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martedì 6 agosto 2024

La Mesopotamia, spesso chiamata "Culla della civiltà". - Bobby Howe

 

La Mesopotamia, spesso chiamata "Culla della civiltà", è una regione storica tra i fiumi Tigri ed Eufrate, principalmente nell'attuale Iraq. Quest'area è significativa per numerosi motivi, tra cui i suoi primi progressi in agricoltura, scrittura, governance e urbanizzazione, che hanno gettato le basi per le civiltà future.

Uno degli aspetti più sorprendenti della Mesopotamia è la sua agricoltura, resa possibile dalla fertile terra tra i due grandi fiumi. Questo ricco terreno facilitò la coltivazione di varie colture, tra cui orzo, grano e legumi. Questa abbondanza agricola ha sostenuto una popolazione crescente e ha portato alla creazione di alcune delle prime città. Lo sviluppo di tecniche di irrigazione, come canali e dighe, ha permesso ai mesopotamici di gestire efficacemente le risorse idriche, garantendo rese coerenti e facilitando il commercio.
La scrittura è un altro aspetto critico della cultura mesopotamica. I Sumeri, una delle prime civiltà della regione, svilupparono la scrittura cuneiforme intorno al 3200 a.C. Questo sistema di scrittura utilizzava segni a forma di cuneo su tavolette di argilla ed era essenziale per tenere registri, condurre scambi e codificare le leggi. L'Epopea di Gilgamesh, una delle prime opere letterarie conosciute, ha origine in Mesopotamia e riflette i miti, i valori e le credenze della sua gente.
La governance in Mesopotamia si è evoluta significativamente nel tempo. Inizialmente, era prevalentemente per mano dei re sacerdoti che governavano le città-stato. Man mano che le società divennero più complesse, la sovranità passò in una struttura politica più formalizzata, con leggi codificate in documenti come il Codice di Hammurabi. Questo codice è uno dei primi sistemi giuridici scritti e principi stabiliti di giustizia e responsabilità, influenzando il pensiero legale nelle civiltà successive.
L'urbanizzazione della Mesopotamia portò all'ascesa di importanti città-stato come Ur, Uruk e Babilonia. Queste città divennero centri di commercio, cultura e innovazione. Le conquiste architettoniche della Mesopotamia, come gli ziggurat, templi a gradini dedicati agli dei, dimostrano la loro comprensione avanzata dell'ingegneria e dell'arte. Le città erano anche centro di pratiche religiose, con credenze politeiste che dominavano la vita spirituale dei mesopotamici, che costruivano grandi templi per onorare le loro divinità.
L'influenza della Mesopotamia si estendeva oltre i suoi confini. Le reti commerciali facilitavano lo scambio di beni, idee e tecnologie con le regioni vicine, contribuendo allo sviluppo culturale ed economico del mondo antico. Le innovazioni della Mesopotamia, in particolare in matematica e astronomia, hanno colpito le civiltà successive, plasmando il modo in cui le società hanno compreso il mondo che le circonda.
In conclusione, i contributi della Mesopotamia alla civiltà umana sono profondi e di vasta portata. L'agricoltura, la scrittura, la governance e l'urbanizzazione della regione hanno stabilito elementi fondamentali che avrebbero influenzato innumerevoli società nel corso della storia. Come luogo di nascita di molte innovazioni prime, la Mesopotamia rimane un capitolo fondamentale nello sviluppo umano, ricordandoci il nostro passato condiviso e l'eredità duratura delle culture antiche.






giovedì 14 dicembre 2023

Al Ubaid - Sud dell'odierno Iraq.


La cultura preistorica Ubaid risale a 7.000 anni fa e, l'origine del popolo Ubaidiano, é in gran parte sconosciuta

Sappiamo solo che svilupparono agricoltura, architettura ed allevamento e vivevano in grandi insediamenti di case costruite con mattoni adobe, ottenuti da un impasto di argilla, sabbia e paglia essiccata all'ombra

Il sito principale dove sono stati scoperti dei reperti della civiltà Ubaidiana, si chiama Tell Al'Ubaid

Gli scavi hanno portato alla luce statuette maschili e femminili che indossavano un casco ed un'imbottitura sulle spalle

Altre impugnavano uno scettro

I volti sono simili a quelli dei "rettili", teste allungate, occhi a mandorla e nasi come le lucertole

Alcune figure femminili, sembrano allattare bambini con le stesse caratteristiche somatiche dei genitori

Autore..
Ameliach Lisseth
Leyendas Negras en la Historia

venerdì 22 settembre 2023

PORTE STELLA ZOGOTH 29 novembre 1932, Iraq.

 

Un gruppo di archeologi inglesi ha scoperto un complesso insieme di solide strutture in granito, con rilievi intriganti e linguaggio cuneiforme. I resti archeologici sono stati rinvenuti a pochi chilometri dall'enorme ziggurat di Ur. Date le ipotesi dei ricercatori, i dati indicavano che doveva trattarsi di qualche tipo di arte del granito realizzata dagli antichi Sumeri, sebbene il simbolismo utilizzato fosse molto diverso da quello utilizzato. praticato in quel periodo.
Ulteriori analisi hanno indicato che la sua composizione deve essere migliaia di anni più antica dei primi insediamenti mesopotamici.
Sebbene le tre lastre rinvenute nella regione fossero gelosamente custodite dal Museo antropologico iracheno, decenni dopo furono perseguitate dai membri delle maggiori potenze mondiali. Fino all’invasione statunitense del 2001, dove furono strappati una volta per tutte al governo iracheno.
Gli archivi analizzati da allora hanno indicato che le lastre di granito emanavano una sorta di forza soprannaturale. Oltre alla particolarità di vibrare ed emettere un piccolo bagliore, durante le eclissi e alcune lune piene.
Molti cittadini della regione temevano già in passato la scoperta di questi artefatti, perché nelle loro leggende li contemplavano come enormi porte stellari che conducevano l'uomo alla camera degli dei e delle entità oltre la comprensione umana.
Uno dei grandi saggi che vivevano nella catena montuosa Zagros, indicò che se fosse caduto nelle mani sbagliate, esseri terribili avrebbero potuto essere liberati dalla sua struttura, poiché ognuno di loro aveva una peculiare sfera di quarzo che poteva evocare il temibile Zogoth Niamarath; una divinità mostruosa che regnava in tempi in cui l'uomo era solo molto giovane e altre creature strisciavano e governavano le sue terre.
Attualmente, l'Agenzia è a conoscenza dell'ubicazione di questi cancelli a tre stelle, che sono tenuti in bunker sotterranei in diverse località degli Stati Uniti.
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lunedì 17 ottobre 2016

Mosul, l’Italia in prima linea: elicotteri da attacco e 130 incursori per i blitz. A 20 km dal fronte i bersaglieri presidiano la diga. - Enrico Piovesana

Mosul, l’Italia in prima linea: elicotteri da attacco e 130 incursori per i blitz. A 20 km dal fronte i bersaglieri presidiano la diga

I nostri connazionali impegnati in operazioni di combat search and rescue. Vale a dire blitz in teatro di guerra per evacuazioni di combattenti alleati o curdi feriti. Agli uomini dell'aeronautica si affiancano gli elicotteri da combattimento A-129 Mangusta armati di missili e cannoncini rotanti. A correre i rischi maggiori sono però gli uomini a presidio della diga della città: armati di equipaggiamento leggero, non sono direttamente coinvolti al fronte, ma sono un bersaglio potenzialmente fragile dei razzi dello stato islamico.

La battaglia per Mosul è cominciata e i militari italiani schierati in Iraq – 700mila euro al giorno il costo della missione – si trovano impegnati in prima linea. La loro principale missione sarà quella di combat search and rescue, ovvero compiere blitz in zone di combattimento per evacuare i combattenti curdi o alleati feriti. Una missione di guerra a tutti gli effetti, che verrà condotta in ambienti “non permissivi” (come si dice in gergo militare) e comporterà quindi elevati rischi per il personale coinvolto. Non a caso gli elicotteri militari da trasporto Nh-90 dell’Esercito saranno scortati da elicotteri da attacco A-129 Mangusta armati di missili e cannoncini rotanti e a scendere a terra saranno gli incursori del17° stormo dell’Aeronautica, cioè forze speciali da combattimento. La base operativa del Task Group Personnel Recovery, composta in tutto da 130 uomini, è l’aeroporto di Erbil, un’ottantina di chilometri a est di Mosul.
Secondo fonti irachene riprese dalla stampa nei giorni scorsi, anche i 300 (presto 500) bersaglieri del 6° reggimento della brigata meccanizzata “Aosta” che presidiano la diga di Mosul “potrebbero intervenire per aiutare l’esercito iracheno in caso di necessità”, ma la loro capacità di combattimento sarebbe molto limitata, poiché il governo italiano ha inviato un contingente “leggero”, senza mezzi corazzati e né artiglieria pesante. Una scelta fatta proprio per evitare che la Coalizione a guida statunitense possa chiedere agli italiani un maggiore coinvolgimento. Non avendo grossi assetti da combattimento, non possono chiederceli.
Questo però espone i bersaglieri a maggiori rischi poiché, trovandosi a solo venti chilometri dalle postazioni dell’Isis, sono un soft target, facile obiettivo di attacchi da parte dello stato islamico, come già accaduto una decina di giorni fa quando sei razzi Grad Bm-21 da 122 millimetri sono caduti a poche centinaia di metri dal campo italiano.
Fondamentale, in questa prima fase di massicci bombardamenti aerei su Mosul, sarà poi il ruolo della componete aerea italiana schierata in Kuwait, impegnata in continue missioni di ricognizione e identificazione obiettivi con quattro cacciabombardieri Amx e due droni Predator, più un aero-cisterna che rifornisce in volo i bombardieri alleati.
Non è da escludere, infine, il coinvolgimento di team di forze speciali italiane in operazioni clandestine, come avvenuto fino allo scorso giugno nella provincia di Al-Anbar con l’operazione “Centuria” condotta dagli uomini della Task Force 44 basata all’aeroporto militare di Taqaddum, tra Ramadi e Fallujah. Se la TF-44 verrà impiegata anche sul fronte di Mosul in attività outside the wire, cioè sul campo a fianco dei corpi d’élite iracheni, non verrà certo reso pubblico dal Ministero della Difesa. Al momento è nota la partecipazione all’offensiva di forze speciali americane, inglesi, francesi, australiane e, secondo fonti non confermate, anche tedesche.
Articolo 11
L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
I nostri governanti aggirano la Costituzione?

mercoledì 6 luglio 2016

Invasione in Iraq, rapporto Chilcot: "Guerra non era necessaria". Blair: "Io in buona fede".

Invasione in Iraq, rapporto Chilcot: Guerra non era necessaria. Blair: Io in buona fede

Il Regno Unito non esaurì tutte le possibili opzioni pacifiche prima di decidere di unirsi nel 2003 agli Stati Uniti nell'invasione dell'Iraq di Saddam Hussein. Queste le attese conclusioni di Sir John Chilcot, a capo della commissione di inchiesta che per 7 anni ha indagato sulle ragioni della guerra e che oggi presenta il suo Rapporto finale.
Per Chilcot, l'allora premier laburista Tony Blair giudicò le informazioni di intelligence sulla minaccia delle presunte armi di distruzione di massa irachene "con una certezza che non era giustificata". I piani per il dopoguerra, inoltre, furono "completamente inadeguati" alla situazione.
In una dichiarazione Blair ha risposto alle conclusioni del Rapporto: "Il rapporto dovrebbe mettere a tacere le accuse di cattiva fede, menzogne o inganni. Sia che la gente sia d'accordo o in disaccordo con la mia decisione di intraprendere un'azione militare contro Saddam Hussein, lo feci in buona fede e in quello che credevo essere il migliore interesse del Paese".
E' una critica "devastante", come la definisce il Guardian, quella rivolta nei confronti di Blair dal Rapporto. Per John Chilcot, che per sette anni ha guidato la commissione d'inchiesta, la decisione britannica di invadere uno stato sovrano per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale prima che tutte "le opzioni pacifiche per il disarmo" venissero esplorate, fu della "massima gravità". E se l'azione militare non era all'epoca "l'ultima risorsa" possibile, Chilcot suggerisce che uno dei fattori decisivi nella decisione di unirsi agli Stati Uniti e scendere in guerra, fu proprio il convincimento di Blair.
Secondo il Rapporto, il celebre dossier presentato dal premier alla Camera dei Comuni nel settembre del 2002 non era sufficiente a supportare l'accusa che l'Iraq di Saddam Hussein stava sviluppando armi di distruzione di massa. L'allora governo laburista non riuscì inoltre a prevedere le disastrose conseguenze della guerra, ha detto Chilcot nell'illustrare le conclusioni contenute nei 12 volumi che compongono il Rapporto. Con almeno 150mila morti, molti dei quali civili e "oltre un milione di sfollati", ha ricordato, "il popolo iracheno soffrì enormemente".

giovedì 19 febbraio 2015

Libia, analista: “Intervento costerebbe un miliardo e attirerebbe orde di jihadisti”. - Enrico Piovesana .

Libia, analista: “Intervento costerebbe un miliardo e attirerebbe orde di jihadisti”

Gianandrea Gaiani, direttore di Analisidifesa: "Per la missione in Afghanistan al suo picco, con 4.700 uomini, lo Stato spendeva oltre 800 milioni l’anno". Non solo: "Far sbarcare soldati occidentali in Libia attrarrebbe in quel paese fondamentalisti da tutta la regione, che verrebbero a combattere i crociati come mosche attratte dal miele.”

La scorsa settimana il governo Renzi ha decretato un rifinanziamento per le missioni militari all’estero da 750 milioni di euro fino a settembre. Oggi le missioni militari all’estero ci costano all’incirca un miliardo di euro all’anno, vale a dire 2,7 milioni al giorno. Con la missione il Libia questo costo raddoppierebbe. “Una missione libica da 5mila uomini costerebbe almeno un miliardo di euro l’anno – spiega Gianandrea Gaiani, direttore di Analisidifesa.it - tenuto conto che quella in Afghanistan al suo picco, con 4.700 uomini, costava oltre 800 milioni l’anno, e non comprendeva nessun dispositivo navale, né carri armati e artiglieria pesante, che invece in questo caso sarebbero necessari”.
Ma il problema non è solo economico. Sottolineando come parlare oggi di un intervento in Libia sia “puramente accademico, finché non si capirà se ci sarà una missione internazionale, chi vi prenderà parte e quali obiettivi avrà”, Gaiani ritiene altamente rischioso, se non controproducente, l’invio di truppe occidentali in terra libica. “Far sbarcare soldati occidentali in Libia attrarrebbe in quel paese orde di jihadisti da tutta la regione, che verrebbero a combattere i crociati come mosche attratte dal miele”, spiega Gaiani descrivendo uno scenario bellico che mescolerebbe il peggio delle esperienze somala, irachena e afgana, nel quale rischieremmo di finire impantanati per anni, con perdite altissime e risultati tutt’altro che scontati. “L’Italia – si chiede il direttore diAnalisifesa.it – è pronta a imbarcarsi in un’impresa del genere, in una guerra vera e propria?”.
Un’impresa che richiederebbe un contributo di truppe molto alto a tutte le nazioni dell’eventuale coalizione militare, soprattutto se, come sembra chiaro, questa volta non ci saranno gli Stati Uniti a guidare la missione fornendo il grosso dei soldati. Sicuramente più dei 5mila uomini di cui ha parlato la Pinotti, che però, come spiega Gaiani, rappresentano il limite massimo di impiego per le nostre forze armate.
“Per combattere una guerra vera non potremmo certo mandare la fanteria leggera come in una normale missione di peacekeeping: servirebbero forze addestrate ed equipaggiate in maniera adeguata”, dice Gaiani. “Considerando le altre missioni in corso e le esigenze di avvicendamento dopo sei mesi di schieramento, si potrebbe arrivare a quella cifra impiegando l’intera brigata Folgore, da mesi in riserva strategica proprio in vista di un impiego in Nord Africa, più la nuova forza da sbarco della brigata San Marco e una consistente aliquota di forze speciali”.
Le truppe italiane attualmente impegnate nelle altre missioni all’estero sono 4mila (1.100 in Libano, 850 in Afghanistan, 500 in Iraq, 500 nei Balcani, 330 in Gibuti e Somalia, 240 nell’Oceano Indiano, 170 nel Mediterraneo e altre 200 e passa tra Egitto, Repubblica Centrafricana, Palestina, Malta, Mali,Georgia, Cipro, India/Pakistan e Marocco) e scenderanno a 3.500 a fine anno con il ritiro quasi completo dall’Afghanistan. Considerando che il massimo schieramento recente di truppe italiane all’estero è stato di 8.500 uomini nel 2010, la differenza risulta proprio di 5mila uomini.

lunedì 19 gennaio 2015

Greta e Vanessa, ex dei servizi segreti: “Ostaggi? L’Italia ha sempre pagato”. - Enrico Fierro

Greta e Vanessa, ex dei servizi segreti: “Ostaggi? L’Italia ha sempre pagato”

Lo 007 in pensione ricorda i sequestri dei quattro contractor in Iraq, di Daniele Mastrogiacomo, di Enzo Baldoni e di Giuliana Sgrena: "Impossibile riportare a casa i rapiti se non si danno tanti soldi a miliziani e informatori. La guerra è un business".

La verità è che abbiamo sempre pagato. S.E.M.P.R.E. Te lo dico a caratteri cubitali, così lo capisci e la finiamo qui”. Il signore che ci parla è una vecchia volpe dei servizi con esperienze in quella che definisce “la fogna” mediorientale. L’uomo ha appeso la barba finta al chiodo. “Faccio il pensionato e mi diverto a leggere le stronzate che scrivete voi giornalisti. Tutto si paga in inferni come l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria, posti dove la guerra è un business, una industria diffusa, qui paghi tutto, e quando non lo fai allora ti riporti il morto a casa. Lo ricordi Enzo Baldoni?”. Enzo Baldoni, pubblicitario e giornalista free-lance per la rivista Diario di Enrico Deaglio viene rapito nei pressi di Latifiya, città irachena del triangolo sunnita, il 20 agosto del 2004, il 26 viene ufficializzata la sua morte. “Ecco – ci racconta il nostro uomo – ci sono anche casi in cui non ti danno il tempo di pagare”. E allora, aggiungiamo noi attingendo ai ricordi, scatta l’operazione demolizione della vittima . Ricordiamo alcuni titoli su Baldoni pubblicati all’epoca da Libero, il quotidiano diretto da Vittorio Feltri che aveva tra le sue firme di punta sull’intelligence Renato Farina, successivamente scoperto in rapporti ottimi con i servizi con il nome di “agente Betulla”: “Vacanze intelligenti”, “Il pacifista col Kalashnikov”. Non solo, ma all’epoca ambienti della nostra intelligence fecero circolare la notizia dell’esistenza di un video dove si vedeva Baldoni lottare con i suoi rapitori, altro materiale utile ad accreditare la tesi di un uomo davvero imprudente.
La verità sulla morte del giornalista non è ancora venuta fuori, ma anche in quel caso, nonostante smentite e depistaggi, una trattativa ci fu, o quantomeno fu avviata. E allora ha ragione il nostro ex 007 che per trattare devi avere tempo, i danari non sono un problema. Tempo e buoni contatti sul territorio. Ma per i quattro contractors rapiti in Iraq in quel 2004, non ci furono trattative, né soldi spesi: Maurizio AglianoUmberto Cupertino,Salvatore Stefio, i tre sopravvissuti dopo l’uccisione di Fabrizio Quattrocchi, furono liberati dopo un blitz. “E come fai a individuare una stamberga di Ramadi, città a oltre cento chilometri da Baghdad, dove i tre erano rinchiusi insieme a un polacco (Jerzy Ros, ndr) se non paghi informatori, gole profonde, gente che sta un po’ di qua e un po’ di là?”. L’allora ministro degli Esteri, Franco Frattini, disse che non c’era stata trattativa: “È stata una azione di intelligence e militare senza spargimento di sangue”. “Beato te – è la replica – e che doveva dire? Darvi il numero del bonifico con l’Iban e tutto? Ma per favore, la linea è sempre la stessa, ieri come oggi, con Frattini o con Gentiloni.
Negare, negare sempre. Per i tre la trattativa fu lunga, soprattutto dopo l’esecuzione di Quattrocchi (“vi faccio vedere come muore un italiano”, ndr), e con varie concessioni. Il 14 aprile esce la notizia della morte di Quattrocchi, il giorno dopo c’è l’ultimatum dei rapitori e la minaccia di uccidere un ostaggio ogni 48 ore, il 20 aprile si apre un corridoio umanitario della Cri per Falluja, intanto tutti, ministri, governo e opposizione dichiaravano che con i terroristi non si tratta”. L’8 giugno la liberazione, rivendicata davanti alle tv di tutto il mondo dagli americani, contrari fermamente a ogni concessione ai rapitori. Il nostro sorride. “So bravi gli americani, ma il merito di quel blitz è tutto dei colleghi polacchi, gente che stava in Iraq dal Novanta, che conosceva tutti, buoni e cattivi, anche loro hanno trattato e pagato per arrivare in quel covo”.
Misteri, strani personaggi che si muovono sul terreno infido di una guerra dove non esistono confini, il ricorso a organizzazioni che hanno conquistato una loro autorevolezza sul campo. È il caso di Emergency di Gino Strada che viene attivata nel sequestro dei contractors e in quello del giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, il ruolo di Maurizio Scelli, all’epoca commissario della Croce Rossa, successivamente deputato berlusconiano, nella liberazione delle “due Simona”, le volontarie di un “Un Ponte per…” rapite il 7 settembre del 2004 a Baghdad. Il 28 settembre, e dopo un’altalena di comunicati sulla loro morte, vengono liberate e consegnate nelle mani di Scelli. Ancora una volta la versione ufficiale fu “nessun riscatto pagato”, ma nel 2006, il britannico Times rivelò che l’Italia aveva pagato 11 milioni di dollari, 5 per la liberazione delle due operatrici di un “Un Ponte per…”, e 6 per riavere la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, rapita il 4 febbraio 2005 e liberata il 4 marzo. Nel tragitto verso l’aeroporto, un militare americano sparò ferendo la Sgrena e uccidendo il funzionario del SismiNicola Calipari.

lunedì 17 novembre 2014

TERRORISMO SPONSORIZZATO DAGLI USA E “CAOS COSTRUTTIVO”. - Julie Lévesque

TERRORISMO SPONSORIZZATO DAGLI USA E "CAOS COSTRUTTIVO"

L’Iraq è di nuovo in prima pagina. E di nuovo la situazione ci viene presentata dai media occidentali con un misto di mezze verità, bugie, disinformazione e propaganda. I media non vi dicono che gli USA stanno supportando entrambe le parti del conflitto iracheno. Washington sta apertamente supportando il governo shiita, mentre segretamente addestra, arma e finanzia l’ISIS. Supportare le brigate terroristiche è un atto di aggressione straniera, ma i media vi dicono che l’amministrazione Obama è “preoccupata” dalle azioni commesse dai terroristi.
Il racconto preferito dalla gran parte dei media USA e occidentali è che la situazione attuale è dovuta al “ritiro” delle truppe statunitensi, finito nel dicembre 2011. [...] Come al solito, non vogliono che capiate cosa sta succedendo. Il loro obiettivo è di formare percezioni e opinioni per una visione del mondo utile ai poteri forti. Vi dicono che è una guerra civile.
Quello che invece sta accadendo è un processo di “caos costruttivo” architettato dall’Occidente.
La destabilizzazione dell’Iraq e la sua frammentazione sono state pianificate molto tempo fa, e fanno parte del piano militare anglo-americano-israeliano per il Medio Oriente [...], che mira a creare un arco di instabilità, caos e violenza in tutta l’area che va dal Libano all’Afghanistan, fomentando l’animosità tra i diversi gruppi etnici e religiosi per ridisegnare i confini della regione.
Sebbene la strategia del “dividi e conquista” non sia nuova, essa funziona ancora grazie al fumo sollevato dai media. Architettare una guerra civile è il modo migliore per dividere un paese in territori diversi. Ha funzionato nei Balcani, abusando delle tensioni etniche per frammentare la Yugoslavia in 7 entità diverse. Oggi stiamo assistendo alla balcanizzazione dell’Iraq tramite lo strumento preferito dell’imperialismo, ovvero le milizie armate, chiamate “opposizione pro-democratica” oppure “terroristi” a seconda del contesto e del ruolo che devono giocare nella psiche collettiva.
I media e i governi occidentali le definiscono non in base a cosa sono, ma in base a contro chi combattono. In Siria costituiscono una “opposizione legittima, combattenti per la libertà e la democrazia contro una dittatura brutale”, mentre in Iraq sono “terroristi che lottano contro un governo democraticamente eletto e appoggiato dagli USA”.
Scrive Michel Chossudovsky in un articolo del 14 giugno:
“E’ noto e documentato che gruppi affiliati ad Al Qaeda sono stati usati da USA e NATO in numerosi conflitti fin dai tempi della guerra afgano-sovietica. In Siria, Al Nusrah e l’ISIS sono la fanteria dell’alleanza militare occidentale, che sovrintende e controlla il reclutamento e l’addestramento delle forze paramilitari. [...] Il progetto per uno Stato Islamico dell’Iraq e un califfato sunnita coincide con un piano statunitense di lunga data per ricavare da Siria e Iraq tre territori separati: un Califfato Islamico Sunnita, una Repubblica Araba e una Repubblica del Kurdistan. Mentre il governo (appoggiato dagli USA) di Baghdad acquista armi avanzate dagli Stati Uniti, compresi F-16 della Lockheed Martin, l’ISIS è supportato segretamente dall’intelligence occidentale
L’obiettivo è di architettare una guerra civile in Iraq, in cui entrambe le parti sono controllate indirettamente da USA e NATO. [...] Sotto la copertura di una guerra civile viene combattuta una guerra di aggressione. Questo mentre all’opinione pubblica si fa credere che sia un conflitto tra sciiti e sunniti.”
[...] Mentre i media riconoscono che l’Arabia Saudita supporta il terrorismo, ignorano il fatto che anche gli USA stanno supportando indirettamente entità terroristiche. Inoltre, i giornalisti mainstream non si chiedono mai perché gli USA non reagiscono al supporto saudita dei terroristi. I fatti sono chiari: gli USA stanno supportando il terrorismo proprio attraverso alleati come l’Arabia Saudita e il Qatar. Se i commentatori dei media non riescono a mettere insieme i pezzi, è solo perché non vogliono.
[...] Ora ci dicono che l’ISIS è riuscito a mettere le mani su sofisticate armi di fabbricazione statunitense. Non fatevi ingannare: quelle armi non sono arrivate lì per caso. Gli USA sapevano esattamente cosa stavano facendo mentre armavano e finanziavano l'”opposizione” in Libia e in Siria. Ciò che facevano non era stupido. Sapevano cosa sarebbe successo ed è ciò che volevano. Quando una risorsa di intelligence finisce con il lottare contro i suoi sponsor, qualcuno nei media “progressisti” parla di effetto boomerang. Scordatevi l’effetto boomerang, questo è un “effetto boomerang” pianificato con molta cura.
Alcuni diranno che la politica statunitense nel Medio Oriente è un “fallimento”, che i suoi artefici sono “stupidi”. Ebbene, non è un fallimento e non sono stupidi. Questo è ciò che vogliono che pensiate, perché loro pensano che voi siate stupidi.
Quanto sta accadendo ora è stato pianificato molto tempo fa. La verità è che la politica estera statunitense in Medio Oriente è diabolica, brutalmente repressiva, criminale e anti-democratica.

martedì 30 settembre 2014

Irak: chi arma l'ISIS e perché gli Usa non interverranno. - Maria Grazia Bruzzone


I commenti di questi giorni sull’avanzata travolgente degli estremisti sunniti dell’ISIS calati dalla Turchia e dal nord est della Siria fino a Mosul, la seconda città irakena con 2 milioni di abitanti, e fin quasi alle porte di Bagdad, non possono evitare ironie o addirittura sarcasmi. La guerra dell’Occidente per “portare la democrazia” in Irak dopo 10 anni   (e 5000 morti e 100.000 feriti solo fra i soldati Usa, un milione la stima delle vittime civili)   si sta risolvendo in una beffa: dove sventolava la bandiera dell’Irak di Saddam Hussein – non certo immacolata sebbene il raiss non avesse armi di distruzione di massa, né rapporti con Al-Qaeda, al contrario di quanto sostenevano G.W. Bush e Blair – sventola il drappo nero dei quaedisti sunniti dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante (o in Iraq e Siria) ovvero Islamic State of Iraq and Al-Sham, l’ISIS, insomma. 
  
E’ una lettura di gran lunga troppo facile di quel che accade, e non da oggi,   in quel settore del Medio Oriente dove le parti in gioco sono tante -  Usa, Iran, Siria, Monarchie del Golfo in particolare Arabia Saudita e Qatar, Irak del governo sciita di al-Maliki e Irak dei combattenti sunniti - con interessi in parte in conflitto fra loro, come cerca di chiarire ai lettori una sorta di mappa sul NYTimes. Un coacervo di contraddizioni ben analizzato sulla Stampa da Claudio Gallo (“Nella guerra a distanza Arabia-Iran la Turchia gioca la carta dei curdi”).  
  
Più drastici,  i blog “alternativi” vanno oltre e non esitano a puntare il dito sul ruolo degli Stati Uniti.   Ruolo peraltro ambiguo. Al punto che il governo Usa sembra molto riluttante a soddisfare la richiesta di aiuto da parte del filo-americano al-Maliki (che ha subito chiesto un intervento con aerei o droni) al quale si è clamorosamente unito l’Iran offrendo agli Usa collaborazione per respingere la minaccia sunnita. “Questa volta no”, ha dichiarato Hillary Clinton, potenziale candidata presidente nel 2016, contraria a ogni tipo di iniziativa (vedi Politico.com) Il dibattito negli Usa è quanto mai aperto, specie dopo che l’Iran sciita ha proposto agli Usa una collaborazione contro i sunniti dell’ISIS.  

Mr President: is the US still arming ISIL in Syria? Chiedeva provocatoriamente un tweet di @zerohedge venerdì scorso (13/6 ). Il giorno prima lo stesso blog postava un pezzo, senza punti interrogativi, intitolato Come gli Usa armano i due fronti del conflitto irakeno, ripreso da Infowars. 

Armi all’Irak di MalikiIl primo, sulla scia di una notizia Reuters, si dava conto del primo  F-16, del contingente di ben 36 aerei ordinati dal governo irakeno di al-Maliki, 18 nel 2011 per $3 miliardi, altrettanti nel 2012.  Per meglio proteggere l’Irak  in marzo gli Usa hanno fornito all’Irak 100 missili Hellfire, e fucili d’assalto e munizioni, si aggiungeva.  E in aprile avevano mandato altre armi, e 11 milioni di  rotoli di munizioni e altre forniture.  
“L’Irak è un grande paese con 3600 km di confini, e dobbiamo proteggerli”, dichiarava l’ambasciatore Usa, in procinto di priedere alla cerimonia di consegna alla Lockeed.  Il paese non ha più un’aviazione dopo l ‘invasione del 2003 che rovesciò Saddam, dopo aver distrutto l’esercito del raiss, ora tocca ricostituirlo, fantastico - osservava il post. 

E armi ai jihadisti combattenti sunniti . “Qualcuno mente. Obama dichiara di non armare i 'ribelli 'siriani, loro affermano il contrario”, titolava due settimane prima (28/5) lo stesso blog  economico-finanziario  (ad influenzare  Borse, valute, petrolio e materie prime e Borse come si sa sono le notizie più varie). Riferendosi da una parte alle affermazioni del presidente (stiamo pensando di addestrare e armare i ribelli siriani “moderati” che combattono cotro Assad, come fosse solo un’intenzione), dall’altro al servizio della tv pubblica PBS, Frontline dove ribelli volutamente non identificati ma apparentemente moderati al giornalista che li ha seguiti per vari giorni sul terreno asserivano di avere contatti con Americani che ordinavano loro di mandare contingenti di 80-90 militi in Turchia dove vengono addestrati all’uso di armi sofisticate e tecniche di combattimento.  
Chi guadagna da questo duplice gioco? Sicuramente il complesso militar-industriale,  conclude zerohedge, e qui si ferma. 
  
  “ Susan Rice ammette che gli Usa danno armi ad Al Qaeda in Siria” arrivava a titolare ad effetto Infowars il 7 giugno con video di YouTube incorporato in cui il consigliere n. 1 del presidente parla alla CNN. Dice di avere il “cuore spezzato” per le distruzioni in atto in Siria. “ E’ per questo che gli Stati Uniti hanno accresciuto il sostegno alle opposizioni moderate fornendo armi letali e non letali dove possiamo appoggiare sia l’opposizione civile sia quella militare”.  Gruppi moderati spesso sotto finanziati, frammentati e caotici, sembrano servire a poco rispetto alle unità islamiste più radicali e organizzate, scriveva l’agenzia Reuters già un anno fa. E oggi?  Nonostante le dichiarazioni di Rice l’amministrazione Usa è rimasta vaga, rifiutando di dare dettagli.  
  
A chi finiscono le armi? L’autore del post ricorda di aver scritto già ad aprile che gli Stati Uniti fornivano armi ad al-Nusra ( fazione jihadista vicino ad al Qaeda) e altri gruppi terroristi in Siria  attraverso gruppi moderati. “Se quelli che ci sostengono (Usa, Arabia Saudita, e Qatar) ci dicono di madare le armi a un altro gruppo le mandiamo. Un mese fa ci dissero di mandare molte armi a Yabroud, (una città siriana) e lo abbiamo fatto”, ha raccontato Jamal Marouf, che guida il Syrian Revolutionary Front (SRF) creato dalla CIA e intelligence di Arabia e Qatar.   
  
Ora viene citato Barak Barfi, ricercatore della New America Foundation, a sua volta certo che al Nusra, uno dei gruppi jihadisti più feroci, riceve armi indirettamente dal SRF . “Si sa che il primo ministro turco Erdogan  appoggia l’ al-Nusra  Front e altri gruppi terroristi, ha scritto del resto lo scorso aprile il giornalista Premio Pulitzer Seymour Hersh, parlando degli appoggi da parte dei paesi vicini della Siria, specie la Turchia, alle milizie terroriste.  
  
E al-Nusra Front un mese fa ha dichiarato che avrebbe obbedito all’ordine del leader di al-Quaeda Al-Zawahiri  di fermare gli attacchi ai rivali dell’ISIS , raccontava a inizio maggio Asharq Al-Awsat , primo giornale panarabo, stampato in 4 continenti. Al-Nusra  è  una branca di al-Qaeda in Siria mentre l’ISIS è considerato l’ala irachena, viene specificato. 
  
Ma chi c’è dietro l’ISIS che dice di guidare la ribellione dei sunniti contro le ingiustizie commesse dagli sciiti del dopo Saddam? Chi lo sostiene, chi lo arma, chi lo finanzia?  Se lo chiede l’autore di un altro articolo dello stesso giornale, che si dice sorpreso di aver visto il suo capo Abu Bakr Al-Baghdadi addirittura sulla copertina di TIME alla fine dell’anno scorso.  
  
Baghdadi - secondo un blog francese  assai “cospirazionista” ma informato - comanderebbe la milizia per conto dei Saudiani (sunniti-wahabiti), sarebbe legato direttamente a un principe della famiglia reale fratello di un ministro, ma il gruppo sarebbe co-finanziato da americani, saudiani e anche francesi. Irakeno, Baghdadi nel 2013 se ne è partito a combattere in Siria, radicandosi nel nordest a Raqqa.  Salvo dirigersi recentemente verso l’Irak , arrivando al distretto di Ninive, a  Mosul e a Baliji, sede della maggiore raffineria irakena, oggi circondata dalle sue truppe.  
  
Gli alleati segreti dell’ISIS. Senza nemmeno trovare troppa resistenza, racconta qui Global Research: a Mosul l’esercito irakeno – addestrato per 10 anni dagli americani (costo $20 miliardi)-  non solo non è stato capace di fermare 2-3000 militi ISIS, ma i soldati hanno disertato in massa lasciando sul campo uniformi e armi per i guerriglieri, dove già militavano ex ufficiali e commilitoni dell’esercito di Saddam, sunniti come loro. E come gran parte della popolazione della regione, che infatti pare abbia applaudito la rotta dell’esercito di Al Maliki. (“Gli alleati segreti dell’ISIS”, titola un  post del Daily Beast, raccontando cose simili).  
  
Una campagna non da poco , quella di Mosul, pensata e preparata con cura e per tempo.  L’ISIS del resto è un vero esercito ben organizzato e pagato, scrive un post di Land Destroyer/Infowars . 

E mostra la foto di un lunghissimo convoglio di guerrieri con i loro vessilli neri a bordo di veicoli Toyota tutti uguali e nuovi, a quanto sembra. “Gli stessi usati dai miliziani che la Nato ammette di armare”, osserva l’autore. Che non crede alla “sorpresa” che i media americani raccontano. 

Davvero la CIA non sapeva niente dell’avanzata di giugno? Vogliono far credere che l’intelligence sia stata colta di sorpresa, malgrado la sua presenza in Irak, e  che l’ISIS sia un gruppo che si autofinanzia con furti alle banche e donazioni via twitter (sui giornali è uscito anche questo). La CIA ha da tre anni un programma di droni che sorveglia il confine fra Siria e Turchia. Poteva almeno leggere i giornali: il Lebanon Daily Start in marzo riferiva che il gruppo si era dislocato dalla Siria del nord verso est lungo il confine con l’Irak.
 
 L'autore cita Seymour Hersh che già nel 2007 ( articolo The Redirection) documentava "l'intenzione di Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele, di creare e dispiegare una rete regionale di estremisti settari che avrebbero dovuto confrontarsi con Iran,Siria e Hezbollah in Libano. "L'armata ISIS è la manifestazione finale di questo disegno", scrive. Accreditando la tesi complottista avanzata dall'autorevole giornalista. 

L’ ISIS  non è più da tempo una mera organizzazione terroristica. E’ una forza militare convenzionale che occupa un territorio e pretende di governarne una parte. La campagna di Mosul è stata bel pianificata e ha richiesto anni per metterne a punto le condizioni. Le operazioni hanno permesso di tagliar fuori i media dalla città, limitare le attività delle Forze di Sicurezza irachene, e guadagnarsi libertà di movimento all’interno. Un lavoro sul terreno per arrivare il 10 giugno alla presa di Mosul e del territorio, all’apprezzamento del suo attacco, all’aspirazione a governare uno stato tra Irak e Siria (non va dimenticato che l’ISIS controlla già l’area nel nord della Siria intorno a Deir el Dzor, ndr).  
Così un report del 10 giugno dell’Institute for the Study of War, (istituto di ricerca indipendente, no partisan e no profit, specializzato in Medio Oriente). A citarlo è un post di Counterpunch online, mensile ormai storico di orientamento “radicale”, che non esita di criticare dem o rep. Il report – commenta il post - suggerisce che l’ISIS non è affatto quell’amalgama di fanatici rabbiosi che si vuol far credere, ma un esercito altamente motivato e disciplinato con chiari e definiti obiettivi politici e territoriali.  

Come andrà a finire? Interessante la convergenza fra analisi assai diverse.  
“Vi sono indicazioni crescenti che la crisi innescata dall’offensiva ISIS possa portare alla completa frattura dell’Iraq secondo linee settarie, cambiando la mappa politica del Medio Oriente”, scrive Global Research. E Claudio Gallo sulla stampa.it: 
“Paradossalmente, il crollo dell’Iraq ha riportato in voga le cartine apparse sul web all’indomani dell’Operazione Iraqi Freedom lanciata da George W. Bush nel 2003. Mostravano un paese diviso in tre stati: uno curdo al nord, uno sunnita al centro e uno sciita a sud. Più o meno la mappa attuale” .  
  
Counterpunch è il più esplicito:  
“Se le cose stanno così allora è verosimile dopo che non marcerà su Bagdagma stringerà la sua presa sulle aree a predominanza di sunniti, costruendo uno stato nello stato. E questo è precisamente il motivo per cui l’ amministrazione Obama potrebbe scegliere di star fuori del tutto dalla conflagrazione, perché gli obiettivi dell ’ ISIS coincidono con un piano assai simile di creare una “ partizione soft "  che data dal 2006"  
"Il piano fu proposto per la prima volta da Leslie Gelb, ex presidente del Council of Foreign Relations (il  suo articolo sul NYTimes risale in realtà al 2003 ndr), e dal senatore Joe Biden (nel 2006). Secondo il New York Times “ il cosiddetto piano della ‘ partizione soft’ prevede di dividere l’ Irak in tre regioni semi-autonome. Ci sarebbe un Kurdistan arrendevole, un morbido Shiastan, e un altrettando soft Sunnistan , tutti sotto un grande, debole ombrello Irak".  
"Ed è per questo motivo che gli Stati Uniti probabilmente non dispiegheranno truppe da combattimento per confrontarsi coi miliziani sunniti a Mosul. E’ perché gli obiettivi strategici dell ’ amministrazione Obama e quelli dei terroristi sono quasi identici. Cosa che non dovrebbe sorprendere nessuno”, conclude Counterpunch. 
Va sottolineato che il Sunnistan comprenderebbe una parte del territorio siriano,  peraltro già sotto il controllo dell’ISIS. I siriani (e il presidente Assad) sarebbero d’accordo? E l’Iran sciita che oggi infatti offre collaborazione agli Stati Uniti?  

sabato 13 settembre 2014

EUTANASIA DEL REALE. - ROSANNA SPADINI



Fine dell’empatia comunicativa e inizio della distopia sociale, indotta ad arte dalla meraviglia multimediale dei visual network. 
Il 1989 è un anno di svolta, è l’anno in cui la società dello spettacolo diventa schiava di se stessa, in cui lo spettacolo viene trasformato in strumento di disperazione e di morte e si rompe quel patto millenario dell’illusione scenica utilizzato fino a quel momento per la promozione culturale della società, ridotta ora a semplice scenografia teatrale. 
Un teatro che rinnega se stesso, un teatro che uccide.
Il senso dell’incertezza della “società liquida” lo si riconosce anche nell’esercizio ossessivo della “navigazione in rete”, dove ci si connette immediatamente con gli altri, ma in realtà con altrettanta facilità ci si disconnette, smantellando con un canc i legami interpersonali che ci disturbano.

Navigazione rischiosa e temeraria, in cui viene consentito all’individuo di essere in un altrove extraterritoriale e slegato dallo spazio fisico del suo corpo e dal tempo della sua coscienza. 


Lo dice anche Giorgio Agamben, illustre filosofo italiano, che ha sintetizzato in modo magistrale la vicenda di Timisoara e del “falso genocidio” che la polizia di Ceausescu avrebbe provocato appunto nel 1989, anno in cui si manifesta la nascita delle notizie/spettacolo, funzionali al sostegno delle guerre moderne.
Venne allestito una sorte di set cinematografico dell’orrore, per criminalizzare Ceausescu:
«Per la prima volta nella storia dell’umanità, dei cadaveri appena sepolti o allineati sui tavoli delle morgues [degli obitori] sono stati dissepolti in fretta e torturati per simulare davanti alle telecamere il genocidio che doveva legittimare il nuovo regime. 
Ciò che tutto il mondo vedeva in diretta come la verità vera sugli schermi televisivi, era l’assoluta non-verità; e, benché la falsificazione fosse a tratti evidente, essa era tuttavia autentificata come vera dal sistema mondiale dei media, perché fosse chiaro che il vero non era ormai che un momento del movimento necessario del falso. Così verità e falsità diventavano indiscernibili e lo spettacolo si legittimava unicamente mediante lo spettacolo. Timisoara è, in questo senso, l’Auschwitz della società dello spettacolo: e come è stato detto che, dopo Auschwitz, è impossibile scrivere e pensare come prima, così, dopo Timisoara, non sarà più possibile guardare uno schermo televisivo nello stesso modo» (Agamben 1996).
Nei mesi successivi si accertò che le notizie non provate dei giorni precedenti andavano drasticamente ridimensionate, che le foto dei cadaveri erano un “falso giornalistico” e che non c’erano state fosse comuni, 
i giornali rettificarono e la vicenda fu presto archiviata di fronte ai grandi eventi che si prospettavano: il collasso dell’URSS, la Prima Guerra del Golfo, ecc …
La guerra moderna dunque “sola igiene” del mondo, viene anticipata da eventi traumatici sapientemente orchestrati dal regime e funzionali agli step successivi, con la produzione del falso giornalistico, per suscitare attraverso il terrorismo mediatico l’indignazione della gente e poi di conseguenza l’attacco aereo e il massacro dei civili. Così è avvenuto anche nel 1991 durante la prima guerra del Golfo, sostenuta anch’essa dalle solite denunce false: un’agenzia pubblicitaria denunciava il fatto che i soldati irakeni “tagliavano le orecchie” ai kuwaitiani che resistevano, poi che gli invasori avevano fatto irruzione in un ospedale “rimuovendo 312 neonati dalle loro incubatrici e lasciandoli morire sul freddo pavimento dell’ospedale di Kuwait City.”

Il linguaggio dell’immagine diventa il luogo politico per eccellenza, il luogo del conflitto estremo, oggetto 
di una contesa e di una manipolazione senza precedenti, dove il rapporto tra la scenografia e la sfera dei mezzi puri o dei gesti cognitivi  si emancipa dalla sua relazione ad un fine. Il video/teatro o la notizia/spettacolo perdono ogni tipo di senso didascalico, per dotarsi delle categorie della guerra, che prima di essere morte fisica segneranno la morte ontologica del teatro, così come è stato inteso da millenni. Il teatro muore nel momento in cui uccide la realtà: viene così realizzato il delitto perfetto!

Infatti nel 1991 gli psicopatici della  CIA organizzarono una psywar (psychological warfare) per demonizzare Saddam Hussein agli occhi del suo stesso popolo e facilitare così l'attacco. Avrebbero dovuto diffondere in Iraq un video in cui veniva mostrato il dittatore iracheno mentre faceva sesso con un ragazzo, naturalmente ripreso da una telecamera nascosta, come se si trattasse di una registrazione clandestina. Il video venne effettivamente girato, con un sosia di Saddam e alcuni agenti della CIA camuffati da arabi. Poi il progetto venne bloccato, di fronte ad altre strategie di false flag.
Il 2 agosto 1990 la 1° guerra del Golfo inizia prima sui mass media, poi nella realtà, con il simbolico conflitto tra Bush e Saddam Hussein avvenuto attraverso i canali della comunicazione, in cui entrambi si scambiavano minacce e sfide, appelli rivolti  all’estero in nome del diritto internazionale o  dei comuni valori religiosi e culturali del mondo arabo. La radio funzionò anche come strumento di spywar, la “Voice of America” tentò di minare il morale dei soldati iracheni dando notizia di un avvelenamento dell’acqua dei pozzi del deserto.

Sul fronte interno venne applicata una strategia di news management sui media americani (e di riflesso su quelli mondiali), prima per ottenere l’approvazione dell’ONU all’intervento armato, poi per il consenso interno alla guerra. L’amministrazione Bush diffonde il dato della presenza di 250.000 soldati iracheni e 1.500 carri armati in Kuwait (ma i satelliti sovietici non li vedono).

Intanto il governo kuwaitiano in esilio si affida alla maggiore agenzia americana  di pubbliche relazioni, la “Hill & Knowlton”, che cerca di influenzare l’opinione  pubblica utilizzando tecniche di marketing commerciale, demonizzando Saddam Hussein  con l’accostamento rispetto ad  Hitler, che si rivelerà una delle strategie vincenti per la mobilitazione dell’opinione pubblica contro l’Iraq.

Prova della malvagità irachena è anche la testimonianza portata da una ragazza quindicenne kuwaitiana a  Washington davanti alla Commissione Difesa, dice infatti che i soldati iracheni staccavano la corrente elettrica alle incubatrici degli ospedali, per fare morire i neonati kuwaitiani.  Questa testimonianza si rivelerà  un falso, la ragazza era in realtà la figlia dell’ambasciatore kuwaitiano all’ONU e aveva recitato un copione preparato dalla “Hill & Knowlton”. 

In questo senso quella del Golfo è stata la prima guerra televisiva, perché ha sfruttato pienamente le possibilità del mezzo televisivo di essere sul campo, confezionare e vendere la  guerra, a differenza del Vietnam, quando politici e militari non avevano capito come il nuovo media avrebbe potuto controllare il messaggio e distruggere un nemico appartenente al terzo mondo, e perciò senza voce. Da allora la leadership politica sembra avere appreso la lezione.

L’atto finale della guerra del Golfo trasmesso dalla televisione è la calata dei soldati americani da un elicottero per riconquistare l’ambasciata di Kuwait City. Di fronte a questa scena spettacolare, nessuno pone la domanda dell’utilità dell’azione (visto che la capitale era già libera da due giorni).  Per evitare le pericolose interferenze dei giornalisti e dell’opinione pubblica il comando militare si serve dei due strumenti tradizionalmente a sua disposizione: la censura e la produzione di un flusso alternativo di notizie.

Tutti i corrispondenti accreditati presso il JIB (Joint Information Bureau) a Dhahran, (in Arabia, la sede del comando delle forze alleate), sono obbligati a firmare un  documento in cui si impegnano a rispettare determinate condizioni, pena il ritiro dell’accredito. È proibito loro di andare al fronte senza una scorta militare, di fotografare o filmare morti e feriti, di dare informazioni su  armamenti, equipaggiamento, spostamenti  e consistenza numerica delle unità alleate e sulla consistenza dell’armamento nemico, di descrivere nei  particolari le operazioni militari, di fornire dati sulle perdite alleate, di nominare le basi di partenza delle missioni, di intervistare i militari senza il preventivo permesso ufficiale.

Questo controllo quasi totale  della censura militare è amplificato dalla nuova natura della guerra, guerra aerea, condotta con aerei e droni, che esclude la presenza fisica del giornalista. La guerra del Golfo è così oscurata per le cronache dell’informazione vera e propria, ma alla censura si riuscirà ad unire un’apparente ricchezza informativa, ottenuta dal news management militare.  Il comando militare delle forze multinazionali tiene briefings quotidiani in cui si forniscono dati, numeri, analisi delle azioni del giorno e soprattutto le immagini della guerra aerea, computerizzate o riprese da cineoperatori militari, e quelle degli aviatori in partenza o di ritorno dalla missione.

Poi però una delle immagini più famose, simbolo della guerra, quella del cormorano che agonizza nel petrolio a causa dell’incendio dei pozzi kuwaitiani, ha destato forti dubbi. Com’era stato possibile filmare, se il  territorio era in mano agli iracheni? Successivamente esperti ornitologi dissero che il cormorano non dimorerebbe nella regione in quel periodo dell’anno (Mirko Nozzi, Informazione e guerra).

Per arrivare ai giorni nostri in cui numerose false flag e spettacolarizzazioni della guerra moderna rimangono micidiali armi di distruzione di massa. Mentre viviamo da spettatori stavolta coinvolti sullo scenario di una terza guerra mondiale, negli ultimi mesi ci sono state somministrate diverse bufale mediatiche, che dovevano predisporre la demonizzazione del nemico e la giusta motivazione dell’intervento.  

Prima il “reality show” avvenuto a Kiev nel febbraio 2014 di cui si attribuiva la responsabilità ad un “sano desiderio di rivoluzione europeista”,  poi il Boeing MH17 abbattuto si diceva dai separatisti, poi l’invasione delle truppe russe in territorio ucraino, invasione mai avvenuta.
E le false flag sono poi avvalorate dai soliti vampiri, assatanati di sangue umano.  Infatti a Cernobbio, il 5 settembre, si è presentato il senatore dell’Arizona John McCain,  che ha detto - "Dovremmo vergognarci per non aver aiutato l'Ucraina di fronte a una chiara e aperta invasione da parte della Russia di Putin, l'ex generale del Kgb che si sente investito di un destino storico. E non venite a dirmi che questa non e' un'invasione vera e propria. L'Ucraina ha accettato il cessate il fuoco perché sta perdendo, perché non l'abbiamo aiutata a combattere contro un nemico più forte e agguerrito di lei".. "Di fronte al grido di aiuto dell'Ucraina - ha detto ancora McCain - l'amministrazione Obama ha deciso di fornire agli ucraini giubbotti antiproiettili che non servono un granché contro i  carrarmati e gli europei non hanno fatto assolutamente nulla".

Dunque il senatore McCain, avvoltoio di carriera, sempre presente in scenari che preannunciano l’imminenza di una guerra, non dice la verità naturalmente, non dice che le “truppe naziste” di Kiev sono state finanziate da USA, foraggiate dalla NATO, con la complicità dell’UE, e che nonostante i poderosi sostegni militari, sono state sbaragliate dai separatisti, meno riforniti di armi ed equipaggiamenti. 
Il senatore McCain non dice che non c’è stata nessuna invasione della Russia, ma anzi è vero il contrario, il territorio russo è stato letteralmente circondato da basi missilistiche americane. 
Per di più gli Usa hanno costretto l’UE all’imposizione di sanzioni economiche alla Russia, assolutamente demenziali, che danneggeranno fortemente la sua economia, per le esportazione di alimentari e manufatti rispedite al mittente e mettendola a rischio di insufficienza di risorse energetiche nel prossimo inverno.
Insomma di episodi di video/stragismo  ne abbiamo visti e sentiti tanti, da quel dannato 1989 in cui è iniziata l’”eutanasia del reale attraverso le immagini”. I regimi totalitari l’avevano già utilizzata per la propaganda politica di mietitura del consenso, ma mai in maniera così massiccia e spudorata, manipolando la realtà stessa per poi ucciderla in diretta. 
Ma un’altra novità degli ultimi tempi è che i più diretti avversari degli USA, Vladimir Putin e ISIS, si sono attrezzati alla grande per poter fronteggiare l’egemonia mediatica del mondo occidentale.
Ispirato dai media controllati dallo Stato del regime sovietico, anche il presidente Vladimir Putin sta facendo uno sforzo concertato per "rompere il monopolio anglo-sassone dei mass media " e per  "illuminare all'estero le politiche statali" del Cremlino. A tal fine, sta investendo somme incredibili di denaro nei media russi. Per esempio la Russia sta attualmente espandendo la sua emittente estera RT (precedentemente noto come Russia Today ), e la News Agency Ruptly. Lanciata nel 2005, RT è attualmente disponibile in inglese, spagnolo e arabo, e viene posizionato come alternativa ai media internazionali occidentali, come la CNN e la BBC.
Il governo USA aveva bloccato alcune volte la diffusione del canale Russia Today sul territorio nordamericano, dato che l’emittente si è sempre distinta dai media controllati dalle corporation per la sua indipendenza da grandi finanziatori americani, e  ha trattato i problemi di politica internazionale dando libertà di espressione a economisti e geopolitologi “fuori dal coro”.
Siamo nel bel mezzo di una guerra di propaganda mediatica spietata. RT è diventata uno strumento assolutamente necessario per la Russia, ai fini di gestione della politica estera, ed il Cremlino sta sfidando gli USA con una guerra di propaganda di altissima qualità, che continuamente smentisce il flusso di notizie yankee a senso unico.
RT si è già affermata con successo nei nove anni dalla sua creazione, ha recentemente superato anche la CNN quando si tratta di video visualizzati su YouTube. Con quasi 1,2 miliardi di vedute, la BBC è l'unico mezzo di comunicazione prima di RT. In Gran Bretagna, RT ha più spettatori rispetto al livello europeo di notizie Euronews e in alcune grandi città degli Stati Uniti, il canale è il più visto di tutte le emittenti straniere. La marcia trionfale del broadcaster di Putin è iniziata in una ex fabbrica nel nord-est di Mosca e il suo compito è stato fin da subito: "Rompere il monopolio dei mass media anglo-sassone".
Secondo Peter Pomerantsev, produttore televisivo e saggista, Putin sta reinventando la guerra del XXI secolo,  e la propaganda viene utilizzata come arma principale. La Russia starebbe conducendo una "guerra non lineare" in una strategia di "avant-garde", basato sul presupposto che il conflitto nel mondo globalizzato di oggi è multidimensionale, e gli Stati-nazione non sono più schierati contro altri Stati-nazione.
Allo stesso modo, anche l'insurrezione dello Stato Islamico irakeno sta impiegando nuove sofisticate tecniche di propaganda. Nel suo sapiente utilizzo di mezzi di comunicazione diversi, il gruppo ISIS ha utilizzato numerosi video, immagini scattate da terra di droni, e messaggi in multilingua sui social media. Ha utilizzato anche servizi come JustPaste per la pubblicazione di riassunti di battaglia, SoundCloud per rilasciare report audio, Instagram per condividere immagini e WhatsApp per diffondere la grafica e video. Ha adottato poi la strategia di  intimidire i nemici con immagini shock di decapitazioni (vere o presunte) dimostrando grande competenza tecnologica.
Infatti la campagna d'informazione dell’ ISIS è diventata molto più sofisticato rispetto a quella di Al Qaeda; 
i suoi video ben congegnati sono ben lontani da quelle sgranate immagini statiche di Osama Bin Laden & com. significativa è la pubblicazione di un flusso costante di storie dell'orrore su Facebook e Twitter, utilizzando l'hashtag  #ThinkAgainTurnAway.
L'insurrezione ribelle ha attentamente costruito una narrazione che giustifica la propria lotta contro le divisioni nazionali dei confini mediorientali tracciate dalle potenze occidentali, dopo la prima guerra mondiale e che definisce "partizioni Crusader", adattando terminologia informatica ad eventi storici (segnale di provenienza culturale dichiaratamente yankee). L’ISIS ha continuato a sostenere che il compito di una leadership araba moderna deve essere quello di contrastare la  strategia angloamericana del  “divide et impera”,  che impedisce al popolo musulmano di unirsi "sotto lo stesso Imam portando la bandiera della verità".
Dunque nella “War of the Worlds” del terzo millennio, è stata realizzata sotto i nostri occhi la perfetta “eutanasia del reale”, e secondo quanto diceva  Jean Baudrillard, l’immagine fantasmagorica e multimediale, riprodotta milioni di volte, su milioni di teleschermi accesi 24 ore su 24, ha ucciso la realtà globalizzata, compiendo così “Il delitto perfetto”.
The game is over, the game begins again.

Rosanna Spadini


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