martedì 27 agosto 2019

Rousseau ragionava. - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 27 Agosto:

L'immagine può contenere: 5 persone, persone che sorridono, persone in piedi

Pare incredibile. Ma, salvo sorprese, la crisi più pazza del mondo sta per concludersi all’insegna del buonsenso. Che purtroppo era mancato un anno fa, quando i 5Stelle proposero il contratto al Pd e, all’ultimo miglio, Renzi lo stracciò. Il fatto che ora Renzi sia stato il primo sponsor del patto giallo-rosa e che tutto il partito si sia convinto nel giro di una settimana aumenta il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato in questi 14 mesi, che hanno regalato a Salvini una vetrina insperata per gonfiarsi come un tacchino nella sua resistibilissima ascesa.

Non era scontato che M5S e Pd trovassero uno straccio di linguaggio comune in così poco tempo, visto che dal 4 marzo 2018 il fossato fra loro si era vieppiù allargato. Ma alla fine, complice la paura di votare nella data e nelle condizioni imposte dalla Lega, la ragione e il realismo hanno prevalso.

Di Maio è stato abile (e generoso, come Fico) a giocarsi l’unico asso in mano, cioè Conte, che compatta il M5S, garantisce i militanti in una svolta così ardua, allarga la platea degli elettori e accompagna il movimento all’esame di maturità.

Zingaretti è stato onesto (e pure lui generoso) a ritirare l’assurdo veto su Conte, che nessuno (nemmeno tra i suoi) avrebbe capito, per salvare per un altro po’ l’unità del Pd. Ora si spera che i ministri siano all’altezza. E magari che si intraveda un programma, che è – insieme al tasso di litigiosità – il vero banco di prova di un governo che potrebbe rimettere a cuccia Salvini, ma anche resuscitarlo.

Ora i 5Stelle temono il voto degli iscritti su Rousseau (allora forse non è truccato). Ma sarebbe stupefacente se fosse negativo: Rousseau, quello vero, ragionava. Cos’è il Pd lo sappiamo tutti, ma pure cos’è la Lega. Anche un anno fa, nel voto sul contratto con Salvini, si parlò di “rivolta sul web”. E il programma del Pd – per quanto vago e cangiante – è meno distante da quello grillino di quello leghista.

Chi ha il maldipancia va capito, ma deve sapere che il Conte 2 o 2.0 in salsa giallo-rosa è la peggiore soluzione eccettuate tutte le altre. Che sarebbero solo due.

1) Il voto subito, cioè un governo Salvini-Meloni-B. che cancellerebbe le leggi-bandiera del M5S. Anche se il M5S passasse dal 17 al 24%, il Rosatellum regalerebbe il cappotto alla destra, al Nord e nei collegi del Sud. E per il proporzionale puro ci vuole un governo, e un governo che lo voglia.

2) Il ritorno con la Lega, oltre a spaccare i grillini che Di Maio ha riunito sotto le ali di Conte, segnerebbe il loro divorzio dal premier per ora e per sempre; e li esporrebbe all’ennesima fregatura da quel campione di slealtà che è Salvini. Il Cazzaro Verde è come lo scorpione: non è cattivo, è proprio fatto così.


https://www.facebook.com/TutticonMarcoTravaglioForever/photos/a.438282739515247/2724473224229509/?type=3&theater

Cade il tabù su Conte. Il governo è quasi fatto. - Luca De Carolis

Cade il tabù su Conte. Il governo è quasi fatto

Ha vinto l’inerzia della politica, hanno vinto le ragioni di tanti mondi e poteri diversi. Più forti dei dubbi di Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio, sposi obbligati con il mal di pancia celato dietro ai sorrisi da telecamere. Costretti a ignorare anni di insulti incrociati, sospetti che fanno rima con accuse, distanze che su certi temi sono siderali. Ma tutto questo ormai è già un’altra storia, è già un passato da rossori, perché il presente certifica che il governo tra Cinque Stelle e Pd si sta per fare con Giuseppe Conte ancora premier, Di Maio ancora dentro il governo e ministri di peso che dovranno andare ai dem.
La parziale compensazione per quella “discontinuità” che Zingaretti ha invocato per giorni e che ha non avuto, perché avrebbe voluto dire niente Conte a Palazzo Chigi: e invece no, tanti, tantissimi lo volevano ancora lì l’avvocato, come una garanzia per un governo che pareva eresia e di certo sarà un esperimento. Più che complicato anche a vederne i vagiti, perché per tutta la sera Pd e 5Stelle si accusano a vicenda di voracità, di chiedere poltrone su poltrone.
Iniziano a farlo già dalle sei e qualcosa della sera, dopo che Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti si sono incontrati nella pancia di Palazzo Chigi. È lì, nell’ufficio del vicepremier, che i due danno il via alla trattativa, quella vera. Zingaretti fa cadere il veto su Conte, ma in cambio chiede ministeri decisivi come l’Economia, l’Interno e gli Esteri. Di Maio invece vorrebbe lasciare il Tesoro a Tria e soprattutto pretende per sè il Viminale. E pure dentro i 5 Stelle in diversi alzano i sopraccigli: “Ma proprio al posto di Matteo Salvini vuole andare, ma non vede i rischi?”.
La sintesi è che bisogna discuterne tanto e allora il capo del M5S rilancia: “Dei nomi bisogna parlarne anche con Conte, visto che sarà lui il presidente del Consiglio”. Dopo 25 minuti di abboccamento finisce così, con il rinvio della trattativa decisiva alle 21, quando il premier dimissionario sarà tornato dal G7 a Biarritz. Ma prima era già successo quello che serviva a preparare il terreno per il vero tavolo. Con Zingaretti che, in mattinata, prova con parole pubbliche: “Si deve provare ad andare avanti, sto lavorando a una soluzione seria, ma dobbiamo ascoltarci (tradotto: vederci, ndr)”. Dopo, e soprattutto, il segretario dem telefona a Conte, ancora in Francia per il G7. Pochi minuti di colloquio in cui il segretario dem ribadisce la richiesta che è il suo mantra: “Presidente, voglio un governo di svolta, con discontinuità”. Non gli dice direttamente che il no al suo nome è saltato, ma il segnale è chiarissimo. Ma Zingaretti chiama anche per sondare il premier. Teme i sommovimenti dentro il Movimento, ha paura che le sirene della Lega siano ancora un problema concreto. Ne parla, di nuovo, con i big riuniti al Nazareno in attesa della svolta. Perché i dem aspettano il vertice dei 5Stelle, previsto nel pomeriggio. E ascoltano i sussurri che arrivano dall’altro fronte. “Luigi sta soffrendo molto, questo accordo gli pesa”, raccontano due big del Movimento. Il vicepremier, bermuda e camicia, si palesa sotto casa con la fidanzata per andare a pranzo immortalato dai fotografi. E mentre passeggia sotto i flash il Carroccio gli fa arrivare ancora offerte tramite intermediari vari: “Ti diamo la presidenza del Consiglio e sui temi ci metteremo d’accordo”.
Alle 15 Di Maio riunisce tutto il gotha del Movimento per prendere la decisione definitiva. Sa che ormai il sì a Conte c’è, le varie anime e cariche del Pd gli hanno dato ampie rassicurazioni. Però in silenzio spera che nella riunione più d’uno protesti, chiedendo una via per ricucire con la Lega. Ma dentro la casa sul Lungotevere del suo strettissimo collaboratore Pietro Dettori gli rispondono con l’evidenza dei numeri. Non si può tornare con il Carroccio, i gruppi parlamentari esploderebbero.
Protesta solo Alessandro Di Battista. Non può bastare. Così Di Maio sale su un taxi e se ne va a Chigi per incontrare Zingaretti.
Ma è l’antipasto per l’incontro chiave, quello con Conte. Il governatore del Lazio gli ritelefona alle 19, appena il premier atterra a Ciampino di ritorno da Biarritz. “Il nodo sulla premiership non è ancora sciolto, sarà solo un incontro tra due delegazioni”, dissimula nel frattempo il Pd. Come a dire che l’accordo su Conte premier ancora non c’è, perché bisogna prima chiarire tutta la mappa del governo giallo-rosso. Così, poco dopo le 21, inizia il vertice a quattro con Di Maio, Conte, Zingaretti e il vicesegretario dem Andrea Orlando. E si va avanti per ore, a discutere di nomi ed equilibri. Per costruire quello che pareva impossibile.

Il ribaltato.- Tommaso Merlo



Salvini si è ribaltato da solo. Altro che ribaltone. Affermare che ci fosse un accordo col Pd dietro le quinte, è una vigliaccata degna del personaggio. La solita mossa per buttarla in cagnara. Si dà il caso che mentre lui cazzeggiava in giro per raccattar voti, il Movimento lavorasse seriamente e col Pd ci ha fatto a botte per anni. È Salvini che aveva in testa il tradimento da tempo. Lo hanno ammesso molti gerarchi leghisti che volevano rompere già dopo le europee per incassare poltrone. Ma Salvini ha temporeggiato. Probabilmente per colpa dell’ingordigia. Voleva essere sicuro di vincere con largo margine. Voleva continuare a sfruttare il Viminale per fare campagna elettorale. E così ha fatto, dopando i sondaggi a livelli inauditi a furia di girare in auto blu e aerei di stato da un comizio all’altro e trattando il governo del paese come se fosse roba sua. Ubriaco fradicio di onnipotenza, Salvini si è deciso a sferrare la pugnalata nella schiena di Conte sotto il solleone. Improvvisa. Secca. Poi il finimondo. Salvini era certo che Conte si sarebbe congedato dalla porta di servizio in silenzio e con la testa bassa. Ed invece Conte ha reagito con veemenza costringendo Salvini a risponderne in aula. Una figuraccia immonda davanti al mondo intero. Lui che veniva considerato anche all’estero il cavallo di razza del populismo nero al punto da convincere addirittura i russi a puntarci sopra rubli. Lui che sembrava lanciato in un galoppo inarrestabile verso la vetta, si è ritrovato con la coda tra le gambe come un brocco qualunque. Comunque vada a finire la crisi, Salvini ne esce male. Altro che purosangue invincibile, il solito vecchio politicante spregiudicato e sleale con in testa solo consensi e poltrone. Il solito vecchio politicante che al di là delle panzane che va a raccontare in giro, pensa solo al proprio tornaconto e a comandare per imporre le proprie idee retrograde e liberticide. Altro che balle populiste, altro che fare l’interesse del popolo, altro che ‘uno di noi”. Il solito cialtrone all’italiana che per troppa smania di gloria, si è ribaltato da solo. Ed oggi, da ipocrita che è, dà la colpa agli altri. Ad aver tradito è lui. Tradito Conte, tradito il Movimento, tradito il contratto, tradito il cambiamento che diceva di volere, tradito i cittadini che contavano su una svolta, tradito le riforme in itinere. Spergiuro. È da pochi giorni che il ronzino meneghino nitrisce in disparte e già si respira aria più fresca. Era dal 4 marzo che Salvini era diventato una persistente ed ossessiva flatulenza nazionale. Un interminabile rutto sullo scibile. E affinché non torni ad echeggiare più nauseabondo di prima, se il nascituro vedrà la luce, dovrà avere in serbo dei buoni colpi. Provvedimenti che fiacchino l’avanzata del populismo nero e che abbiano una portata tale da far passare la sbornia salviniana alle italiche genti. Salvini si è ribaltato da solo, ma nella vita non ha fatto altro e non sa far altro che campagna elettorale. Il suo rutto non si placherà mai.

https://infosannio.wordpress.com/2019/08/27/il-ribaltato/?fbclid=IwAR2fFa0fGel0sBSUQLNTq0goQgMneDVzpjwA_bUUh0cnrw-81apnJFkWWWc

Il meschino veto su Conte. - Tommaso Merlo



Zingaretti non vuole Conte. Davvero sfacciato. Erano decenni che non compariva sulla scena politica italiana un alieno come Conte. Una persona stimata in Italia e all’estero che ha raggiunto un consenso da capogiro. Un vero presidente perché capace di rappresentare sensibilità diverse con umiltà e competenza. Eppure Zingaretti lo vuole far fuori. Il perché è ovvio. Zingaretti non vuole ombra, non vuole un presidente del consiglio che ridurrebbe lui ed i suoi amichetti del Pd a misere comparse. Zingaretti vuole la strada spianata per ritrovare brandelli di sole. Vuole un governo di “svolta” ma nel senso di un governo che si metta a sfasciare il più possibile quanto fatto dai gialloverdi. Un governo che costringa il Movimento a rimangiarsi i suoi stessi provvedimenti perdendo così altri pezzi per strada. Un’operazione che può riuscire solo senza Conte tra i piedi. L’avvocato del popolo è troppo amato e soprattutto è una persona troppo preparata e seria per cancellare leggi che portano la sua firma solo da qualche mese. L’avvocato del popolo è difficile da prendere per i fondelli e soprattutto è impossibile da ricattare. Per Zingaretti è molto meglio qualche anonimo parruccone. Qualche manipolabile trombone. Altro che “cose da fare”, altro che sacrificio per il bene del paese. Nomi e poltrone e veti sul migliore presidente del consiglio degli ultimi decenni. A conferma di come Zingaretti voglia il voto subito e ancora ci speri. Ha urgenza di ripulire il Pd dai renziani prima che finisca male e si aggiunga all’infinita lista di segretari impallinati da fuoco amico. Questa trattativa Zingaretti l’ha dovuta subire controvoglia e quindi alza la posta impuntandosi addirittura sul nome di Giuseppe Conte. Roba che dovrebbe sciacquarsi la bocca prima di nominarlo. Il Pd come premier e ministri vari ha sfornato solo frotte di megalomani e ciarlatani. Orde di dinosauri riciclati fino allo sfibramento. E adesso Zingaretti fa lo schizzinoso con quell’arroganza tipica che è stata la rovina del mondo ex comunista. Vedremo se Zingaretti si rimangerà tutto di nuovo. Del resto a comandare davvero è Renzi che invece è disposto anche a vendere l’anima al diavolo pur di evitare le urne e tornare a contare qualcosa. Ma la trattativa è partita molto male. Il meschino veto di Zingaretti su Conte conferma le lacerazioni interne al Pd che lo rendono un partito del tutto inaffidabile per farci un governo assieme. E dimostrano la malafede di Zingaretti. Pretendere che Conte si faccia da parte vuole dire avere intenzioni distruttive e non costruttive. Vuol dire fregarsene dell’opinione dei cittadini che hanno apprezzato la persona e l’operato del premier. Vuol dire avere un’agenda nascosta che è quella di colpire i dannati nemici a cinque stelle. La solita vecchia politica che si riempie la bocca di parolone altosonanti, ma poi si riduce ad una mera questione di teste e di poltrone al servizio di miseri interessi personali e di clan.

https://infosannio.wordpress.com/2019/08/24/il-meschino-veto-su-conte/?fbclid=IwAR3u2MqB5Yk0Oj23ODh_3CAO6NnhLxhPbNcKm3aUofT_3iBpNnLhreqU6C0

lunedì 26 agosto 2019

Zingaretti insiste, Di Maio alza il tiro. Oggi il giro di boa. - Luca De Carolis

Zingaretti insiste, Di Maio alza il tiro. Oggi il giro di boa

I due leader di mondi diversi in fondo l’accordo non lo vorrebbero, potendo si sarebbero presi il voto anticipato (Nicola Zingaretti) o magari addirittura la Lega (Luigi Di Maio). Forse però non possono più tornare indietro. “Il treno è andato troppo avanti per fermarsi, lentamente arriverà dove deve arrivare” riassume un veterano del Pd. In sintesi, il segretario dem e il capo politico dei Cinque Stelle questo governo devono davvero cercare di farlo. Magari partendo proprio da Giuseppe Conte, su cui il veto di Zingaretti rimane, ma di domenica sera pare più fragile, perché tante voci di dentro del Pd e parecchie voci da fuori ripetono senza fermarsi che non bisogna formalizzarsi, meglio inghiottire il premier dimissionario a Palazzo Chigi e passare all’incasso sui ministeri, a partire dal Viminale.
VERTICE AL NAZARENO.
In giornata la linea dei democratici su Conte. Poi la palla torna ai grillini
Però è ancora maledettamente difficile questa guerra fredda, perché il Movimento forza i toni e le parole: troppo, per i pontieri delle rispettive parti. Quasi urla il Di Maio che non vuole sentire ragioni, anche perché altri nomi non ne ha. “La soluzione è Conte, e solo lui” tambureggia per tutta la domenica il Movimento. E lo stesso capo politico ripete il concetto a Zingaretti in una telefonata mattutina, l’unico contatto tra i due vertici.
Ma per il segretario del Pd, vecchia scuola comunista, non si può recedere da quella “richiesta di discontinuità” che predica da giorni, cioè dal veto su Conte. Per questo nel pomeriggio appare in maniche di camicia al Nazareno, la sede del Pd dove i dem tengono tavoli un po’ surreali sui temi, e tiene il punto: “L’Italia non capirebbe un rimpastone, noi pensiamo che in un governo di svolta la discontinuità deve esser garantita anche da un cambio di persone”. Però, aggiunge il segretario, “noi faremo di tutto per trovare una soluzione positiva, che si troverà in un confronto reciproco, senza ultimatum”. Ce l’ha con il Movimento che ripete Conte o morte, che gioca sempre di aut aut. Ma in controluce fa capire che serve tempo. Poi magari si potrà fare. Dall’altra parte dovrebbero cogliere il messaggio, ragionano i dem. Invece un nanosecondo dopo il M5S già spara: “L’Italia non può aspettare il Pd, è assurdo”. Una gamba tesa che non ci voleva, a leggere la reazioni. E che rende tutto più difficile, nella domenica in cui i renziani tornano a spingere pubblicamente per il sì a Conte. Tanto che Dario Franceschini, quello che parla pochissimo perché conta davvero, chiede pubblicamente a tutti i dem di fare i bravi: “Fino alla fine della crisi parli solo il segretario Zingaretti”. È più di un suggerimento, dal big che il veto a Conte lo sta corrodendo da giorni, con consigli, segnali, suggerimenti. E il segretario ovviamente ha preso nota. Sa che per l’accordo, e per il presidente del Consiglio che fu gialloverde, si sono mossi in parecchi. Ambasciate, per esempio, e l’eterno potere, la Chiesa. “Conte ha entrature in Vaticano che forse nessuno del Pd ha” sussurra un altro dem. Però Zingaretti e i suoi non vogliono prove di forza dal Movimento. Si irrigidiscono, e anche per questo si trincerano dietro la linea ufficiale: “Non cediamo sul premier, anche se ci stanno offrendo di tutto”. Dal fronte M5S negano: “Figurarsi, al limite potremmo nominare un commissario europeo condiviso”.
E si irritano per un’agenzia che narra di Di Maio che a Zingaretti avrebbe offerto “quasi” un monocolore Pd in cambio del sì a Conte. “Non si fanno scambi o giochini” giurano. Però sanno bene che ai democratici bisognerà dare ministeri di peso, come quello dell’Interno, a cui pure il capo politico puntava per sè. “Ma Luigi può prendere anche gli Esteri” ragiona un maggiorente del Movimento. Certo, dal M5S assicurano che, per carità, “non abbiamo mai parlato di ministri”. Ma i segnali dicono che i 5Stelle sicuri della riconferma sono solo Di Maio e i suoi due pretoriani, Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede. Mentre sul fronte Pd si ragiona su varie opzioni. Con l’attuale capo della Polizia Franco Gabrielli che rimane un nome per il Viminale. E con l’ex governatore del Piemonte Sergio Chiamparino, in ottimi rapporti con la sindaca 5Stelle di Torino Chiara Appendino, che è dato tra i papabili.
Ma siamo già troppo oltre, perché ci sono ancora mille passi da fare. “Di Maio è troppo sfuggente” si lamentano dal Pd. Cioè sfugge a un nuovo incontro, che ieri Zingaretti è tornato a chiedergli. “Fino alle consultazioni di domani dovrebbero vedersi solo le delegazioni” insistono dal M5S. Di Maio vuole continuare a giocarsela a distanza, puntando sul pressing delle varie anime del Pd su Zingaretti e sullo scorrere delle lancette. Ma il segretario dem risponde invocando tavoli anche “con la sinistra”, ossia con Leu (e Federico Fornaro risponde: “Il governo di svolta è possibile”). Oggi però si dovranno trovare se non tutte molte delle risposte. Tradotto, potrebbe essere un lunedì decisivo.
Con il Pd che si riunirà per un vertice che dovrebbe chiarire la linea, cioè dare la risposta definitiva su Conte. E dopo sono previste le 48 ore delle consultazioni. Ma in mezzo ci sono tante botole possibili. Per esempio, il Pd potrebbe rilanciare chiedendo Di Maio fuori dall’esecutivo in cambio del sì a Conte. “Impossibile” dicono i 5Stelle. Ma non è detto. Come non è affatto dato capire cosa farà Di Maio in caso di no al premier. La bomba che potrebbe fare saltare davvero tutto.

domenica 25 agosto 2019

Scippo al Sud. - Primo Di Nicola



Decine di miliardi destinati al Mezzogiorno usati per altri scopi. Dai trasporti sul lago di Garda ai debiti del Campidoglio. E persino per coprire il deficit causato dall'addio all'Ici.

Un tesoro da oltre 50 miliardi di euro disponibile solo negli ultimi due anni. Che poteva servire per terminare eterne incompiute come l'autostrada Salerno-Reggio Calabria e che invece è andato a finanziare i trasporti del lago di Garda e i disavanzi delle Ferrovie dello Stato. Una montagna di denaro che avrebbe dovuto rilanciare l'economia del Sud e che è stata utilizzata per risanare gli sperperi e i buchi di bilancio dei comuni di Roma e Catania e per la copertura finanziaria dell'abolizione dell'Ici.

Un fiume di denaro destinato a colmare i ritardi delle zone sottoutilizzate del Paese e che è stato impiegato invece dal governo per pagare le multe delle quote latte degli allevatori settentrionali cari ai leghisti e la privatizzazione della compagnia di navigazione Tirrenia. Sono alcuni brandelli di una storia incredibile, il grande scippo consumato ai danni delle regioni meridionali. La storia delle scorribande sul Fas, il Fondo per le aree sottoutilizzate, manomesso e spremuto negli ultimi anni dal governo Berlusconi per finanziare misure economiche e opere pubbliche che niente hanno a che fare con i suoi obiettivi istituzionali. Un andazzo che, nonostante qualche isolata protesta, è andato sinora avanti indisturbato. Fino alla soglia della provocazione. Come per gli sconti di benzina e gasolio concessi agli automobilisti di Valle d'Aosta, Piemonte, Lombardia e Trentino Alto Adige, denunciati dal deputato Pd Ludovico Vico.

La Corte dei conti ha provato a stoppare lo sperpero lamentandosi apertamente per l'utilizzo dei soldi del Fas che hanno finito per assumere"l'impropria funzione di fondi di riserva diventando uno dei principali strumenti di copertura degli oneri finanziari" connessi alla politica corrente del governo. Ma con scarsi risultati: qualche riga sui giornali, poi il silenzio. Anche Vasco Errani, presidente della Conferenza delle Regioni, ha chiesto al governo di "smetterla di utilizzare i Fas come un Bancomat". Così come Dario Franceschini al tempo in cui era segretario del Pd: "Ogni volta che è stato necessario finanziare qualcosa, dall'emergenza terremoto alle multe per le quote latte", ha affermato, "si è fatto ricorso al Fas togliendogli risorse". Quante per l'esattezza? Cifre precise non ce ne sono. Interpellata, persino la presidenza del Consiglio getta la spugna dichiarandosi incapace di fornire un rendiconto dettagliato delle spese fatte con i fondi Fas. Secondo una stima de 'L'espresso' però i soldi impropriamente sottratti al Sud solo negli ultimi due anni sono circa 37 miliardi. Una cifra ragguardevole confermata dal senatore democratico Giovanni Legnini: "Siamo di fronte ad una dissipazione vergognosa che certifica come il Pdl stia tradendo il Sud". Giudizio condiviso persino da Giovanni Pistorio, senatore siciliano dell'Mpa, il Movimento politico per le autonomie, parte organica della maggioranza di centrodestra: "Gli impegni verso il Mezzogiorno erano al quinto punto del programma elettorale del Pdl, il governo li ha completamente disattesi". 

Quante promesse.
E già, chi non ricorda le sparate a favore del Meridione con le quali il Cavaliere giurava che stava "lavorando con tutti i ministri per mettere a punto un piano innovativo per il Sud, la cui modernizzazione e il cui sviluppo ci stanno da sempre a cuore"? O quelle del sottosegretario Gianfranco Micciché che, sebbene da quasi dieci anni come viceministro o sottosegretario gestisca i fondi per il Meridione, più volte ha minacciato la fondazione di un partito del Sud se Berlusconi non avesse "sbloccato i fondi Fas e reso i parlamentari meridionali protagonisti della elaborazione delle strategie"? Parole al vento. 

La storia del Fas e dei suoi maneggiamenti comincia nel 2003 con il secondo governo Berlusconi quando tutte le risorse destinate alle aree sottoutilizzate vengono concentrate e messe sotto il cappello del ministero per lo Sviluppo economico. Il compito di ripartire le risorse viene invece affidato al Cipe con il vincolo di destinarne l'85 per cento al Sud e il 15 al Centro e al Nord. Intenti lodevoli, ma si parte subito con il piede sbagliato. Nel solco della peggiore tradizione della Cassa per il Mezzogiorno, i fondi finiscono per essere in gran parte utilizzati per quella politica delle mance tanto cara ai ras locali di tutti i partiti e alle loro fameliche clientele. Il 2003 è un anno destinato a rimanere negli annali degli sperperi. A colpi di milioni di euro si realizzano fondamentali infrastrutture come il museo del cervo a Castelnuovo Volturno e quello dei Misteri a Campobasso; il visitor center a Scapoli; si valorizza la palazzina Liberty di Venafro; si implementa il sito Web della Regione Molise; si restaurano conventi, chiese e cappelle a decine come a Montelongo, Castropignano e Gambatesa; si acquistano teatri come a Guglionesi; si consolida il santuario di Montenero di Bisacce. Per carità, si fanno pure le reti fognarie nei paesi e strade interpoderali sempre utili alle popolazioni; si recuperano siti turistici e pure aree naturalistiche, ma a fare epoca sono sicuramente il fiume di regalie come quelle legate al recupero e la valorizzazione della collezione Brunetti e agli studi sulle valenze naturalistiche dell'aerea di Oratino, al museo ornitologico di Montorio dei Frentani, per non parlare della realizzazione dell'enoteca regionale del Molise.

Progetti inutili.
Insomma, una insaziabile vocazione a spendere. Che continua a prosciugare il Fas anche negli anni successivi, pure quando a Palazzo Chigi torna Prodi. Tra il 2006 e 2007, accanto a tanti impeccabili interventi per il Sud, come il finanziamento ai programmi per l'autoimprenditorialità e autoimpiego gestiti da Sviluppo Italia (90 milioni) o agli interventi per il risanamento delle zone di Sarno e Priolo, appaiono una miriade di contributi a progetti che con il Sud hanno poco a che vedere: 180 milioni vanno per esempio al progetto 'Valle del Po'; 268 al ministero dell'Università per i distretti tecnologici; 119 al ministero per le Riforme per l'attuazione di programmi nazionali in materia di società dell'informazione; altri 36 milioni al ministero dell'Ambiente per finanziare tra l'altro il 'Progetto cartografico'. E non è finita: un milione finisce al ministero per le Politiche giovanili e le attività sportive per vaghe attività di assistenza; un altro milione al Consorzio nazionale per la valorizzazione delle risorse e dei prodotti forestali con sede in Frontone nella meridionalissima provincia di Pesaro e Urbino; 4 milioni al completamento dei lavori di ristrutturazione di Villa Raffo a Palermo, sede per le attività di alta formazione europea; 2 milioni alla regione Campania per la realizzazione del museo archeologico nel complesso della Reggia di Quisisana; 20 milioni al Cnipa per l'iniziativa telematica 'competenza in cambio di esperienza: i giovani sanno navigare, gli anziani sanno dove andare'; quasi 4 al ministero degli Esteri per il sostegno delle 'relazioni dei territori regionali con la Cina'. 

Sarebbe già abbastanza per gridare allo scandalo. Ma non è finita: da conteggiare ci sono pure i trasferimenti di risorse Fas ai vari ministeri e che si sono tradotti tra l'altro in uscite di 25 milioni a favore della presidenza del Consiglio per coprire le spese della rilevazione informatizzata delle elezioni 2006; 12 per finanziare le attività di ricerca e formazione degli Istituti di studi storici e filosofici di Napoli; 5 milioni al comando dei carabinieri per la tutela ambientale Regione siciliana per interventi di bonifica; 52 per coprire i crediti di imposta di chi utilizza agevolazioni per investimenti in campagne pubblicitarie locali; 106 milioni per l'acquisto di un sistema di telecomunicazione in standard Tetra per le forze di polizia. E vai a capire perché.

Cavaliere all'attacco.

Insomma, un autentico pozzo senza fondo al quale si attinge per le esigenze più disparate rendendo vane le richieste di un disegno organico per il rilancio dell'economia meridionale. Sarà anche per questo che tra il 2007 e il 2008 arriva una mezza rivoluzione per il Fas. L'intento sembra quello di fare ordine e voltare pagina, in concreto si gettano le premesse per l'ultimo grande scippo. Cominciamo dai soldi. Il governo Prodi riprogramma le risorse per il Meridione e con la Finanziaria 2007 stanzia a carico del Fas 64 miliardi 379 milioni, un autentico tesoro. Con tanti soldi a disposizione e l'esperienza negativa dei decenni di intervento straordinario a favore del Mezzogiorno, sembra l'inizio di una nuova era: il Sud deve solo pensare a spendere con raziocinio. Invece all'inizio del 2008 esce di scena Prodi e rientra in gioco Berlusconi. Che, per coprire le spese dei pochi interventi di politica economica che riesce a varare, ricomincia a saccheggiare proprio il Fas, una delle poche voci di bilancio davvero carica di soldi. Non è un caso perciò se a fine 2008 il Fondo si vede sottrarre altri 12 miliardi 963 milioni per finanziare una serie di provvedimenti tra cui quelli che foraggiano le aziende viticole siciliane carissime al sottosegretario Micciché (150 milioni); l'acquisto di velivoli antincendio (altri 150); la viabilità di Sicilia e Calabria (1 miliardo) e la proroga della rottamazione dei frigoriferi (935 milioni); l'emergenza rifiuti in Campania (450); i disavanzi dei comuni di Roma (500) e Catania (140); la copertura degli oneri del servizio sanitario (1 miliardo 309 milioni); le agevolazioni per i terremotati di Umbria e Marche (55 milioni) e perfino la copertura degli oneri per l'assunzione dei ricercatori universitari (63).

Tagli dolorosi-
E siamo solo all'assaggio. Un altro taglio da un miliardo e mezzo arriva per una serie di spese tra cui quelle per il G8 in Sardegna (100 milioni) marchiato dagli scandali; per l'alluvione in Piemonte e Valle d'Aosta (50 milioni); la copertura degli oneri del decreto anticrisi 2008 e gli accantonamenti della legge finanziaria; gli interventi per la banda larga e per il finanziamento dell'abolizione dell'Ici (50 milioni). 

Il secondo elemento della 'rivoluzione' del 2008 è costituito dalla trovata di Berlusconi e Tremonti di riprogrammare e concentrare le risorse del Fas (ridotto nel frattempo a 52 miliardi 400 milioni) su obiettivi considerati "prioritari per il rilancio dell'economia nazionale". Come? Anzitutto, attraverso la suddivisione dei soldi tra amministrazioni centrali (25 miliardi 409 milioni) e Regioni (27 miliardi). Poi con la costituzione di tre fondi settoriali: uno per l'occupazione e la formazione; un altro a sostegno dell'economia reale istituito presso la presidenza del Consiglio; un terzo denominato Infrastrutture e che dovrebbe curare il potenziamento della rete infrastrutturale a livello nazionale, comprese le reti di telecomunicazioni e energetiche, la messa in sicurezza delle scuole, le infrastrutture museali, archeologiche e carcerarie. Denominazioni pompose ma che in realtà nascondono un unico disegno: dare il via al saccheggio finale. 

Al Fondo per l'occupazione e la formazione vengono per esempio assegnati 4 miliardi che trovano i primi impieghi per finanziare la cassa integrazione e i programmi di formazione per i lavoratori destinatari di ammortizzatori sociali. Quanto al fondo per il sostegno all'economia reale finanziato con 9 miliardi va a coprire le uscite per il termovalorizzatore di Acerra (355 milioni); gli altri sperperi per il G8 alla Maddalena (50), mentre 80 milioni se ne vanno ancora per la rete Tetra delle forze di polizia in Sardegna; un miliardo per il finanziamento del fondo di garanzia per le piccole e medie imprese; 400 milioni per incrementare il fondo 'conti dormienti' destinato all'indennizzo dei risparmiatori vittime delle frodi finanziarie; circa 4 miliardi per il terremoto in Abruzzo; 150 milioni per gli interventi dell'Istituto di sviluppo agroalimentare amministrato dal leghista Nicola Cecconato; 50 milioni per gli interventi nelle zone franche urbane; 100 per interventi di risanamento ambientale; 220 di contributo alla fondazione siciliana Rimed per la ricerca biotecnologica e biomedica.

Senza fondo.

Ma la vera sagra della dissipazione si consuma all'interno del fondo Infrastrutture (12 miliardi 356 milioni di dotazione iniziale) dove il Sud vede poco o niente. Le sue dotazioni se ne vanno per mille rivoli a coprire i più svariati provvedimenti governativi: 900 milioni per l'adeguamento dei prezzi del materiale da costruzione (cemento e ferro) necessario per riequilibrare i rapporti contrattuali tra stazioni appaltanti e imprese esecutrici dopo i pesanti aumenti dei costi; 390 per la privatizzazione della società Tirrenia; 960 per finanziare gli investimenti del gruppo Ferrovie dello Stato; un altro miliardo 440 milioni per i contratti di servizio di Trenitalia; 15 milioni per gli interventi in favore delle fiere di Bari, Verona, Foggia, Padova. 
Ancora: 330 milioni vanno a garantire la media-lunga percorrenza di Trenitalia; 200 l'edilizia carceraria (penitenziari in Emilia Romagna, Veneto e Liguria) e per mettere in sicurezza quella scolastica; 12 milioni al trasporto nei laghi Maggiore, Garda e Como. Pesano poi sul fondo Infrastrutture l'alta velocità Milano-Verona e Milano-Genova; la metro di Bologna; il tunnel del Frejus e la Pedemontana Lecco-Bergamo. E poi le opere dell'Expo 2015 che comprendono il prolungamento di due linee della metropolitana milanese per 451 milioni; i 58 milioni della linea C di quella di Roma; i 50 per la laguna di Venezia; l'adeguamento degli edifici dei carabinieri di Parma (5); quello dei sistemi metropolitani di Parma, Brescia, Bologna e Torino (110); la metrotranvia di Bologna (54 milioni); 408 milioni per la ricostruzione all'Aquila; un miliardo 300 milioni a favore della società Stretto di Messina. E non per le spese di costruzione della grande opera più discussa degli ultimi 20 anni, ma solo per consentire alla società di cominciare a funzionare.


http://m.espresso.repubblica.it/palazzo/2010/05/10/news/scippo-al-sud-1.21161?fbclid=IwAR1go6guvOzUrGraTjAoe3W0Pkvvp8GPNUQZBr5_j7khb16gfqrAiI8XIRY

Giuseppe Conte, perché il nome del premier blocca la trattativa: la trincea M5s e le resistenze del Pd (Zingaretti e Gentiloni in testa). - Martina Castigliani

Giuseppe Conte, perché il nome del premier blocca la trattativa: la trincea M5s e le resistenze del Pd (Zingaretti e Gentiloni in testa)

Il dialogo tra 5 stelle e Partito democratico si è incagliato sulla figura che dovrebbe guidare l'esecutivo giallorosso. Per i 5 stelle il presidente del Consiglio uscente è e rimane l'opzione più seria e quella capace di far partire un progetto di legislatura. Il segretario dem però non è convinto e, anche andando contro i suoi, insiste per cercare un nome terzo. Anche per questo ha buttato nel flusso di queste ore l'ipotesi Fico. Ma sa che corre il rischio di spaccare definitivamente il fronte avversario e far naufragare l'accordo.
“Giuseppe Conte non si tocca”. “Tutto ma non Giuseppe Conte”. Si è bloccata qui la trattativa tra Movimento 5 stelle e Pd, nel punto dove sarebbe stato più facile che si bloccasse: il nome del presidente del Consiglio di un futuro governo giallorosso. E’ il vicolo cieco che i pontieri hanno cercato di evitare il più a lungo possibile, ma nel quale i partiti, consapevolmente o meno, si sono infilati dopo poche ore. “Così non si va da nessuna parte”, commentano a mezza voce nei corridoi. La figura di chi dovrà guidare la futura squadra, se mai vedrà la luce, è il cappello di un progetto che entrambe le parti devono riuscire a far digerire ai propri elettori. Non è solo un garante, è il volto politico che dà legittimità al grande cambio di schieramento e nessuno è disposto a fare un passo indietro. Nessuno, soprattutto, è in condizione per farlo a cuor leggero. I 5 stelle stanno in trincea e da lì non si muovono: l’avvocato lo hanno voluto loro e, grazie alla spinta pubblica di Beppe Grillo, è anche l’unico che per ora mette tutti d’accordo (eletti e base di attivisti). Il Partito democratico è ancora più in difficoltà: i parlamentari, non solo i renziani, rifuggono le urne e sono pronti ad accettare Conte, ma il segretario Nicola Zingaretti (con il sostegno del fronte Gentiloni) insiste nel mettere il veto. Anche a costo di far saltare il tavolo. Le fonti M5s dicono che ora Luigi Di Maio si prende tempo per aspettare che i dem elaborino l’ultimatum su Conte e qualsiasi altra alternativa sarebbe difficile da digerire; le fonti Pd prima replicano dicendo che sono i 5 stelle a dover pensare ad un altro nome. Poi buttano sul tavolo la carta: Roberto Fico, presidente M5s della Camera. Sembra la via per uscire dal vicolo cieco, ma il rischio è che sia la strategia perfetta per farli schiantare: non solo è un “ni” per il Pd, ma divide pure i grillini (e men che meno piace a Di Maio). Insomma, per non sbagliare, non si muove nessuno. E intanto il tempo scorre. Sergio Mattarella martedì farà partire il secondo e, molto probabilmente, ultimo giro di consultazioni e i partiti dovranno farsi trovare pronti con un nome. L’irritazione del capo dello Stato di fronte alla sfilata di esponenti politici incapaci di trovare un’intesa è stata chiara al termine del primo round e nessuno riuscirà a strappare una terza occasione.
La carta Roberto Fico – L’idea è cominciata a circolare nel tardo pomeriggio di ieri e porta la firma degli zingarettiani. “Se proponiamo il loro presidente della Camera, come possono rifiutare”, è il ragionamento. “Pensano sempre che siamo un partito come gli altri”, è il commento che arriva dai vertici M5s. “E che questa sia una trattativa da vecchia Repubblica”. Non lo è, soprattutto perché le mosse per ora restano caotiche e poco organizzate. “Fico buttato così nel mucchio”, fanno sapere i grillini, “è un altro modo per bruciare i ponti”. Cosa non convince il fronte M5s? Intanto la resistenza di Di Maio. E’ stato lui il primo a far sapere, al momento dell’avvio delle trattative, che su Fico leader non avrebbero dato il via libera. Era tre giorni fa, che a livello politico equivale a dire un’epoca fa. Ma difficile che il capo politico abbia cambiato idea così in fretta, soprattutto perché in tanti, tra i 5 stelle, ritengono che non sia il nome che può convincere la base all’accordo. Sarebbe la scelta naturale (profilo, stima istituzionale e capacità di dialogo con il Pd), ma Zingaretti sa bene che è invece la strada che può spaccare il mondo grillino definitivamente.
La trincea M5s – Per i 5 stelle in questi momenti di confusione c’è una sola bussola da seguire: la parola di Beppe Grillo. Il fondatore che si era fatto da parte e taceva da mesi ormai, è tornato in campo e non solo ha chiesto un accordo con il Partito democratico, ma ha scritto un post per sostenere l’ex premier. Un endorsement arrivato nel momento più critico, mentre da una parte Luigi Di Maio rialzava la posta e Alessandro Di Battista chiedeva di tenersi pronti al ritorno alle urne. Secondo alcuni una strategia coordinata per mettere pressione al Partito democratico, secondo altri, semplicemente, i tentativi scomposti di tenere aperte più strade possibili. La vera preoccupazione è come spiegare ai propri attivisti la necessità di sedere al tavolo con il Pd, poche settimane dopo aver loro fatto accettare il decreto Sicurezza bis. E soprattutto dopo anni che i democratici (Matteo Renzi in primis) sono additati come nemici pubblici. L’eventuale accordo infatti, dovrà per forza passare dalla piattaforma Rousseau per avere il via libera degli iscritti del Movimento. Ecco, proprio quel passaggio, se non dovesse avere la faccia di Conte sopra, rischia di essere più difficoltoso del previsto. C’è poi da fare i conti con le ambizioni interne dei vari esponenti: Di Maio sa che il Pd potrebbe chiedere la sua testa, senza dimenticare che lui stesso è già al secondo mandato e non è detto possa avere una deroga se si tornasse al voto; Di Battista punta alle urne dall’inizio della crisi o almeno spera di tornare ad avere un ruolo istituzionale per poter avere più peso sulla linea del Movimento; il gruppo parlamentare vuole evitare le urne a tutti i costi per il rischio di non essere più candidato. Nell’ombra, cercando di proteggere il suo ruolo super partes da presidente della Camera, si muove appunto Fico: non parla ma coltiva i contatti con i democratici. E Zingaretti, proprio come si aspettavano in tanti, ha scelto proprio lui per buttare altri nomi nel fuoco delle trattative. “Si rassegni chi vuole andare alle urne”, ha detto uno dei suoi protetti, il deputato Giuseppe Brescia, “Di Maio ha ricevuto mandato pieno dall’assemblea, lasciamolo lavorare in silenzio”.
La guerra interna del Pd- Di quello che avviene dentro il Pd in queste ore, ci sono almeno due versioni. La prima, quella che in teoria dovrebbe essere considerata ufficiale, viene dallo staff di Nicola ZingarettiIl segretario venerdì sera ha avuto un confronto “cordiale” con il leader Di Maio. I colloqui tra i capigruppo sul programma sono stati “costruttivi” e non sono emersi “ostacoli insormontabili”. Ma, c’è un “ma” molto grosso e si chiama, appunto, Giuseppe Conte. Gli zingarettiani assicurano che il segretario non vuole far passare il nome del premier uscente perché non sarebbe accettabile per i suoi: rappresenta il passato e il governo gialloverde. Su questo, dicono le stesse fonti, ci sarebbe anche l’intesa con Renzi. Addirittura, la terza via, ovvero l’idea di proporre Fico, avrebbe già il via libera di tutte le correnti democratiche. La seconda storia invece, la raccontano i renziani e l’ala sinistra (quella che guarda ad Andrea Orlando e agli ex Ds). Conte va bene a tutto il gruppo parlamentare Pd, che per la maggior parte è pronto ad accettare l’intesa. Insomma, non pensano che sia il grande statista, ma non vedono alternativa che, in così pochi giorni, possa mettere d’accordo tutti e soprattutto sembra la soluzione migliore in chiave anti Salvini. Tesi confermata dallo stesso Renzi sabato sera, dopo le parole di Conte che ha escluso un suo ritorno con la Lega. Il discorso in Senato, affrontato facendo leva sulla Costituzione, ha dimostrato che per il momento l’avvocato può essere lo scudo all’avanzata della destra. Lo dicono i renziani, ma non solo, lo dicono in tanti, anche tra ex ministri dei governi Renzi e Gentiloni e intellettuali di riferimento dell’ala sinistra. E sempre loro, raccontano diverse fonti qualificate a ilfattoquotidiano.it, si chiedono come mai Zingaretti insista sul veto a Conte, senza che nel mandato votato all’unanimità dalla direzione Pd, si fosse mai fatto esplicito riferimento al nome del premier. Insomma, nessuno ha dato il via libera al segretario a mettersi di traverso esplicitamente su questo punto. Anche l’idea Fico lascia tiepidi: il volto forte c’è già e le altre opzioni sembrano proposte per far naufragare le trattative (soprattutto se, come dicono, Zingaretti farà direttamente quel nome al capo dello Stato). La convinzione del leader è dall’inizio e rimane, che per il Pd sarebbe meglio andare alle urne e fare la campagna elettorale come fronte contro l’avanzata delle destre. Una posizione legittima, ma che non è condivisa, questa sicuramente no, all’unanimità. Specie da chi rischia seriamente il posto in Parlamento. Eccolo il vicolo cieco. Lo è per i 5 stelle. Ma pure per i democratici. E, se non trovano l’intesa, a Mattarella non resterà che rimandare tutti a elezioni anticipate.