di avere contatti con Americani che ordinavano loro di mandare contingenti di 80-90 militi in Turchia dove vengono addestrati all’uso di armi sofisticate e tecniche di combattimento.
Chi guadagna da questo duplice gioco? Sicuramente il complesso militar-industriale, conclude zerohedge, e qui si ferma.
“ Susan Rice ammette che gli Usa danno armi ad Al Qaeda in Siria” arrivava a titolare ad effetto Infowars il 7 giugno con video di YouTube incorporato in cui il consigliere n. 1 del presidente parla alla CNN. Dice di avere il “cuore spezzato” per le distruzioni in atto in Siria. “ E’ per questo che gli Stati Uniti hanno accresciuto il sostegno alle opposizioni moderate fornendo armi letali e non letali dove possiamo appoggiare sia l’opposizione civile sia quella militare”. Gruppi moderati spesso sotto finanziati, frammentati e caotici, sembrano servire a poco rispetto alle unità islamiste più radicali e organizzate, scriveva l’agenzia Reuters già un anno fa. E oggi? Nonostante le dichiarazioni di Rice l’amministrazione Usa è rimasta vaga, rifiutando di dare dettagli.
A chi finiscono le armi? L’autore del post ricorda di aver scritto già ad aprile che gli Stati Uniti fornivano armi ad al-Nusra ( fazione jihadista vicino ad al Qaeda) e altri gruppi terroristi in Siria attraverso gruppi moderati. “Se quelli che ci sostengono (Usa, Arabia Saudita, e Qatar) ci dicono di madare le armi a un altro gruppo le mandiamo. Un mese fa ci dissero di mandare molte armi a Yabroud, (una città siriana) e lo abbiamo fatto”, ha raccontato Jamal Marouf, che guida il Syrian Revolutionary Front (SRF) creato dalla CIA e intelligence di Arabia e Qatar.
Ora viene citato Barak Barfi, ricercatore della New America Foundation, a sua volta certo che al Nusra, uno dei gruppi jihadisti più feroci, riceve armi indirettamente dal SRF . “Si sa che il primo ministro turco Erdogan appoggia l’ al-Nusra Front e altri gruppi terroristi, ha scritto del resto lo scorso aprile il giornalista Premio Pulitzer Seymour Hersh, parlando degli appoggi da parte dei paesi vicini della Siria, specie la Turchia, alle milizie terroriste.
E al-Nusra Front un mese fa ha dichiarato che avrebbe obbedito all’ordine del leader di al-Quaeda Al-Zawahiri di fermare gli attacchi ai rivali dell’ISIS , raccontava a inizio maggio Asharq Al-Awsat , primo giornale panarabo, stampato in 4 continenti. Al-Nusra è una branca di al-Qaeda in Siria mentre l’ISIS è considerato l’ala irachena, viene specificato.
Ma chi c’è dietro l’ISIS che dice di guidare la ribellione dei sunniti contro le ingiustizie commesse dagli sciiti del dopo Saddam? Chi lo sostiene, chi lo arma, chi lo finanzia? Se lo chiede l’autore di un altro articolo dello stesso giornale, che si dice sorpreso di aver visto il suo capo Abu Bakr Al-Baghdadi addirittura sulla copertina di TIME alla fine dell’anno scorso.
Baghdadi - secondo un blog francese assai “cospirazionista” ma informato - comanderebbe la milizia per conto dei Saudiani (sunniti-wahabiti), sarebbe legato direttamente a un principe della famiglia reale fratello di un ministro, ma il gruppo sarebbe co-finanziato da americani, saudiani e anche francesi. Irakeno, Baghdadi nel 2013 se ne è partito a combattere in Siria, radicandosi nel nordest a Raqqa. Salvo dirigersi recentemente verso l’Irak , arrivando al distretto di Ninive, a Mosul e a Baliji, sede della maggiore raffineria irakena, oggi circondata dalle sue truppe.
Gli alleati segreti dell’ISIS. Senza nemmeno trovare troppa resistenza, racconta qui Global Research: a Mosul l’esercito irakeno – addestrato per 10 anni dagli americani (costo $20 miliardi)- non solo non è stato capace di fermare 2-3000 militi ISIS, ma i soldati hanno disertato in massa lasciando sul campo uniformi e armi per i guerriglieri, dove già militavano ex ufficiali e commilitoni dell’esercito di Saddam, sunniti come loro. E come gran parte della popolazione della regione, che infatti pare abbia applaudito la rotta dell’esercito di Al Maliki. (“Gli alleati segreti dell’ISIS”, titola un post del Daily Beast, raccontando cose simili).
Una campagna non da poco , quella di Mosul, pensata e preparata con cura e per tempo. L’ISIS del resto è un vero esercito ben organizzato e pagato, scrive un post di Land Destroyer/Infowars .
E mostra la foto di un lunghissimo convoglio di guerrieri con i loro vessilli neri a bordo di veicoli Toyota tutti uguali e nuovi, a quanto sembra. “Gli stessi usati dai miliziani che la Nato ammette di armare”, osserva l’autore. Che non crede alla “sorpresa” che i media americani raccontano.
Davvero la CIA non sapeva niente dell’avanzata di giugno? Vogliono far credere che l’intelligence sia stata colta di sorpresa, malgrado la sua presenza in Irak, e che l’ISIS sia un gruppo che si autofinanzia con furti alle banche e donazioni via twitter (sui giornali è uscito anche questo). La CIA ha da tre anni un programma di droni che sorveglia il confine fra Siria e Turchia. Poteva almeno leggere i giornali: il Lebanon Daily Start in marzo riferiva che il gruppo si era dislocato dalla Siria del nord verso est lungo il confine con l’Irak.
L'autore cita Seymour Hersh che già nel 2007 ( articolo The Redirection) documentava "l'intenzione di Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele, di creare e dispiegare una rete regionale di estremisti settari che avrebbero dovuto confrontarsi con Iran,Siria e Hezbollah in Libano. "L'armata ISIS è la manifestazione finale di questo disegno", scrive. Accreditando la tesi complottista avanzata dall'autorevole giornalista.
L’ ISIS non è più da tempo una mera organizzazione terroristica. E’ una forza militare convenzionale che occupa un territorio e pretende di governarne una parte. La campagna di Mosul è stata bel pianificata e ha richiesto anni per metterne a punto le condizioni. Le operazioni hanno permesso di tagliar fuori i media dalla città, limitare le attività delle Forze di Sicurezza irachene, e guadagnarsi libertà di movimento all’interno. Un lavoro sul terreno per arrivare il 10 giugno alla presa di Mosul e del territorio, all’apprezzamento del suo attacco, all’aspirazione a governare uno stato tra Irak e Siria (non va dimenticato che l’ISIS controlla già l’area nel nord della Siria intorno a Deir el Dzor, ndr).
Così un report del 10 giugno dell’Institute for the Study of War, (istituto di ricerca indipendente, no partisan e no profit, specializzato in Medio Oriente). A citarlo è un post di Counterpunch online, mensile ormai storico di orientamento “radicale”, che non esita di criticare dem o rep. Il report – commenta il post - suggerisce che l’ISIS non è affatto quell’amalgama di fanatici rabbiosi che si vuol far credere, ma un esercito altamente motivato e disciplinato con chiari e definiti obiettivi politici e territoriali.
Come andrà a finire? Interessante la convergenza fra analisi assai diverse.
“Vi sono indicazioni crescenti che la crisi innescata dall’offensiva ISIS possa portare alla completa frattura dell’Iraq secondo linee settarie, cambiando la mappa politica del Medio Oriente”, scrive Global Research. E Claudio Gallo sulla stampa.it:
“Paradossalmente, il crollo dell’Iraq ha riportato in voga le cartine apparse sul web all’indomani dell’Operazione Iraqi Freedom lanciata da George W. Bush nel 2003. Mostravano un paese diviso in tre stati: uno curdo al nord, uno sunnita al centro e uno sciita a sud. Più o meno la mappa attuale” .
Counterpunch è il più esplicito:
“Se le cose stanno così allora è verosimile dopo che non marcerà su Bagdag, ma stringerà la sua presa sulle aree a predominanza di sunniti, costruendo uno stato nello stato. E questo è precisamente il motivo per cui l’ amministrazione Obama potrebbe scegliere di star fuori del tutto dalla conflagrazione, perché gli obiettivi dell ’ ISIS coincidono con un piano assai simile di creare una “ partizione soft " che data dal 2006"
"Il piano fu proposto per la prima volta da Leslie Gelb, ex presidente del Council of Foreign Relations (il suo articolo sul NYTimes risale in realtà al 2003 ndr), e dal senatore Joe Biden (nel 2006). Secondo il New York Times “ il cosiddetto piano della ‘ partizione soft’ prevede di dividere l’ Irak in tre regioni semi-autonome. Ci sarebbe un Kurdistan arrendevole, un morbido Shiastan, e un altrettando soft Sunnistan , tutti sotto un grande, debole ombrello Irak".
"Ed è per questo motivo che gli Stati Uniti probabilmente non dispiegheranno truppe da combattimento per confrontarsi coi miliziani sunniti a Mosul. E’ perché gli obiettivi strategici dell ’ amministrazione Obama e quelli dei terroristi sono quasi identici. Cosa che non dovrebbe sorprendere nessuno”, conclude Counterpunch.
Va sottolineato che il Sunnistan comprenderebbe una parte del territorio siriano, peraltro già sotto il controllo dell’ISIS. I siriani (e il presidente Assad) sarebbero d’accordo? E l’Iran sciita che oggi infatti offre collaborazione agli Stati Uniti?
lunedì 29 settembre 2014
Articolo 18: Napolitano, metodi da Stato di Bananas. - Antonio Padellaro
Chissà come saranno fischiate le orecchie ai vari Bersani, D’Alema, Civati, Fassina, Chiti, Bindi, Cuperlo, Cofferati e ai tanti altri che nel Pd non intendono piegarsi all’editto di Matteo Renzi sull’abolizione dell’articolo 18. E chissà come si comporterà adesso la minoranza formata dai 110 deputati e senatori democratici decisa a dare battaglia nelle aule parlamentari sul Jobs Act, ma anche sulla legge di Stabilità, quando ieri sera si è vista arrivare tra capo e collo il super editto di Giorgio Napolitano.
Perché se il Colle intima lo stop ai “corporativismi e conservatorismi” che impediscono l’avvio di “politiche nuove e coraggiose per la crescita e l’occupazione” c’è poco da fare. O si piega la testa e ci si ritira in buon ordine o si prosegue la battaglia in un clima di caccia alle streghe. Perché nella lunga storia repubblicana mai era accaduto che il confronto democratico nella stessa maggioranza e nello stesso partito subisse una pressione così prepotente e su materie sensibili come i diritti e il lavoro a opera del suo stesso leader e premier in combutta con il Quirinale.
Appena la sinistra Pd e la Cgil hanno provato a dire che sui licenziamenti senza garanzie non erano d’accordo, cosa del tutto naturale, è partita la katiuscia. Con tanto di videomessaggio alla nazione, Renzi si è scagliato contro la “vecchia guardia che vuole lo scontro ideologico”, mentre con metodi da prefetto di disciplina la Serracchiani ha ricordato ai reietti “di essere stati eletti con e grazie al Pd” quando peraltro segretario non era Renzi, ma Bersani. Poiché non era bastato a fermare la fronda, ecco che scende in campo il capo dello Stato, che da tempo ha smesso i panni del super partes per schierarsi con il patto del Nazareno. Gli è andata bene quando ha spinto per la riduzione del Senato a ente inutile. Meno quando ha preteso l’elezione dell’indagato Bruno e di Violante alla Consulta. Adesso entra a gamba tesa nel dibattito interno del Pd e sulle decisioni del Parlamento. Metodi non da democrazia costituzionale, ma da libero Stato di bananas.
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