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venerdì 3 settembre 2021

Auto elettriche, così la Cina prepara l’invasione dell’Europa. - Alberto Annicchiarico

 

I nuovi produttori della Repubblica popolare si sono ricostruiti una reputazione in fatto di affidabilità. E ora vogliono sfidare Tesla e i colossi occidentali e coreani.

Dopo la fase di lancio della produzione e la conquista della piena autonomia sul fronte delle tecnologie e della qualità costruttiva, la Cina ci sta pensando seriamente: andare alla conquista del mercato europeo dell’auto. Il processo è stato lungo, ma i piani sono chiari: si parte dalla Norvegia e soprattutto dalla Germania. Nulla accade per caso, quando si parla del Dragone. Si pensi alle 18 case automobilistiche cinesi che si sono installate in Europa dal 2015 con dei centri R&D per studiare il mercato, le regole e le innovazioni anche sul versante dell’alimentazione dei veicoli.

Poi ci sono i 7 miliardi di euro investiti in impianti dai principali player delle batterie per auto elettriche, da Catl (proprio in Germania), la numero uno nota per fornire Tesla ma che ha accordi con quasi tutti i costruttori, a Envision Aesc in Francia (partnership con Renault per una nuova gigafactory da 2 miliardi di euro a Douai) e nel Regno Unito, dove pianifica con Nissan, alleata di Renault, un impianto da 6 GWh..

E se dopo il primo tentativo andato a vuoto tra il 2003 e il 2009 con Landwind e Brilliance, che rimediarono una pessima figura nei crash test lasciando nei consumatori europei la certezza che mai avrebbero comprato cinese, i nuovi produttori della Repubblica popolare si sono ricostruiti una reputazione in fatto di affidabilità. È il caso del più recente modello della sino-svedese Polestar 2, realizzata a Luqiao in Cina, costruita sulla piattaforma CMA, la stessa della Volvo XC40 dalla joint venture tra Volvo e Geely: ha meritato le cinque stelle nel crash test dell’ADAC (Allgemeiner Deutscher Automobil-Club), il club automobilistico tedesco che è anche il più grande del mondo. Polestar, nata con l’ambizione di essere una anti-Tesla, è presente in Germania dal 2020.

Il mercato più importante.

La nuova affidabilità fa parte del piano della leadership politica cinese per rendere il Paese uno dei principali esportatori di veicoli elettrici. È quanto emerge da un nuovo studio del think tank Merics, di Berlino, che della Cina ha fatto la sua specializzazione.

«L’Europa è il mercato più importante per gli esportatori cinesi di auto elettriche», afferma l’autore dello studio, Gregor Sebastian. Il fatto che produttori come Geely, primo costruttore privato cinese, con Polestar, ma anche Great Wall Motors, si presentino al Salone dell’auto (IIA Mobility) di Monaco di Baviera la prossima settimana, mostra chiaramente le loro ambizioni sul mercato tedesco. Del resto un’auto elettrica su due nel mondo arriva dalla Cina. Secondo i dati dell’associazione cinese dei produttori automobilistici CAAM, nella prima metà del 2021 è uscito dalle catene di montaggio un milione di modelli elettrici, il doppio rispetto al 2019. LMC Automotive stima che il numero dovrebbe salire a otto milioni all’anno entro il 2028. Finora, tuttavia, la maggior parte di queste auto è stata venduta nella stessa Cina, un mercato che offre la più ampia domanda del mondo, con 25 milioni di unità previste nel 2021.

Fino a poco tempo fa, le case automobilistiche del Dragone avevano pochi incentivi economici a spingersi nei mercati esteri poiché le vendite nazionali in aumento le hanno sostenute, triplicate in otto anni tra il 2008 e il 2016. Entro il 2025 le auto cosiddette NEV (New energy vehicles) in Cina dovrebbero essere già il 20% del venduto salendo quasi a 5 milioni.

Poi però è arrivata una spinta all’esportazione da parte delle case automobilistiche straniere che producono in Cina (dal 2015 al 2019), che ha visto GM esportare Buick negli Stati Uniti. L’effetto positivo è svanito quando l’amministrazione Trump ha imposto tariffe sulle auto prodotte in Cina. Nel complesso, le esportazioni automobilistiche cinesi sono rimaste contenute, sia in termini relativi che assoluti. Ma una combinazione di progressi tecnologici e cambiamenti strutturali nell’industria automobilistica globale - dall’elettrificazione ai servizi digitali, fino ai primi passi verso la guida autonoma - ha creato una finestra di opportunità per l’espansione globale del made in China. E la politica cinese si è convinta che sia arrivato il momento giusto per conquistare altri mercati.

Gli obiettivi di Pechino sull’export straniero.

Ma invece di creare campioni nazionali, il governo sta ora perseguendo l’obiettivo di «rafforzare catene del valore globali», si legge nello studio. A lungo termine, tuttavia, la leadership cinese probabilmente non tollererà le elevate quote di mercato dei produttori esteri sul mercato interno e nelle esportazioni, anche se per molte case - da Vw a Bmw a Daimler fino ai coreani di Kia e a Gm e prossimamente anche Ford con Changan - ormai la Cina è un hub produttivo imprescindibile. Recentemente oltre il 90% delle esportazioni di auto elettriche dalla Cina è stato effettuato da Tesla, che produce anche per il mercato mondiale nella sua gigafactory a Shanghai.

Chi vincerà? Dei 90 produttori locali di auto elettriche solo quelli che raggiungono una certa dimensione e quindi realizzano economie di scala potranno sopravvivere al consolidamento. I meglio posizionati sono BYD (l’investitore Warren Buffett ne detiene l’8%), Geely, SAIC (il più grande costruttore cinese, che ha partnership storiche con GM e Volkswagen) e le startup rampanti, quotate a Wall Street, Nio e Xpeng, già approdate da qualche mese in Norvegia.

«L’Europa - spiega Sebastian - è particolarmente promettente per i produttori cinesi. Di solito scelgono la Norvegia per entrare nel mercato, perché è lì che l’infrastruttura di ricarica è meglio sviluppata. Ma recentemente il 9% delle esportazioni cinesi di auto elettriche è andato in Germania». «La Norvegia è solo l’inizio», ha avvisato William Li, ceo di Nio, parlando con la stampa tedesca. L’azienda si sta preparando per l’ingresso in Europa «e la Germania è estremamente interessante per noi», ha affermato Li. Le prime Nio dovrebbero arrivare in Germania nel 2022. Ma anche Geely è pronta per la sua nuova Zeekr 001.

Le quattro strategie (e gli aiuti di Stato).

Lo studio Merics ha identificato quattro strategie utilizzate dai produttori cinesi per conquistare i mercati europei: esportazioni pure dalla produzione cinese, esportazioni più centro di sviluppo o design sul mercato di riferimento, produzione sul mercato di riferimento e acquisizione di un produttore locale. Nio si affida alla strategia “Export plus”. La start-up con sede a Shanghai ha aperto il suo centro di design a Monaco di Baviera nel 2015, allora ancora con il nome NextEV, e ha reclutato esperti anche da Bmw. Entro la fine del 2022, il suo sistema di ricarica e sostituzione della batteria dovrebbe essere disponibile in Norvegia. BAIC, Chery, FAW, Geely e Great Wall Motor hanno anche centri di design o innovazione in Germania. Un precedente negativo c’è: le filiale tedesca di Byton ha presentato istanza di fallimento ad aprile.

Geely ha preso piede nel mercato europeo da quando ha rilevato Volvo nel 2010. Nel 2017, il fondatore di Geely, Li Shufu, ha acquistato il 9,7% di Daimler, diventando così il maggiore azionista unico di Stoccarda. «La corsa allo shopping globale di Geely è stata sostenuta dal governo cinese», scrive l’autore dello studio. E non è l’unico caso. I governi locali, anche attraverso dei fondi, e le banche di stato sono stati generosi, negli ultimi quattro anni, anche con marchi come Nio e Xpeng, che hanno ricevuto miliardi di dollari per poter investire e accelerare il processo di crescita. Un chiaro vantaggio competitivo sulle avversarie europee.

L’esempio italiano di produzione in Europa è il colosso automobilistico cinese FAW Group, che sta creando un produttore di veicoli elettrici di lusso a Reggio Emilia, Silk-FAW. La joint venture riunisce la FAW (statale) e la società italiana di ingegneria e design Silk EV. L’obiettivo è produrre un’auto da corsa elettrica sotto il marchio Hongqi, il cui nome si traduce con “Bandiera rossa”, ispirata alla tradizione politica del Paese d’origine. La JV prevede di investire più di 1 miliardo di euro in tre anni. La produzione dovrebbe iniziare nel 2023. La stessa FAW non è riuscita ad applicare la quarta strategia, quella dell’acquisizione: Iveco è rimasta italiana dopo l’intervento del governo di Roma a metà aprile. SAIC invece potrebbe espandere le sue esportazioni di veicoli elettrici sfruttando il marchio britannico MG, acquisito nel 2007.

I possibili ostacoli.

Non mancano le ragioni, secondo lo studio, per cui i piani cinesi potrebbero trovare ostacoli sul loro cammino. Primo, la mancanza di esperienza internazionale: la maggior parte delle case automobilistiche cinesi non dispone di una rete di vendita e assistenza post-vendita all’estero. Secondo, le misure difensive dei governi europei, inclusi nuove regole e dazi (attualmente al 10%). Terzo, normative sulla gestione dei dati che potrebbero rivelarsi ostici per i produttori di veicoli elettrici cinesi. Quarto, la concorrenza dei grandi produttori europei, dato che il vantaggio del first mover sta svanendo con la rapida corsa all’elettrificazione del gruppo Volkswagen, dei produttori premium Daimler e Bmw, ma anche di Stellantis (che investirà 30 miliardi entro il 2025 nei suoi 14 marchi) e in misura forse minore di Renault, la più debole a giudicare dai dati del primo semestre.

I posti di lavoro in Europa.

La Commissione europea considera il settore automobilistico «cruciale per la prosperità dell’Europa». Tuttavia, le esportazioni automobilistiche cinesi potrebbero spostare gli equilibri e minacciare il cuore industriale dell’Europa. La produzione di veicoli a motore impiega 3,5 milioni di persone nell’Ue, che sono le più direttamente minacciate, secondo lo studio Merics. Per ora, le classifiche di vendita di veicoli elettrici in Europa sono dominate dalle case europee e da Tesla. «Tuttavia - è la conclusione - le esportazioni cinesi di veicoli elettrici spinte da sovvenzioni sono in aumento a livello globale, quindi il settore automobilistico europeo orientato all’esportazione potrebbe incontrare problemi».

Illustrazione di Andrea Marson

Il Sole 24 Ore

martedì 26 novembre 2013

Auto elettrica, l’Italia in panne: boom nel resto del mondo, da noi 5mila all’anno. - Daniele Martini

Auto elettrica, l’Italia in panne: boom nel resto del mondo, da noi 5mila all’anno


Lo Stato e la Fiat non ci credono. E nelle città mancano le colonnine per la ricarica. Così il Paese perderà l'appuntamento tecnologico con quella che viene considerata l'auto pulita del futuro. Settore nel quale il leader è Renault.

Non c’è prodotto al mondo più annunciato, atteso e meno venduto dell’auto elettrica. E’ almeno un ventennio che se ne parla con entusiasmo e speranza, salvo poi scoprire che gli acquirenti per ora latitano. Da Renault a Daimler, da Volkswagen a Ford, da Bmw a Nissan, dopo tante false partenze i grandi costruttori si stanno però convincendo che è arrivato davvero il momento buono. Perché, come dicono quasi all’unisono e in gergo, la “tecnologia è matura”.
Negli ultimi anni sono stati fatti passi da gigante grazie soprattutto all’introduzione delle batterie al litio che però sono molto costose a causa della materia prima usata, un minerale i cui giacimenti si trovano per più del 50 per cento nei laghi salati prosciugati delle Ande boliviane. Con queste nuove apparecchiature ogni auto è capace di percorrere con una carica da un minimo di 100 chilometri in media ad un massimo di 200. Che non sono pochi considerando che l’auto elettrica è pensata soprattutto per un uso cittadino e che il 60 per cento degli automobilisti europei non percorre più di 30 chilometri al giorno, mentre solo una minoranza del 10 per cento copre tragitti giornalieri di oltre 100 chilometri. Ma non sono nemmeno tantissimi se messi a confronto con l’autonomia di un’auto tradizionale che arriva anche a 1.000 chilometri e passa. Secondo uno studio recente di Abi, un centro ricerche di Singapore, il numero di auto elettriche consegnate ogni anno nel mondo passerà dalle attuali 150mila, una quota praticamente trascurabile, a 2 milioni e 360mila entro il 2020, con un tasso di crescita annuo di circa il 48 per cento. Mentre il centro Roland Berger stima che l’elettrico salirà al 12 per cento del mercato nel 2025.
Nel gruppo di testa dei produttori la Fiat probabilmente non ci sarà pur avendo manifestato qualche anno fa una certa attenzione alla faccenda investendo in ricerca e tecnologia con risultati non disdicevoli a livello europeo. La cura Marchionne sta dando i suoi frutti anche a questo proposito. Come una mosca bianca tra i manager mondiali dell’automobile, l’amministratore delegato della grande casa torinese non crede né poco né punto all’auto elettrica tanto che una volta è arrivato addirittura a bollare di masochismo industriale i suoi colleghi che si incaponiscono a puntarci e a investirci.
La conseguenza è che grazie a queste tetragone convinzioni l’Italia perderà l’appuntamento tecnologico con quella che, almeno per il traffico cittadino e metropolitano, viene considerata l’auto pulita del futuro in forza soprattutto del suo quasi trascurabile effetto inquinante. Mentre gli automobilisti faranno più fatica dei colleghi di tutta Europa a inserirsi da acquirenti nell’alveo grande dell’elettrificazione automobilistica. Già da ora l’Italia non è tra i Paesi dove l’auto elettrica è più venduta. Al primo posto c’è la Norvegia, al secondo ilGiappone, poi vengono Stati Uniti e Francia. In termini assoluti il mercato più ricco è quello americano con 16mila Nissan Leaf vendute da gennaio a settembre e circa 10mila Tesla S, auto da amatori, con un prezzo che va da 72mila euro a circa 100mila. Dall’inizio dell’anno passato ad oggi in Italia sono stati venduti poco più di 5mila veicoli elettrici, commerciali e minicar compresi. Leader del mercato con oltre il 40 per cento di vetture è Renault, unica casa automobilistica europea con auto elettriche su ogni segmento della gamma, dalle cittadine alle berline.
L’arretratezza italiana è destinata a crescere. Pochi altri sistemi di trasporto richiedono al pari dell’auto elettrica una “logica di sistema”, un modo di pensare e comportarsi in cui il nostro Paese di solito non eccelle. Logica di sistema vuol dire che una serie di soggetti e di elementi devono integrarsi rendendo possibile lo sviluppo della nuova tecnologia e la sua affermazione nel mercato. Prima di tutto è necessario che le case produttrici continuino ad investire in ricerca migliorando il prodotto, consentendo alle auto di diventare più affidabili acquisendo soprattutto un’autonomia di movimento sempre maggiore.
L’altro punto senza il quale l’auto elettrica non può affermarsi è la rete di punti di ricarica. In assenza di un numero adeguato di colonnine a cui attaccare la macchina per reintegrare la funzionalità delle batterie, è assolutamente velleitario pensare ad un mercato dell’auto in grande stile. Qui entrano in ballo le aziende elettriche. L’Enel che in Italia è la più grande ed è a controllo pubblico sembra puntare con una certa convinzione sull’auto elettrica ed ha già piazzato un migliaio di punti di ricarica, sostanzialmente di due tipi: domestici e pubblici. Le stazioni domestiche sono composte da un contatore installato nel garage o nel box di casa; quelle pubbliche sono le colonnine che si cominciano a vedere nelle città, collocate in punti considerati strategici, concordati con le amministrazioni pubbliche. La cosa positiva è che al momento non vengono prese di mira dai vandali, come fossero protette da una miracolosa mano invisibile. L’Enel è in grado di seguire attraverso un centro di controllo le varie fasi di ricarica, calcolando il consumo e stabilendo l’importo che viene addebitato in bolletta.
Tutto ciò, però, non basta se poi l’acquisto dell’auto non viene accompagnato da una politica di sgravi. Al momento il grande handicap dell’elettrico è il prezzo iniziale, superiore di circa un terzo rispetto alle vetture tradizionali a causa delle batterie. Il costo di partenza, è vero, viene ammortizzato con il passare del tempo grazie a spese di manutenzione assai più contenute e soprattutto per effetto dei bassi consumi. Gli esperti stimano che mentre un automobilista in 5 anni percorrendo in media 10mila chilometri l’anno spende di carburante quasi 5mila euro con un’auto media a benzina, 2.700 con una a gpl, 2.100 con una a metano, 3mila con un diesel, con un’auto elettrica se la cava con meno di 1.000 euro.
Ma il balzello del prezzo di listino rimane. E dopo che la Fiat ha puntato sul metano come alternativa pulita a benzina e diesel, il risultato è che da noi il concetto stesso di auto ecologica resta assai vago e l’equivoco si riflette sulla politica degli incentivi. All’inizio dell’anno il governo Monti ha introdotto sgravi per l’acquisto di auto ecologiche con criteri assai farraginosi che non hanno fatto scattare la voglia di acquisto di auto elettriche. Il 20 per cento circa di sconto sul prezzo di listino viene concesso per lo più in presenza di rottamazione e anche se con massimali differenti, a tutte le vetture considerate ecologiche , da quelle a metano alle ibride, senza un vantaggio forte per le elettriche. Favorendo così, nei fatti, proprio le non elettriche, a cominciare dalle auto a metano della Fiat che avendo un costo iniziale più basso risultano di primo acchito più convenienti per i clienti. Con queste premesse è assai difficile che in Italia per le auto elettriche si passi dalle intenzioni ai fatti. Secondo una ricerca di Deloitte più del 70 per cento degli italiani comprerebbe volentieri un’auto elettrica se ci fossero le condizioni per farlo. Purtroppo i presupposti al momento restano modesti. Gli automobilisti possono mettersi il cuore in pace mentre i cittadini devono rassegnarsi a città sempre più inquinate.
Siamo in una democrazia, ma una strana democrazia nella quale non comanda il demos, ma pochi e disonesti cittadini asserviti alle lobby del potere economico.