Chiunque abbia avuto la sventura di cadere nelle grinfie dei diabolici algoritmi di targetizzazione pubblicitaria, avrà notato come pochi minuti di scorrimento della propria bacheca social siano sufficienti per essere inondati da un fiume di spot finalizzati a promuovere azioni di beneficienza di vario tipo, tendenzialmente a scopo umanitario. Il trend è in sensibile e quasi fuori controllo aumento negli ultimi anni. Sempre più frequente è anche l’utilizzo di immagini di bambini – spesso sofferenti – dal forte impatto emotivo, così come la veicolazione di messaggi dai toni perentori ed emergenziali, se non addirittura imploranti.
Si prendano questi due disperati appelli aventi ad oggetto dei bambini gravemente malati:
“La mia ***** ha solo 4 anni e soffre di un tumore allo stomaco che si propaga fino alla sua testa. Le condizioni della mia primogenita, la mia adorata bambina, stanno peggiorando giorno dopo giorno e la sua unica possibilità di salvezza è quella di sottoporsi a cure dispendiose che io semplicemente non posso permettermi, non ho soldi per salvarle la vita! Il mio cuore si spezza guardando la mia piccola bambina coraggiosa tremare dopo la chemioterapia, piangere per il dolore provocatole dall’ennesimo trattamento. Non posso continuare così. La mia ***** ama la vita, ama la sua piccola sorellina e la nostra piccola famiglia. E non ci penso nemmeno ad arrendermi. Vi chiedo di non ignorare questo messaggio, lei vuole vivere!”
“Dio, il mio unico figlio sta combattendo per la sua vita e non c’è nulla che io possa fare per aiutarlo. Vi imploro con le mie mani giunte di donare e salvare mio figlio altrimenti condannato a morire. Ha solo 4 anni, soffre di una letale forma di tumore del sangue.”
O questi spot dedicati alle questioni della povertà e della malnutrizione, talvolta messe in relazione con la crisi climatica, recanti immagini di bambini sofferenti al fianco di esortazioni come “Solo tu puoi salvarli” o “Hanno bisogno del tuo aiuto, ora!”.
Qui si affronta invece il problema della carenza di strumenti medici e assistenza sanitaria, comunicando il nome dei bambini ritratti negli spot per creare maggiore empatia nel destinatario del messaggio e alludendo addirittura a cure che “solo” il potenziale benefattore potrebbe contribuire a donare.
Ci sono poi numerosissimi spot dedicati a una variegata serie di altre cause, fra cui quella per la ricerca sulle malattie rare e quella per l’accesso all’istruzione, che non differiscono tuttavia dai precedenti in quanto a esposizione dei bambini, toni e contenuti dei messaggi.
La musica non cambia sui maggiori canali televisivi, i cui costosissimi spazi pubblicitari (in Italia una campagna di dimensioni medie con passaggi da 30 secondi sulle reti Rai o Mediaset richiede un investimento intorno ai 250-300.000€) sono sempre più colonizzati dagli spot umanitari promossi dalle medesime organizzazioni, che evidentemente riservano una parte non trascurabile dei fondi raccolti all’acquisto di tali spazi.
Anche in questo caso, i bambini sono l’oggetto principale degli spot e i messaggi sono altrettanto incalzanti: si va dagli “appelli urgenti” per “migliaia di bambini che stanno morendo di polmonite” ad asserzioni come “la vita dei bambini è in grave pericolo a causa della siccità e dell’emergenza climatica”. Frasi ad effetto come “milioni di bambini oggi non hanno mangiato e andranno a letto con la pancia vuota” o come “i loro bambini non camminano, non giocano e non vivono come gli altri” sono usate con estrema disinvoltura.
Disclaimer: l’articolo non mira a esprimere giudizi di merito sul lavoro delle numerosissime organizzazioni internazionali operanti nel settore della carità, né vuole entrare nel dibattito –pur florido – sulle modalità di gestione e indirizzo delle somme raccolte. Non si esclude che nella grande maggioranza dei casi l’attività delle stesse sia mossa da intenti genuini e sia svolta in maniera regolare. E sia – in un contesto come quello attuale – utile se non addirittura indispensabile, rispondendo all’esigenza di rattoppare ove possibile le enormi falle di un sistema economico sempre più disumano e disfunzionale.
Tanto meno si vogliono in alcun modo esortare le persone a boicottare queste raccolte fondi, né più in generale a non compiere atti di beneficienza, nella profonda convinzione che ogni azione caritatevole abbia di per sé connotati del tutto nobili e commendevoli.
Tanto premesso, l’obiettivo dell’articolo è piuttosto quello di affrontare alla radice la questione e stimolare una riflessione scomoda sui profili di razionalità, equità e giustizia del modello di gestione dei rapporti sociali oggi dominante, del quale la forte espansione del settore della carità rappresenta solo un effetto dal grande valore simbolico, che dovrebbe segnalarne alcune gravi carenze strutturali. Questo per far sì che la meritoria scelta di donare sia auspicabilmente accompagnata da una maggiore comprensione del quadro di insieme e soprattutto che accanto al sentimento di compassione suscitato dalla fruizione degli spot sorga un ancor più profondo senso di indignazione per lo stato attuale delle cose, ancor meglio se canalizzato verso chi quelle cose dovrebbe avere la responsabilità di cambiarle.
Venendo subito al nocciolo della riflessione, può una civiltà auto proclamatasi progredita come quella contemporanea accettare di buon grado che la vita di una povera creatura come quella ritratta nel primo post condiviso sia appesa all’esito di una catena di Sant’Antonio sponsorizzata da un’impresa privata e veicolata attraverso un social network privato? Che la risoluzione dei problemi di malnutrizione e assenza di cure mediche nelle zone più svantaggiate del pianeta sia affidata al buon cuore di privati cittadini e alla loro disponibilità e propensione ad attingere ai propri risparmi per partecipare a collette estemporanee promosse mediaticamente? Come si può affidare al randomico senso di pietas dei potenziali donatori la sorte di bambini e intere popolazioni? Sono domande non certo originali, che verosimilmente a molti è capitato almeno una volta di porsi, ma che troppo spesso si accetta di ignorare.
Ancora, come si possono tollerare livelli sempre più oppressivi e assillanti di estetizzazione della sofferenza, delle malattie, della povertà, in una deriva quasi iconoclasta caratterizzata da una progressiva scomparsa del senso del pudore? Secondo chi promuove questo tipo di marketing comunicativo, il fine ultimo di massimizzare i fondi raccolti giustificherebbe qualsiasi mezzo utile a suscitare il più alto senso di pietà, commozione, compassione nei destinatari dei messaggi. Ma, oltre il piano estetico, quei messaggi mirano soprattutto a generare, seppur in maniera subliminale, un profondo senso di colpa, che aumenta ulteriormente la propensione all’atto di beneficienza. Questo processo di colpevolizzazione di massa è perfettamente funzionale all’affermazione del pensiero oggi dominante, che induce a fare paragoni al ribasso piuttosto che al rialzo (ricordando che c’è sempre qualcuno che sta peggio), a considerare i diritti fondamentali un privilegio calato dall’alto per cui essere grati e riverenti, contribuendo in tal modo a inibire ogni moto di indignazione per le condizioni di degrado che vengono così brutalmente spettacolarizzate.
Gli spot umanitari sono fredda registrazione del fatto, scevra da ogni giudizio di legittimità o giustizia: come da ossessivo mantra contemporaneo, povertà e carenza di risorse sono elevati al rango di totem, esistono in natura, sono un tratto ineludibile del sistema economico, cui non si può porre rimedio in via permanente attraverso azioni collettive sul piano politico, ma che va affrontato all’insegna della contingenza, caso per caso, con il decisivo apporto dei più “fortunati”, i quali hanno l’implicito obbligo morale di mettersi una mano sulla coscienza e supportare quel singolo bambino o quella singola regione o quella singola causa, lasciando che (forse, se capita, ove esista l’interesse dell’organizzazione umanitaria di turno) altri si occupino delle altre.
Ma i destinatari degli spot non sono solo coloro che si trovano all’apice della piramide sociale. Gli spot sono rivolti indistintamente a tutti, quindi il “fortunato” chiamato a donare è di fatto chiunque abbia il “privilegio” – nientepopodimeno – di non fare la fame come i bambini esibiti negli spot. Ora, esattamente con quale faccia, in tempi caratterizzati da un progressivo impoverimento di fasce sempre più ampie di popolazione anche nei paesi sviluppati e da un trend di polarizzazione nella distribuzione della ricchezza senza precedenti, si ha l’audacia di chiedere a persone che vivono sulla soglia di sussistenza, con una capacità di risparmio ridotta al minimo, di risolvere problemi sistemici la cui competenza spetterebbe al piano politico? Spesso quelle persone, smosse da un nobile altruismo unito ai sensi di colpa e pietas sapientemente innescati dagli spot, accettano di prestarsi al gioco e donare quelle che vengono definite piccole somme ma che per loro significano magari rinunciare a una serata al teatro o al cinema o al ristorante con la famiglia. Il problema è che molte di quelle persone lo fanno essendo completamente ignare dei distorti meccanismi di funzionamento dei sistemi monetari e finanziari internazionali; delle facoltà di intervento che governi e banche centrali avrebbero; dell’esistenza di decine di trilioni di dollari che giacciono inoperosi nelle borse mondiali, destinati a un mero gioco speculativo fra i detentori della ricchezza con impatto quasi nullo sull’economia reale; delle numerose voci scettiche sulla reale efficacia del sistema della cosiddetta carità internazionale e sull’effettivo contributo fornito alla risoluzione delle criticità nelle zone di intervento.
E’ questo da sempre l’effetto collaterale dei movimenti per la beneficienza: pur a fronte di innegabili meriti e buoni intenti, essi concorrono involontariamente a smorzare ogni riflessione sulla iniqua bestialità di un sistema sociale dove non sia assicurata senza se e senza ma alla bambina ritratta nel primo post condiviso la possibilità di curarsi, dove non sia inconcepibile l’esistenza di trattamenti sanitari “troppo dispendiosi”, dove la presenza di condizioni di cronica povertà sia tollerata.
L’idea che garantire condizioni di vita e di cura dignitose sia un obbligo di cui ci si debba far carico strutturalmente come comunità umana e come singole comunità nazionali attraverso l’azione degli Stati democratici resta dunque sempre più sfocata, sullo sfondo di un’epoca che al contrario sta rapidamente approdando alla istituzionalizzazione della filantropia, in una distopica transizione dalle socialdemocrazie novecentesche a quella che con un terribile neologismo si potrebbe definire “filantrocrazia”: da una parte, infatti, si chiede alla diffusa platea delle vittime del menzionato processo di polarizzazione della ricchezza di raschiare il fondo dei suoi sempre più esigui risparmi, dall’altra si assurgono i membri del ristretto circolo dei vincitori del processo al ruolo di salvatori dell’umanità. Lungi dall’essere identificati come parte integrante del problema o come illegittimi detentori di risorse che – ove distribuite più equamente – contribuirebbero a estendere il benessere collettivo e porre rimedio alle numerose derive di degrado, i nuovi ultramiliardari (billionaires) vengono oggi ammirati, se non addirittura venerati. Essi sono posti al centro della riproduzione sociale, gli viene affidato un ruolo quasi istituzionale, ma rigorosamente facoltativo: non c’è alcun obbligo a loro carico – anzi si moltiplicano le opportunità di sottrarre le loro oscene accumulazioni di ricchezza a ogni intervento redistributivo sul piano fiscale – ma c’è una grazia volontaria “postuma” (intesa come successiva all’accumulazione semi indisturbata) concessa dall’alto, per il tramite delle loro fondazioni, spesso collegate alle stesse organizzazioni internazionali protagoniste nel settore della carità. Guarda caso, più o meno tutti i suddetti billionaires scelgono di concedere all’umanità la loro grazia (sembra quasi che ci sia un’automatica folgorazione filantropica intorno al raggiungimento del primo miliardo di patrimonio), consci del sommo status sociale oggi riconosciuto alla figura del miliardario benefattore, ma soprattutto consapevoli dell’importanza di dare l’impressione di restituire qualcosa alla collettività (anche perché quello che di fatto restituiscono nell’ambito del loro impegno filantropico è comunque una porzione infinitesimale rispetto a quanto accumulato e a quanto una maggiore equità distributiva imporrebbe), nel malcelato tentativo di inibire o ritardare una generale presa di coscienza sul fatto che “una società che ha bisogno di filantropi e benefattori è una società in cui regnano la diseguaglianza e l’ingiustizia”.
Provocatoriamente, ma non troppo, si potrebbe affermare che quella fin qui descritta è una condizione di barbarie ineguagliata nella storia dell’umanità: in epoche premoderne, la bambina del primo post condiviso avrebbe avuto scarse possibilità di salvezza semplicemente perché non esistevano cure adeguate. Nessuno si sarebbe verosimilmente sognato di mettere ostacoli di tipo economico alla sua cura, ove essa fosse esistita. Al presunto apice della civiltà e del progresso, invece, le cure esistono ma l’intera società accetta senza batter ciglio che la bambina vi acceda solo se per combinazione la colletta per “trovare i soldi” va a buon fine, se il filantropo di turno si appassiona alla causa. Oppure accetta che la ricerca su molte malattie rare, non avendo i crismi per essere condotta in maniera profittevole (“per la ricerca trovare una cura non è vantaggioso economicamente”; “le malattie genetiche rare prese singolarmente non sono statisticamente rilevanti”, per cui esse sono “trascurate dai grandi investimenti pubblici e industriali” e “orfane di ricerca e farmaci”), sia interdetta, rallentata, resa dipendente dai contributi filantropici.
L’orizzonte di immaginazione è ormai atrofizzato: neanche sul piano teorico viene concessa la possibilità di concepire una società dove esistano alcuni diritti e servizi che siano scevri da ogni connotato economico, come peraltro già sancito formalmente da tutte le Costituzioni più evolute, una società in cui a tali diritti e servizi non sia nemmeno associato un prezzo o un qualsiasi valore monetario. Tutto ciò è utopico, hanno insegnato a credere. Probabilmente lo è, ma almeno si comprenda che si tratta di utopia non in sé ma nel contesto dell’odierno squilibrio dei rapporti sociali. Si comprenda che le risorse umane, scientifiche, tecnologiche per garantire diffusamente benessere e condizioni di vita dignitose esisterebbero e che tali obiettivi sarebbero pertanto raggiungibili ove si decidesse di organizzare in maniera più equa e razionale le modalità di allocazione e distribuzione di quelle risorse. In altre parole, la scarsità di risorse così come viene declinata e sfoggiata in quest’epoca, a giustificazione dell’impossibilità di porre rimedio all’enorme mole di ingiustizie sociali che proliferano nel mondo, è in realtà un elemento artificiale, frutto di precise e arbitrarie scelte politiche, compiute in aperto contrasto con i valori universali posti a fondamento della convivenza civile fra uomini e in forza della prevaricazione che alcuni gruppi sociali possono oggi esercitare su altri.
Già riconoscere la brutale e scomoda verità che la bambina del primo spot condiviso, non dovesse malauguratamente riuscire a guarire a causa della mancanza di soldi per pagare le cure, morirebbe non per un tragico caso ma per una precisa scelta politica, sarebbe un primo passo verso l’individuazione dei tratti di profondo regresso che caratterizzano una società in cui tale scelta politica viene consentita, una società in cui si passa da uno spot social su una bambina in fin di vita a quello di un orologio o di un detersivo come se niente fosse. Vale la pena domandarsi: è tutto ciò davvero compatibile con la civiltà e il progresso fieramente ostentati urbi et orbi o si è di fronte a un’inedita frontiera di imbarbarimento? Oppure ancora, che razza di contorto e irrazionale sistema sociale è quello in cui la risoluzione delle situazioni di maggiore ingiustizia e iniquità viene affidata a disorganiche iniziative di soggetti privati, i quali peraltro, nell’intento di massimizzare i fondi raccolti a supporto di tali iniziative, sono costretti a impiegare a loro volta ingenti somme di denaro (nell’ordine dei milioni) per affittare spazi pubblicitari super dispendiosi da altri soggetti privati, somme che per forza di cose vanno a erodere la parte dei fondi devoluti con sacrificio dai donatori che giunge effettivamente a destinazione?
Si badi bene, non si vuole in alcun modo banalizzare una questione di estrema complessità: è chiaro che non esistono soluzioni magiche facilmente alla portata. Da una parte, è sicuramente doveroso portare il dibattito su una dimensione strettamente politica, invocando il ripristino e la diffusione di modelli di Stato sociale in grado di imporre strutturalmente e in via permanente il rispetto dei diritti fondamentali, di favorire una distribuzione della ricchezza infinitamente più equa di quella che si registra oggi, di rimettere al centro della storia gli Stati sovrani nazionali ridimensionando il ruolo di tutte le proliferanti entità privatistiche sovranazionali; è poi altrettanto importante valutare modalità di intervento nelle zone più in difficoltà alternative rispetto a quelle messe in atto finora sulla base dei protocolli della carità internazionale, la cui efficacia è quanto meno dubbia visto che – come già evidenziato – in molti casi il risultato che ne consegue può essere quello di aumentare la dipendenza dagli aiuti, cronicizzando i problemi piuttosto che risolvendoli. Dall’altra, bisogna tuttavia riconoscere con onestà che molte delle questioni irrisolte riguardano alcuni specifici contesti di epocale, atavica e molteplice criticità, come quella che caratterizza il continente africano. E che l’incapacità di individuare soluzioni organiche e di lungo periodo al riguardo è spesso attribuibile – oltre che a gravi carenze politiche e di sistema – a dinamiche esogene, come ad esempio quella demografica e quella climatica, che complicano ulteriormente la situazione. In un simile scenario – giova ribadirlo dopo averlo già fatto in apertura di articolo – sarebbe pertanto ingeneroso affibbiare alle organizzazioni attive nel settore della carità, pur con tutte le profonde perplessità espresse in merito al modello di intervento da esse promosso e incarnato, responsabilità che esse non hanno o non riconoscerne alcuni indubbi successi ottenuti o, più in generale, sottacerne i meriti in termini di gestione contingente dell’enorme mole di emergenze umanitarie esistenti.
Quello che si sottopone a critica feroce in relazione a tali entità, oltre alle già dibattute dimensioni estetica e subliminale delle loro modalità comunicative, è piuttosto la veicolazione da parte delle stesse di messaggi come questo:
Spot del genere sanno di odiosa presa in giro se non di infimo inganno: quanto è ipocrita e fuorviante, infatti, associare la sacrosanta lotta “per realizzare quell’idea di sanità gratuita, universale e di eccellenza” citata nel post (così come ogni altra lotta per una “società più giusta”) a un sistema di donazioni volontarie di privati cittadini? Come si può pensare di combattere tali lotte sull’onda della filantropia, a forza di improvvisati atti di carità?
Non è di certo donando all’infinito che i problemi si risolvono, anzi il sempre crescente clamore intorno alla beneficienza – unito alla presentazione della stessa come la soluzione ai mali del mondo invece che come un palliativo buono al più a mettere toppe minuscole a falle gigantesche – ha il solo effetto di contribuire ulteriormente alla narcotizzazione della coscienza collettiva, rimandando in maniera indefinita il momento della lotta vera, quella da condurre sull’unico piano dove ha senso condurla: il piano politico.
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