mercoledì 6 luglio 2011

E la Lega chiamò il Colle: non ne sapevamo nulla. Pronti ad aprire la crisi. Fiorenza Sarzanini.


La rabbia di Maroni: «È una vicenda che ci imbarazza»

Maroni
Maroni
ROMA - Nella bozza di decreto consegnata al termine del Consiglio dei ministri e inviata all'ufficio legislativo del Viminale, l'articolo 37 non c'era. Ma soprattutto non c'era alcun altro articolo che contenesse la norma ormai ribattezzata «salva Fininvest», come hanno potuto verificare gli esperti giuridici incaricati da Roberto Maroni di controllare il testo. La stessa cosa si può dire per il dicastero delle Riforme guidato da Umberto Bossi e per quello alla Semplificazione di Roberto Calderoli. Ed è proprio quando arriva la conferma dei «tecnici» su questa «mancanza» che l'ira dei leghisti esplode. Perché la scelta di Palazzo Chigi di inviare al Quirinale un provvedimento diverso da quello concordato durante la riunione dell'esecutivo di giovedì scorso viene vissuta come uno schiaffo, l'ennesimo, agli alleati. E dunque è bastato un rapido giro di consultazione telefonica tra i leader del Carroccio per decidere la linea: o la norma viene ritirata o si va a casa.


La decisione presa dai leghisti ieri di primo mattino è quella di fare quadrato contro l'iniziativa del premier, soprattutto tenendo conto che nessuno di loro era stato neanche preavvisato dell'intenzione di Silvio Berlusconi di inserire nella manovra economica quel codicillo che lo può mettere al riparo - almeno fino al giudizio della Corte di cassazione - dal pagamento del risarcimento danni alla Cir dell'ingegner Carlo De Benedetti. Si discute di tattica, ma anche di strategia. E si stabilisce di procedere senza prendere alcuna posizione pubblica, dunque evitando dichiarazioni.
Maroni vola a Zagabria per un bilaterale su traffico di droga, immigrazione e terrorismo, ma rimane costantemente in contatto con i colleghi di partito e in particolare con Bossi. Il «capo» dispone le mosse, ma preferisce restare in retrovia. È Calderoli a incaricarsi di tenere aperta la linea con il Colle per manifestare la contrarietà forte del Carroccio. Le indiscrezioni parlano di un suo colloquio con il capo dello Stato Giorgio Napolitano subito dopo il funerale solenne del militare italiano ucciso in Afghanistan per confermargli come la Lega sia stata tenuta all'oscuro fino alla fine. Una conversazione nella quale il presidente della Repubblica sarebbe stato informato della volontà di appoggiare la sua eventuale scelta di non firmare la norma, ma soprattutto della determinazione ad arrivare anche a una crisi di governo qualora Berlusconi avesse deciso di non fare marcia indietro.
«È una vicenda che ci imbarazza - si sfoga Maroni con i suoi - perché è l'ennesima volta che ci troviamo di fronte a una legge che i cittadini non possono comprendere, ma soprattutto che noi non possiamo in alcun modo far passare». Parla di imbarazzo, ma si capisce che il suo stato d'animo è ben diverso. Perché gli impegni presi a Pontida con la «base» del Carroccio sono chiari e non si può rischiare di perdere ulteriore consenso. Ma anche perché i leghisti si sentono letteralmente «truffati», visto che nessun cenno a questo provvedimento è mai stato fatto durante le riunioni degli ultimi giorni, comprese quelle ufficiali.

Non a caso nelle telefonate del mattino, oltre a decidere la linea dura, si concorda sulla necessità di conoscere l'identità di chi abbia materialmente provveduto a scrivere il testo e soprattutto chi fosse stato informato. «Tremonti - insiste Maroni - deve per forza averlo saputo visto che è toccato a lui trasmettere il decreto al Quirinale. Come può aver dato il via libera? Non ha compreso quali conseguenze poteva avere? E Berlusconi, come poteva pensare di farla franca?». La scelta del ministro dell'Economia di annullare all'ultimo momento la conferenza stampa per la presentazione della manovra fa ben comprendere il suo disappunto e questo ammorbidisce i leghisti nei suoi confronti. Ma ancora ieri sera appariva chiaro come la decisione del premier di annunciare il ritiro della norma, spiegata in una telefonata a Maroni, non sarà sufficiente a placare gli animi e a spegnere le tensioni che questo tentativo di colpo di mano dello stesso Berlusconi ha provocato nel governo e nella maggioranza.


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