Dopo le perquisizioni in casa di Lorenzo Cesa per associazione per delinquere aggravata dal metodo mafioso, la senatrice Udc Paola Binetti dice di sentirsi “come una persona ferita che vuole stare accanto al suo segretario”. La vicinanza umana e spirituale con chi è in difficoltà non può essere criticata. In genere in politica, a meno che non ti chiami Berlusconi, Dell’Utri o Verdini, appena traballi tutti scompaiono. Ma Paola Binetti non è di quella pasta. Ex parlamentare di centrosinistra, poi eletta a Palazzo Madama con Forza Italia e ora forse in procinto di sostenere il governo Conte, la pasionaria cattolica è anzi sicura dell’innocenza di Cesa (“escludo categoricamente il suo coinvolgimento”); ha fiducia, come si dice sempre in questi casi, nella magistratura, anche se, da politica navigata qual è, sa bene come “Lorenzo in qualità di segretario sia esposto a incontrare gente di ogni tipo”.
Anche noi come Binetti siamo garantisti. Cesa come ogni altro indagato o imputato è innocente sino a prova contraria. E il fatto che non sia stato arrestato, a differenza del potente assessore regionale calabrese Francesco Talarico, amico del segretario, fa anzi capire come, secondo i magistrati, contro di lui, per il momento, vi siano solo indizi.
La vicenda però dovrebbe spingere politici, giornalisti e opinionisti a una franca riflessione sulle nostre classi dirigenti. Una riflessione non più rimandabile visto che, se il governo riuscirà a reggere, il nostro Paese sarà presto inondato da centinaia di miliardi targati Ue.
Cesa, infatti, come molti sanno, ma in tanti fanno finta di non sapere, non è un normale leader di partito. È invece un tangentista miracolato dal codice di procedura penale. È un tizio salvato da quella giustizia malata, forte con i deboli e debole con i forti, che proprio l’Europa ci chiede da anni di riformare. Breve promemoria per i finti smemorati. Arrestato nel 1993 quando ancora era un semplice consigliere comunale di Roma, Cesa in carcere confessa. Ammette di essere uno dei tramiti tra i vertici della Dc e gli imprenditori che versano tangenti per gli appalti Anas. Il suo primo verbale sembra quello di Pietro Gambadilegno. “Intendo svuotare il sacco” esordisce prima di svelare decine di mazzette. Il suo referente era il ministro Giovanni Prandini, all’epoca soprannominato “Prendini”. Gli imprenditori si rivolgevano a Cesa e lui andava dal ministro. Un esempio tra tanti: “Gli chiesi cosa dovevo riferire e mi sentii rispondere che dovevo chiedere il 5 per cento sull’importo dell’appalto”. Il futuro segretario Udc racconta con dovizia di particolari di “borse di plastica”, “cartellette rigide”, “buste sigillate” tutte contenenti denaro. Risultato: Cesa, dopo la “sua ampia confessione”, viene condannato in primo grado a 3 anni e 3 mesi. Nel 2003, però, la Corte di Appello annulla le condanne per un cavillo procedurale: nel frattempo è uscita una sentenza della Corte costituzionale che ha di fatto stabilito come il Tribunale dei ministri fosse competente non solo per Prandini, ma anche per i coimputati. Il processo deve ricominciare, ma per il giudice gli atti compiuti sono ormai “inutilizzabili”. Nel 2005 il Gip ordina il “non luogo a procedere”. Così, sebbene abbia ammesso tutto, viene più volte candidato e spesso eletto.
E qui arriviamo alla riflessione. Anzi alla domanda: davvero si può pensare che spenderemo bene i soldi del Recovery fund se chi rappresenta i cittadini non è in grado di selezionare i suoi compagni di strada? Si attende, dalla senatrice Binetti e da tutti gli altri, una cortese risposta.
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