Nel pomeriggio di martedì 20 agosto dello scorso anno, al Senato, seduto accanto a Giuseppe Conte che ripudiava solennemente l’alleanza con lui e annunciava le dimissioni del suo primo governo, Matteo Salvini non riusciva a trattenere una serie di smorfie facciali. Stava rendendosi conto di avere commesso un errore politico fatale, di quelli che prima o poi si pagano caro.
Più o meno alla stessa ora il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, accompagnato da due medici, volava in elicottero a ispezionare la nave Open Arms che aveva raccolto in acque libiche 163 naufraghi, di cui 32 minori. Ne restavano a bordo 83, lasciati ventuno giorni in mare, gli ultimi sette a poche centinaia di metri dal porto. Alcuni si erano buttati in mare, altri avevano compiuto gesti di autolesionismo, per tutti la situazione era divenuta insostenibile. Il magistrato dispose l’immediato sbarco dei migranti e il sequestro della nave. Prese il via un’indagine per rifiuto o omissione di atti d’ufficio.
Salvini, dopo la trionfale vittoria alle elezioni europee del maggio precedente, si sentiva ormai predestinato a diventare il capo dell’Italia. Atteggiandosi a difensore dei confini della patria, minacciata da quei pericolosi invasori, aveva dettato l’ordine di bloccare la Open Arms dallo stabilimento balneare in cui trascorreva le vacanze.
Dopo anni di martellante propaganda era convinto, non del tutto a torto, di aver convinto l’Italia intera che la causa principale dei suoi mali fosse l’immigrazione. Lo avevano assecondato gli alleati del M5S e, di fronte a quell’esibizione di “cattiveria necessaria”, i politici del centrosinistra arretravano intimiditi. Si giunse ad additare come criminali i volontari del soccorso in mare e dell’accoglienza.
Non ho mai pensato che questa pagina vergognosa della nostra storia potesse trovare rimedio per via giudiziaria. C’è per fortuna un’Italia migliore che ha vissuto con disagio l’acquiescenza dei più. Salvini, trascinato all’opposizione dal suo stesso delirio di onnipotenza, fallirà la spallata al nuovo governo. Nel frattempo, purtroppo, anche la doppia tragedia dell’epidemia e della recessione si è incaricata di sovvertire la gerarchia delle paure. Nessuno se la beve più la favola che il pericolo per la povera gente venga dal mare. Ben altre sono le priorità.
Non potendo più cavalcare la xenofobia come principale leitmotiv della sua politica, Salvini ha cercato di puntare su altre autorappresentazioni: il patriottismo, il tradizionalismo cattolico. Ma indossando le vesti del nazionalista uomo di fede egli appare talmente inautentico, dilettantesco, da sfiorare ogni volta la carnevalata.
Dall’interno della Lega, primo fra tutti il fondatore Umberto Bossi, gli rimproverano di avere rinnegato la causa dell’autonomismo nordista e di avere fallito nel contempo l’espansione al Sud. La penisola torna a soffrire pericolose lacerazioni geografiche. Ormai, più leghista di Salvini appare non solo il Doge del Veneto, Luca Zaia, ma perfino il viceré borbonico di Campania, Vincenzo De Luca.
A lui non resta che rifugiarsi nel buon tempo andato. Cerca conforto nella sua fama di ministro-sceriffo. Dimenticando di aver chiesto di essere processato insieme a tutto il popolo italiano in uno stadio di calcio, ora esulta se i giochi politici fanno riemergere una tentazione filoleghista mai del tutto sopita tra i parlamentari M5S (ricordate Lannutti, quello che voleva affondare le navi delle Ong?) e incassa l’appoggio dell’altro Matteo.
Neanche la parziale vittoria ottenuta ieri alla Giunta per le immunità del Senato, in attesa del voto d’aula, sembra però in grado di riportare sotto i riflettori i suoi metodi di lotta contro l’immigrazione irregolare. Dovrebbe essere la magistratura a verificare se tali metodi brutali, come a me sembra evidente, abbiano oltrepassato i limiti delle sue prerogative, e quale fattispecie di reato ciò comporti. Lui, come sempre, cerca di atteggiarsi a metà eroe e a metà vittima. Ma il tempo è galantuomo. Non sarà la caccia allo straniero a restituirgli la centralità perduta.
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