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venerdì 17 febbraio 2017

ECCO QUANTO HA RUBATO LA FAMIGLIA AGNELLI IN 100 ANNI AGLI ITALIANI! - Marx21

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Come gli Agnelli hanno rapinato l’Italia lungo un intero secolo.

Gioanin lamiera, come scherzosamente gli operai chiamavano l’Avvocato, ha succhiato di brutto; ma prima di lui ha succhiato suo padre; e prima di suo padre, suo nonno Giovanni. 

Giovanni Agnelli Il Fondatore. Hanno succhiato dallo Stato, cioè da tutti noi. E’ una storia della Fiat a suo modo spettacolare e violenta, tipo rapina del secolo, questa che si può raccontare – alla luce dell’ultimo blitz di Marchionne – tutta e completamente proprio in chiave di scandaloso salasso di denaro pubblico. Un salasso che dura da cent’anni. Partiamo dai giorni che corrono. Per esempio da Termini Imerese, lo stabilimento ormai giunto al drammatico epilogo (fabbrica chiusa e operai sul lastrico fuori dai cancelli). 

Costruito su terreni regalati dalla Regione Sicilia, nel 1970 inizia con 350 dipendenti e 700 miliardi di investimento. Dei quali almeno il 40 per cento è denaro pubblico graziosamente trasferito al signor Agnelli, a vario titolo. La fabbrica di Termini Imerese arriva a superare i 4000 posti di lavoro, ma ancora per grazia ricevuta: non meno di 7 miliardi di euro sborsati pro Fiat dal solito Stato magnanimo nel giro degli anni. Agnelli costa caro. Calcoli che non peccano per eccesso, parlano di 220 mila miliardi di lire, insomma 100 miliardi di euro (a tutt’oggi), transitati dalle casse pubbliche alla creatura di Agnelli. 

Nel suo libro – “Licenziare i padroni?”, Feltrinelli – Massimo Mucchetti fa alcuni conti aggiornati: «Nell’ultimo decennio il sostegno pubblico alla Fiat è stato ingente. L’aiuto più cospicuo, pari a 6059 miliardi di lire, deriva dal contributo in conto capitale e in conto interessi ricevuti a titolo di incentivo per gli investimenti nel Mezzogiorno in base al contratto di programma stipulato col governo nel 1988». Nero su bianco, tutto “regolare”. Tutto alla luce del sole. «Sono gli aiuti ricevuti per gli stabilimenti di Melfi, in Basilicata, e di Pratola Serra, in Campania». A concorrere alla favolosa cifra di 100 miliardi, entrano in gioco varie voci, sotto forma di decreti, leggi, “piani di sviluppo” così chiamati. Per esempio, appunto a Melfi e in Campania, il gruppo Agnelli ha potuto godere di graziosissima nonché decennale esenzione dell’imposta sul reddito prevista ad hoc per le imprese del Meridione. E una provvidenziale legge n.488 (sempre in chiave “meridionalistica”) in soli quattro anni, 1996-2000, ha convogliato nelle casse Fiat altri 328 miliardi di lire, questa volta sotto la voce “conto capitale”. Un bel regalino, almeno 800 miliardi, è anche quello fatto da tal Prodi nel 1997 con la legge – allestita a misura di casa Agnelli, detentrice all’epoca del 40% del mercato – sulla rottamazione delle auto. 
Per non parlare dell’Alfa Romeo, fatta recapitare direttamente all’indirizzo dell’Avvocato come pacco-dono, omaggio sempre di tal Prodi. Sempre secondo i calcoli di Mucchetti, solo negli anni Novanta lo Stato ha versato al gruppo Fiat 10 mila miliardi di lire. Un costo altisssimo è poi quello che va sotto la voce”ammortizzatori sociali”, un frutto della oculata politica aziendale (il collaudato stile “privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite”): cassa integrazione, pre-pensionamenti, indennità di mobilità sia breve che lunga, incentivi di vario tipo. «Negli ultimi dieci anni le principali società italiane del gruppo Fiat hanno fatto 147,4 milioni di ore di cassa integrazione – scrive sempre Mucchetti nel libro citato – Se assumiamo un orario annuo per dipendente di 1.920 ore, l’uso della cassa integrazione equivale a un anno di lavoro di 76.770 dipendenti. E se calcoliamo in 16 milioni annui la quota dell’integrazione salariale a carico dello Stato nel periodo 1991-2000, l’onere complessivo per le casse pubbliche risulta di 1228 miliardi». 

Grazie, non è abbastanza. Infatti, «di altri 700 miliardi è il costo del prepensionamento di 6.600 dipendenti avvenuto nel 1994: e atri 300 miliardi se ne sono andati per le indennità di 5.200 lavoratori messi in mobilità nel periodo». Non sono che esempi. Ma il conto tra chi ha dato e chi ha preso si chiude sempre a favore della casa torinese. Ab initio. In un lungo studio pubblicato su “Proteo”, Vladimiro Giacché traccia un illuminante profilo della storia (rapina) Fiat, dagli esordi ad oggi, sotto l’appropriato titolo”Cent’anni di improntitudine.

Ascesa e caduta della Fiat”. Nel 1911, la appena avviata industria di Giovanni Agnelli è già balzata, con la tempestiva costruzione di Motori per navi e sopratutto di autocarri, «a lucrare buone commesse da parte dello Stato in occasione della guerra di Libia». Non senza aver introdotto, già l’anno dopo, 1912, «il primo utilizzo della catena di montaggio», sulle orme del redditizio taylorismo. E non senza aver subito imposto un contratto di lavoro fortemente peggiorativo; messo al bando gli “scioperi impulsivi”; e tentato di annullare le competenze delle Commissioni interne. «Soltanto a seguito di uno sciopero durato 93 giorni, la Fiom otterrà il diritto di rappresentanza e il riconoscimento della contrattazione collettiva» (anno 1913). Anche il gran macello umano meglio noto come Prima guerra mondiale è un fantastico affare per l’industria di Giovanni Agnelli, volenterosamente schierata sul fronte dell’interventismo. I profitti (anzi, i “sovraprofitti di guerra”, come si disse all’epoca) furono altissimi: i suoi utili di bilancio aumentarono dell’80 per cento, il suo capitale passò dai 17 milioni del 1914 ai 200 del 1919 e il numero degli operai raddoppiò, arrivando a 40 mila.
«Alla loro disciplina, ci pensavano le autorità militari, con la sospensione degli scioperi, l’invio al fronte in caso di infrazioni disciplinari e l’applicazione della legge marziale». E quando viene Mussolini, la Fiat (come gli altri gruppi industriali del resto) fa la sua parte. Nel maggio del ’22 un collaborativo Agnelli batte le Mani al “Programma economico del Partito Fascista”; nel ’23 è nominato senatore da Mussolini medesimo; nel ’24 approva il “listone” e non lesina finanziamenti agli squadristi.

Ma non certo gratis. In cambio, anzi, riceve moltissimo. «Le politiche protezionistiche costituirono uno scudo efficace contro l’importazione di auto straniere, in particolare americane». Per dire, il regime doganale, tutto pro Fiat, nel 1926 prevedeva un dazio del 62% sul valore delle automobili straniere; nel ’31 arrivò ad essere del 100%; «e infine si giunse a vietare l’importazione e l’uso in Italia di automobili di fabbricazione estera». Autarchia patriottica tutta ed esclusivamente in nome dei profitti Fiat. Nel frattempo, beninteso, si scioglievano le Commissioni interne, si diminuivano per legge i salari e in Fiat entrava il “sistema Bedaux”, cioè il “controllo cronometrico del lavoro”: ottimo per l’intensificazione dei ritmi e ia congrua riduzione dei cottimi. Mussolini, per la Fiat, fu un vero uomo della Provvidenza. E’ infatti sempre grazie alla aggressione fascista contro l’Etiopia, che la nuova guerra porta commesse e gran soldi nelle sue casse: il fatturato in un solo anno passa da 750 milioni a 1 miliardo e 400 milioni, mentre la manodopera sale a 50 mila. «Una parte dei profitti derivanti dalla guerra d’Etiopia – scrive Giacché – fu impiegata (anche per eludere il fisco) per comprare i terreni dove sarebbe stato costruito il nuovo stabilimento di Mirafiori». Quello che il Duce poi definirà «la fabbrica perfetta del regime fascista». Cospicuo aumento di fatturato e di utili anche in occasione della Seconda guerra mondiale. Nel proclamarsi del tutto a disposizione, sarà Vittorio Valletta, nella sua veste di amministratore delegato, a dare subito «le migliori assicurazioni. Ponendo una sola condizione: che le autorità garantissero la disciplina nelle fabbriche attraverso la militarizzazione dei dipendenti». 
Fiat brava gente. L’Italia esce distrutta dalla guerra, tra fame e macerie, ma la casa torinese è già al suo “posto”. Nel ’47 risulta essere praticamente l’unica destinataria dell’appena nato “Fondo per l’industria meccanica”; e l’anno dopo, il fatidico ’48, si mette in tasca ben il 26,4% dei fondi elargiti al settore meccanico e siderurgico dal famoso Piano Marshall. E poi venne la guerra fredda, e per esempio quel grosso business delle commesse Usa per la fabbricazione dei caccia da impiegare nel conflitto con la Corea. E poi vennero tutte quelle autostrade costruite per i suoi begli occhi dalla fidata Iri. E poi venne il nuovo dazio protezionistico, un ineguagliabile 45% del valore sulle vetture straniere… E poi eccetera eccetera. Mani in alto, Marchionne! 
Questa è una rapina.

http://laveritadininconaco.altervista.org/quanto-rubato-la-famiglia-agnelli-100-anni-agli-italiani/

martedì 26 novembre 2013

Auto elettrica, l’Italia in panne: boom nel resto del mondo, da noi 5mila all’anno. - Daniele Martini

Auto elettrica, l’Italia in panne: boom nel resto del mondo, da noi 5mila all’anno


Lo Stato e la Fiat non ci credono. E nelle città mancano le colonnine per la ricarica. Così il Paese perderà l'appuntamento tecnologico con quella che viene considerata l'auto pulita del futuro. Settore nel quale il leader è Renault.

Non c’è prodotto al mondo più annunciato, atteso e meno venduto dell’auto elettrica. E’ almeno un ventennio che se ne parla con entusiasmo e speranza, salvo poi scoprire che gli acquirenti per ora latitano. Da Renault a Daimler, da Volkswagen a Ford, da Bmw a Nissan, dopo tante false partenze i grandi costruttori si stanno però convincendo che è arrivato davvero il momento buono. Perché, come dicono quasi all’unisono e in gergo, la “tecnologia è matura”.
Negli ultimi anni sono stati fatti passi da gigante grazie soprattutto all’introduzione delle batterie al litio che però sono molto costose a causa della materia prima usata, un minerale i cui giacimenti si trovano per più del 50 per cento nei laghi salati prosciugati delle Ande boliviane. Con queste nuove apparecchiature ogni auto è capace di percorrere con una carica da un minimo di 100 chilometri in media ad un massimo di 200. Che non sono pochi considerando che l’auto elettrica è pensata soprattutto per un uso cittadino e che il 60 per cento degli automobilisti europei non percorre più di 30 chilometri al giorno, mentre solo una minoranza del 10 per cento copre tragitti giornalieri di oltre 100 chilometri. Ma non sono nemmeno tantissimi se messi a confronto con l’autonomia di un’auto tradizionale che arriva anche a 1.000 chilometri e passa. Secondo uno studio recente di Abi, un centro ricerche di Singapore, il numero di auto elettriche consegnate ogni anno nel mondo passerà dalle attuali 150mila, una quota praticamente trascurabile, a 2 milioni e 360mila entro il 2020, con un tasso di crescita annuo di circa il 48 per cento. Mentre il centro Roland Berger stima che l’elettrico salirà al 12 per cento del mercato nel 2025.
Nel gruppo di testa dei produttori la Fiat probabilmente non ci sarà pur avendo manifestato qualche anno fa una certa attenzione alla faccenda investendo in ricerca e tecnologia con risultati non disdicevoli a livello europeo. La cura Marchionne sta dando i suoi frutti anche a questo proposito. Come una mosca bianca tra i manager mondiali dell’automobile, l’amministratore delegato della grande casa torinese non crede né poco né punto all’auto elettrica tanto che una volta è arrivato addirittura a bollare di masochismo industriale i suoi colleghi che si incaponiscono a puntarci e a investirci.
La conseguenza è che grazie a queste tetragone convinzioni l’Italia perderà l’appuntamento tecnologico con quella che, almeno per il traffico cittadino e metropolitano, viene considerata l’auto pulita del futuro in forza soprattutto del suo quasi trascurabile effetto inquinante. Mentre gli automobilisti faranno più fatica dei colleghi di tutta Europa a inserirsi da acquirenti nell’alveo grande dell’elettrificazione automobilistica. Già da ora l’Italia non è tra i Paesi dove l’auto elettrica è più venduta. Al primo posto c’è la Norvegia, al secondo ilGiappone, poi vengono Stati Uniti e Francia. In termini assoluti il mercato più ricco è quello americano con 16mila Nissan Leaf vendute da gennaio a settembre e circa 10mila Tesla S, auto da amatori, con un prezzo che va da 72mila euro a circa 100mila. Dall’inizio dell’anno passato ad oggi in Italia sono stati venduti poco più di 5mila veicoli elettrici, commerciali e minicar compresi. Leader del mercato con oltre il 40 per cento di vetture è Renault, unica casa automobilistica europea con auto elettriche su ogni segmento della gamma, dalle cittadine alle berline.
L’arretratezza italiana è destinata a crescere. Pochi altri sistemi di trasporto richiedono al pari dell’auto elettrica una “logica di sistema”, un modo di pensare e comportarsi in cui il nostro Paese di solito non eccelle. Logica di sistema vuol dire che una serie di soggetti e di elementi devono integrarsi rendendo possibile lo sviluppo della nuova tecnologia e la sua affermazione nel mercato. Prima di tutto è necessario che le case produttrici continuino ad investire in ricerca migliorando il prodotto, consentendo alle auto di diventare più affidabili acquisendo soprattutto un’autonomia di movimento sempre maggiore.
L’altro punto senza il quale l’auto elettrica non può affermarsi è la rete di punti di ricarica. In assenza di un numero adeguato di colonnine a cui attaccare la macchina per reintegrare la funzionalità delle batterie, è assolutamente velleitario pensare ad un mercato dell’auto in grande stile. Qui entrano in ballo le aziende elettriche. L’Enel che in Italia è la più grande ed è a controllo pubblico sembra puntare con una certa convinzione sull’auto elettrica ed ha già piazzato un migliaio di punti di ricarica, sostanzialmente di due tipi: domestici e pubblici. Le stazioni domestiche sono composte da un contatore installato nel garage o nel box di casa; quelle pubbliche sono le colonnine che si cominciano a vedere nelle città, collocate in punti considerati strategici, concordati con le amministrazioni pubbliche. La cosa positiva è che al momento non vengono prese di mira dai vandali, come fossero protette da una miracolosa mano invisibile. L’Enel è in grado di seguire attraverso un centro di controllo le varie fasi di ricarica, calcolando il consumo e stabilendo l’importo che viene addebitato in bolletta.
Tutto ciò, però, non basta se poi l’acquisto dell’auto non viene accompagnato da una politica di sgravi. Al momento il grande handicap dell’elettrico è il prezzo iniziale, superiore di circa un terzo rispetto alle vetture tradizionali a causa delle batterie. Il costo di partenza, è vero, viene ammortizzato con il passare del tempo grazie a spese di manutenzione assai più contenute e soprattutto per effetto dei bassi consumi. Gli esperti stimano che mentre un automobilista in 5 anni percorrendo in media 10mila chilometri l’anno spende di carburante quasi 5mila euro con un’auto media a benzina, 2.700 con una a gpl, 2.100 con una a metano, 3mila con un diesel, con un’auto elettrica se la cava con meno di 1.000 euro.
Ma il balzello del prezzo di listino rimane. E dopo che la Fiat ha puntato sul metano come alternativa pulita a benzina e diesel, il risultato è che da noi il concetto stesso di auto ecologica resta assai vago e l’equivoco si riflette sulla politica degli incentivi. All’inizio dell’anno il governo Monti ha introdotto sgravi per l’acquisto di auto ecologiche con criteri assai farraginosi che non hanno fatto scattare la voglia di acquisto di auto elettriche. Il 20 per cento circa di sconto sul prezzo di listino viene concesso per lo più in presenza di rottamazione e anche se con massimali differenti, a tutte le vetture considerate ecologiche , da quelle a metano alle ibride, senza un vantaggio forte per le elettriche. Favorendo così, nei fatti, proprio le non elettriche, a cominciare dalle auto a metano della Fiat che avendo un costo iniziale più basso risultano di primo acchito più convenienti per i clienti. Con queste premesse è assai difficile che in Italia per le auto elettriche si passi dalle intenzioni ai fatti. Secondo una ricerca di Deloitte più del 70 per cento degli italiani comprerebbe volentieri un’auto elettrica se ci fossero le condizioni per farlo. Purtroppo i presupposti al momento restano modesti. Gli automobilisti possono mettersi il cuore in pace mentre i cittadini devono rassegnarsi a città sempre più inquinate.
Siamo in una democrazia, ma una strana democrazia nella quale non comanda il demos, ma pochi e disonesti cittadini asserviti alle lobby del potere economico.

venerdì 5 aprile 2013

Crocetta denuncia le consulenze d’oro di Serit: “10 milioni all’anno”. - Claudio Porcasi

crocetta serit e social trinacria


A sorpresa, nel primo pomeriggio di oggi, Rosario Crocetta convoca una conferenza stampa relativa a “comunicazioni importanti” su Serit Sicilia e Social Trinacria.
Il governatore, che incontra i giornalisti nella Sala degli Specchi di Palazzo d’Orléans, esordisce commentando l’approvazione della legge sulla doppia preferenza. “Non si può gridare all’inciucio dopo l’esito del voto di ieri – puntualizza Crocetta -. I grillini hanno perso un’occasione. Il modello Sicilia è questo. Vogliamo essere la prima Regione d’Italia a introdurre il voto elettronico dopo quello sulla doppia preferenza di genere per eliminare il problema del controllo dei voti di preferenza”.
Poi, si passa alla ‘difficile’ situazione di Serit.
Serit – dichiara il governatore – ha uno scoperto bancario di 160 milioni di euro con Monte dei Paschi. La Serit, da quando Montepaschi è uscita dalla società di riscossione siciliana, paga un mutuo con un rateo annuo di 20 milioni alla banca toscana. Mi ha colpito, scorrendo le carte, notare che Serit ha inoltre affidato 400 incarichi per 10 milioni all’anno a soli tre professionisti. Come se non bastasse per 15 anni è stati erogati circa 1 milione e 300mila euro di euro all’anno per consulenze legali a uno studio di Palermo. Inoltre il servizio di riscossione costa alla Serit 12 milioni all’anno. Un fiume di denaro ingiustificato”.
In merito a Social Trinacria Onlus, Crocetta non le manda certo ‘a dire’ e presenta la sua visione di una piena emergenza lavorativa che coinvolge oltre 3.000 persone: “I lavoratori di Social Trinacria – dice il presidente della Regione – sono gli auto flagellanti, che percorrono in corteo spesso le vie di Palermo. La situazione attuale è che sono pagati regolarmente. Prendono il doppio di quanto dovrebbero, dal momento che a loro spetterebbe solo un sussidio di disoccupazione. Non c’è nessuna traccia formale del legame tra Social Trinacria e la Regione. Non vi è traccia del patrocinio. Motivo per cui si potrebbe configurare il reato di millantato credito. E ancora: “La legge prevedeva un sussidio invece di fatto una Onlus pagata dalla Regione ha assunto 3500 persone senza un criterio. Non sappiamo nemmeno cosa fanno questi lavoratori della Social Trinacria. Sia chiaro che per me ci sono i poveri e basta. Non quelli che fanno comodo alla politica per far vincere le elezioni”.
Il presidente annuncia poi di aver presentato, sia per Social Trinacria che per Serit, un esposto alla Procura della Corte dei Conti e alla Procura antimafia.
In merito alla notizia, circolata ieri, di una probabile offerta di Crocetta ad Antonio Ingroia della poltrona di dirigente dell’ufficio di Presidenza della Regione siciliana a Roma, il governatore chiarisce: “Con Ingroia beviamo tanti caffè e basta”.
Crocetta, infine, a margine della conferenza stampa, rivolge invece parole rassicuranti nei confronti dei lavoratori dell’ex stabilimento Fiat di Termini Imerese e dell’indotto industriale che hanno manifestato oggi per le vie di Palermo insieme ai dipendenti della Keller di Carini e anche davanti alla presidenza della Regione. “Stiamo lavorando per trovare una soluzione sia per i lavoratori dell’ex stabilimento Fiat si per quelli della Keller – spiega il governatore. – Certo l’assenza di un governo nazionale stabile con cui confrontarsi non rende agevole il nostro lavoro”.
Intanto il presidente Crocetta sta per ricevere i lavoratori ex Pip e Social Trinacria con una delegazione sindacale. I sindacati chiedono chiarezza sulle accuse mosse dal governatore nel corso della conferenza stampa e sul futuro dei lavoratori.

lunedì 10 dicembre 2012

Fiat multata dall'Antitrust «Ingannevole spot su benzina a 1 euro».


Sergio Marchionne, ad Fiat

Il gruppo dovrà pagare una multa di 200mila euro: "Informazioni incomplete".

ROMA - L'Antitrust boccia come pubblicità ingannevole lo spot con cui l'estate scorsa Fiat ha pubblicizzato le sue vetture con un claim che prometteva il blocco del prezzo del carburante a 1 euro al litro per tre anni: l'Autorità ha comminato a Fiat Group Automobiles una multa di 200.000 euro.

Nel bollettino settimanale, l'Antitrust contesta al Lingotto di avere omesso alcune informazioni sull'offerta che è stata prospettata negli spot trasmessi nei mesi di giugno e luglio come se l'unico limite fosse quello temporale dei tre anni dall'acquisto dell'auto. Di qui la sanzione che colpisce «una pratica commerciale scorretta ai sensi degli articoli 20, 21 e 22 del Codice del Consumo». Nel bollettino dell'Antitrust si legge che «i messaggi descritti risultano in contrasto con gli articoli 21 e 22 del Codice del Consumo, in quanto, fornendo informazioni incomplete o comunque non percepibili dai destinatari sulle variabili che incidono sul prezzo del bene proposto, sono idonei a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore e a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso».

Le omissioni. «I messaggi, infatti - spiega l'Antitrust - omettono di indicare in modo chiaro che l'acquisto di una autovettura nuova Fiat, escluse quelle cosiddetti bi-fuel che non sono state inserite tra quelle a cui è applicabile la promozione, dà diritto ad ottenere una fuel card che consente agli acquirenti di acquistare presso alcuni distributori IP aderenti all'iniziativa un certo numero di litri di carburante al prezzo di 1 euro. I quantitativi di carburante acquistabili sono definiti sulla base del modello di autovettura acquistata». «Il comportamento oggetto della presente procedimento - aggiunge l'Authority - si presta, infine, ad una valutazione di scorrettezza anche ai sensi dell'articolo 20, comma 2 del Decreto Legislativo n. 206/05, per il quale una pratica commerciale è scorretta 'se è contraria alla diligenza professionale ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è direttà».

«In merito alla contrarietà alla diligenza professionale, non si riscontra - sottolinea l'Antitrust - nel caso di specie, da parte di Fiat, il normale grado di competenza ed attenzione che ragionevolmente ci si può attendere da un professionista quale la società in esame. Questi, infatti, è un importante operatore presente da lungo tempo nel settore della produzione e della vendita di autovetture, molto conosciuto dai consumatori e dal quale è legittimo attendersi una particolare attenzione alla qualità e completezza della propria attività di comunicazione pubblicitaria».


martedì 27 novembre 2012

Fiat, prima assunzione Fiom.




Azienda, siamo penalizzati in un contesto di mercato sfavorevole. Ai lavoratori Fiom posizione di privilegio ingiustificata.

POMIGLIANO D'ARCO - Ciro d'Alessio, 32 anni, è il primo operaio dei 19 metalmeccanici Fiom ad aver apposto la firma al contratto con Fip a Pomigliano d'Arco (Napoli). "Il primo pensiero va ai 2300 ancora fuori - ha detto - siamo soddisfatti, ma non contenti, perché attendiamo il rientro di tutti. Oggi comincia il passo successivo". "Adesso dentro la fabbrica - sottolinea Ciro D'Alessio - c'é anche la voce di chi è fuori". Dopo d'Alessio ha firmato anche Raffaele Manzo, il quale ha comunicato che per il 28 dicembre percepiranno anche la liquidazione dovuta per le dimissioni dal gruppo Fiat, e che il 10 dicembre, giorno della ripresa produttiva, dovranno incontrare gli addetti di Fiat service che renderà loro noto il da farsi.
ASSUNZIONI 19 FIOM INGIUSTIFICATE,CI PENALIZZANOL'assunzione a Pomigliano dei 19 iscritti della fiom è "un'ulteriore penalizzazione per un'azienda che opera in un contesto di mercato molto sfavorevole". Lo afferma Fabbrica Italia Pomigliano, sottolineando che "sono del tutto ingiustificate dal punto di vista gestionale", L'assunzione dei 19 lavoratori garantisce alla Fiom "un passaggio in Fabbrica Italia Pomigliano anticipato rispetto a tutti gli altri dipendenti" e le dà "una posizione di privilegio che non ha alcuna ragionevolezza".
FIOM, ASSUMERE TUTTI I LAVORATORI IN CIG  "Una bella giornata, siamo riusciti a far entrare i primi 19, ma ci arrenderemo solo quando tutti i lavoratori in cassa integrazione saranno assunti": lo ha affermato il segretario generale della Fiom di Napoli, Andrea Amendola, commentando l'assunzione a Pomigliano dei 19 iscritti della Fiom è "un'ulteriore penalizzazione per un'azienda che opera in un contesto di mercato molto sfavorevoleo le prime firme al contratto con la newco Fabbrica Italia Pomigliano, da parte dei 19 iscritti al sindacato di Landini, la cui assunzione è stata decretata dalla corte d'appello di Roma lo scorso ottobre. Amendola, che è fuori allo stabilimento insieme con gli altri lavoratori che attendono di entrare, ha anche sottolineato che la Fiom userà "tutti gli strumenti a propria disposizione sia sindacali che giuridici per far assumere tutti". I lavoratori che devono firmare sono stati convocati ieri dall'azienda per "comunicazioni urgenti", e prima della firma si sono messi in contatto con i legali del sindacato e con lo stesso Amendola per informarli del contenuto del contratto, che é stato sottoposto loro da Antonio Vece, responsabile legale dello stabilimento.

venerdì 19 ottobre 2012

'Da assumere 145 operai Fiom', respinto ricorso della Fiat.


Corte d'appello di Roma dà ragione a organismo sindacale sulle assunzioni a Pomigliano d'Arco.

La Corte d'appello di Roma ha dato ragione alla Fiom sulla assunzione di 145 lavoratori iscritti al sindacato dei metalmeccanici Cgil nello stabilimento della Fiat di Pomigliano D'Arco. Lo fa sapere la Fiom.

Lo scorso 21 giugno il Tribunale di Roma aveva condannato la Fiat per discriminazioni contro la Fiom a Pomigliano disponendo che 145 lavoratori con la tessera del sindacato di Maurizio Landini venissero assunti nella fabbrica. Alla data della costituzione in giudizio alla fine di maggio su 2.093 assunti da Fabbrica Italia Pomigliano nessuno risultava iscritto alla Fiom. Ad agosto la Corte d'appello aveva giudicato "inammissibile" la richiesta della Fiat di sospendere l'ordinanza di assunzione per i 145 iscritti alla Fiom riconoscendo una discriminazione ai danni del sindacato nelle riassunzioni dei dipendenti dello stabilimento Fiat di Pomigliano d'Arco.

"Una buona notizia". E' il commento della leader della Cgil, Susanna Camusso sulla decisione della Corte d 'Appello di Roma che ha dato ragione alla Fiom sull'assunzione dei 145 lavoratori di Pomigliano. Camusso conclude oggi gli Stati Generali della Cgil lombarda.

BONANNI, NO CHIUSURE ITALIA, IL 29 NUOVO INCONTRO CON MARCHIONNE
 - "Marchionne ci ha assicurato che nessuna fabbrica chiuderà in Italia. Ci incontreremo di nuovo il prossimo 29 ottobre", un incontro per esaminare "il programma che la Fiat intende portare avanti opificio per opificio". Così il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, nel corso della conferenza stampa tenuta stamani a Salerno prima dell'inizio dei lavori del consiglio generale della Cisl Campania. "Il fatto che la Fiat non chiuda in Italia - ha detto Bonanni - per noi è un fatto positivo".
Secondo Bonanni la mancata chiusura di stabilimenti Fiat in Italia è un fatto positivo "alla luce anche delle notizie che giungono da altre fabbriche costruttrici di automobili europee che chiuderanno parecchi opifici nel continente. Ritengo - ha concluso - che in questo momento bisogna lavorare molto di più sui fronti dell'innovazione e della ricerca".


Ma è naturale, lo sancisce l'art. 3 della Costituzione:

"Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese."

Marchionne andrebbe condannato per mancato rispetto della Costituzione o, quantomeno, esonerato dall'incarico di condurre un'azienda italiana che è soggetta al rispetto delle leggi italiane.
Cetta.

mercoledì 3 ottobre 2012

Stanno ritornando i fascisti. O meglio, non erano mai andati via. Come Giuseppe Fava ci aveva ben spiegato nel 1983. - Sergio Di Cori Modigliani




Ogni cultura, ogni etnia, ogni paese ha dei suoi specifici simboli, sintagmi, espressioni, che sintetizzano e determinano l’immaginario collettivo di quel popolo. Se andate a Omaha, Nebraska, e mettete su un partito con l’immagine del fascio littorio, forse trovate tre adepti e la vostra trovata elettorale non avrà alcun impatto. A loro, quel simbolo, non evoca nulla. Se le stesse persone, con identica argomentazione, una grafica uguale e gli stessi slogan, fanno la stessa cosa a Sarzana o a Reggio Emilia, inevitabilmente ci sarà una reazione distinta. E così via dicendo. Se mettete su un movimento come “occupy wall street” e basate la vostra argomentazione sul principio noto “1% contro il 99%” in un paese, come gli Usa, in cui pagare le tasse è norma consolidata e lo fanno tutti; dove le banche –per tradizione- da novant’anni finanziano imprese e idee; dove i meccanismi di corruzione vengono perseguiti con vigore, e quando qualcuno viene beccato, non esiste patteggiamento, e se gli va bene perché non finisce in galera, sparisce per sempre dalla vita politica; dove esistono forti precedenti di una gestione politica (vedi Roosevelt e Truman) che ha messo le banche e la borsa sotto severissimo controllo, accade che possa accadere ciò che sta accadendo da diverse settimane nella contea di Manhattan, dove un giudice ha messo sotto accusa il colosso finanziario J.P.Morgan il cui management finirà presto alla sbarra, dove il governo e una folta maggioranza parlamentare sta aprendo un incartamento giudiziario sulla bolla esplosa dei mutui nel 2008, ecc. Ma se mettete su lo stesso identico movimento, con le stesse parole d’ordine e con la stessa spinta volitiva, in un paese come l’Arabia Saudita, dopo un giorno finite arrestati, condannati a morte senza processo e fucilati all’alba. Se lo fate in Danimarca o in Svezia, tutta la casa reale scende in campo, e ogni giorno se ne parla in parlamento finchè il governo è costretto a intervenire con appositi dispositivi, leggi, controlli, decisioni.
In Italia, negli ultimi mesi, e soprattutto nelle ultime settimane, si è manifestata l’ennesima finzione italiota, che da surrealismo bello e buono, diventa dramma civile, sociale e collettivo, perché è praticamente impossibile denunciare che è un falso.
Perché ciò che oggi in Italia esiste è, mi ripeto, la traduzione di mode importate, riadattate e applicate nel tessuto italiano in modo rassicurante, a garanzia che nulla verrà cambiato mai, che non ci sarà nessuna modificazione.
L’Italia è un paese antico ed è vero.
Non siamo come il Qatar che è stato inventato a tavolino dalla Gran Bretagna nel 1970, o come la Giordania dove inglesi, americani, francesi e tedeschi hanno preso uno qualunque e gli hanno detto “da domani tu se il re e questo è il tuo popolo”.
Non siamo neppure come gli Usa, una gigantesca ed efficiente confederazione, vero e proprio laboratorio dinamico umano e fucina di idee e di innovazioni, il cui principale collante storico, per ovvi motivi, è sempre stato il business.
Si può discutere per ore e decenni sulla solita storiella che siamo soltanto una espressione geografica, perché gli italiani non sono stati mai fatti ma questa, è ormai un’argomentazione obsoleta e non corrisponde affatto alla realtà dei fatti sociali, psicologici, legali ed esistenziali.
Gli italiani esistono, eccome se esistono.
Siamo stati unificati, eccome se siamo stati unificati.
Siamo un tutt’uno, eccome se siamo un tutt’uno.
Ogni differenza tra un brianzolo e un catanese, un frusinate e un vicentino, sono davvero quisquilie antropologiche; si tratta delle stesse identiche differenze di lingua locale, usi tradizionali, costumi psicologici che si trovano tra una casalinga puritana di Cape Cod, sulla East Coast statunitense e una sua omologa cattolica sulla spiaggia di San Diego sulla West Coast: diversissime in tutto, se non nella loro omologazione che le rende (per noi che le vediamo dall’esterno e le riconosciamo) squisitamente americane.
L’Italiano ancora non esisteva nel 1968. E’ iniziato a esistere nel febbraio del 1970, grazie all’irruzione della televisione, della ideologia faziosa e dell’ignoranza, usate come furibonde armi di distrazione di massa. Fu la prima grande mutazione antropologica che andò a costruire la prima fase dell’omologazione come nazione, quella che Pasolini denunciò allora come una tragedia epocale (per lui lo era). Avvenne, allora, con un atto politico-economico che unificò il paese (a sua insaputa) genialmente orchestrato dai due leader che condussero l’operazione e che poi, grazie a questo successo, presero il controllo operativo dei loro due grandi partiti: Giulio Andreotti ed Enrico Berlinguer. Gli italiani ancora non esistevano, e il paese era attraversato da una autentica sollevazione sociale di stampo generazionale che correva il rischio di unificare il paese verso forme evolute davvero molto pericolose per i gestori e garanti dello status quo. E lì avvenne un episodio, anzi due, che unirono il paese, perché si verificarono uno a Torino e l’altro a Reggio Calabria, unendo quindi in un sottilissimo filo di complicità l’austera classe dirigente efficiente piemontese e quella meridionalista calabrese. C’erano, allora, due pericolosi (per il potere) focolai: a Torino la Fiat era in grave crisi. Ben ingerita e digerita la trionfante stagione del modello 500, si era trovata in un momento di riassestamento del capitalismo europeo, ma la famiglia Agnelli (come ha sempre fatto) invece di aver scelto (anni prima) di investire i loro profitti in ricerca avanzata tecnologica, innovazione, aumento della produttività, accettando l’esistenza della concorrenza di altre marche italiane, aveva optato per gettarsi nel campo della finanza speculativa trasformando la Fiat in una semplice cassaforte da usare per fare soldi con gli strumenti finanziari più evoluti allora in voga, senza praticare nessuna politica industriale. In seguito alle lotte sindacali e all’aumento della concorrenza di Renault, Citroen, Opel e Volkswagen, era finita in crisi. Per “fingere” che la propria crisi era tragica, con grandiosa abilità dirottarono nel 1968 il corrispondente di oggi di circa 50 miliardi di euro verso insospettabili “casseforti” all’estero, il tutto intestato a società di comodo. Nel pieno delle lotte sindacali si presentano allo Stato centrale e paventando la bancarotta (con i conti alla mano truccati) sostengono che dovranno licenziare circa 25.000 persone subito. Inizia una trattativa, gestita soprattutto da Riccardo Lombardi (PSI) Luciano Lama (CGIL) e Berlinguer (PCI) scelti con abilità da Amintore Fanfani come i migliori mediatori del momento. Gli unici che con Lotta Continua ci potevano parlare. Contemporaneamente, però, in Calabria erano insorti i meridionali, manifestandosi con rivolte di popolo contro lo strapotere delle banche, contro lo strozzinaggio delle banche, contro le politiche di austerità del settentrione, gestite da un leader locale che si chiamava Ciccio Franco, pilotate dal MSI al grido di “Boia chi molla”, con scontri nelle strade, incendi, devastazioni, morti. Mentre a Torino ci si scontrava contro la polizia al grido di “polizia fascista”, a Reggio Calabria ci si scontrava contro la polizia al grido di “polizia serva dei comunisti”. Risolsero il problema. Magicamente arrivò da Mosca una proposta commerciale alla Fiat per dare inizio alla prima automatizzazione di massa del popolo sovietico; vennero accettate dalla Fiat tutte le richieste sindacali, l’azienda garantì il lavoro, decise di espandersi assumendo altri 8.000 operai nel settentrione. In cambio, ottenne dal governo il corrispondente di oggi di circa 50 miliardi di euro come “prestito d’incentivazione”. E il giorno dopo il fratello di Giovanni Agnelli annunciava la propria candidatura nelle file della DC per le elezioni seguenti, in modo tale da garantire alla sua famiglia che quei soldi non sarebbero mai stati restituiti. Una settimana dopo, in un celebre discorso alla Camera dei deputati, l’allora ministro dell’economia, Emilio Colombo –che in quel momento lanciò nell’arena Giulio Andreotti- annunciava la risoluzione definitiva della questione meridionale. Minacciò i meridionali sostenendo che se non la smettevano subito avrebbe inviato l’esercito e li avrebbe fatti prendere a cannonate. In compenso, garantiva a nome del governo che al massimo entro 72 ore, sarebbe diventato esecutivo il più grande piano mai realizzato di investimenti nel meridione per lanciare il sud verso la modernità. Per far ciò –e poterlo fare in fretta- data la situazione di “grave emergenza che ci obbliga a intervenire subito e data la responsabilità che abbiamo anche come membri fondatori del mercato economico europeo, chiedo un atto di responsabilità civile agli onorevoli colleghi dell’opposizione per appoggiare con favore un decreto legge d’urgenza che consenta la risoluzione immediata del disagio delle popolazioni meridionali”. E lo ottenne. Fu la prima volta che il PCI votò compatto all’unanimità un decreto del governo democristiano. E così, mentre al settentrione la Fiat, attraverso la mediazione di CGIL e PCI rubava “letteralmente” i soldi dalle tasse degli italiani, nel meridione, in 24 ore, a nome del governo, Giulio Andreotti istituisce nella sola Calabria 1.789 enti inutili nati dal nulla che consentono di annunciare in aula, due giorni dopo, che la settimana entrante sarebbero state assunte, nella sola Calabria, 26.860 persone. Come avvenne. Finirono tutti assunti a far poco o nulla in entità fittizie il cui compito consisteva nel non produrre nulla, se non la pace sociale necessaria per garantire lo status quo.  L’unica cosa chiesta in cambio era che il management di province, enti, assessorati, ecc, fosse messo nelle amorevoli mani di burocrati democristiani. Accettarono tutti. E così il meridione, pur di mangiare, accettò di entrare nella mentalità della clientela sussidiaria parassitaria al soldo e agli ordini della Democrazia Cristiana (e in Calabria in connivenza con il PSI) mentre in Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, la grande industria entrava alla grande nel meccanismo del sussidio nazionale mediato dall’opposizione. Tutte le agitazioni di piazza scomparvero nel nulla. Per far fronte a questa situazione, la Banca d’Italia fu costretta a battere una quantità strabordante di danaro. Dieci mesi dopo, l’inflazione era salita del 320% e lentamente ci si avviava verso la grande crisi economica del 1972.
Lì nacquero gli italiani.
Uniti come popolo e nazione, al di là della loro faziosità, al di là dello schieramento ideologico, al di là delle loro differenze, al di là della loro posizione geografica, incorporarono dentro di sé la mala pianta nevropatica dell’odio/amore verso lo Stato, considerato come nemico ma allo stesso tempo amorevole mamma accudente dei propri bisogni primari.
La seconda fase, fondamentale nella nascita degli italiani è stata quella perpetrata e organizzata alla grande da Silvio Berlusconi e i suoi compari.
Ancora nel 1989, la criminalità organizzata –pur sempre mostruosamente forte- aveva come roccaforti la gestione, amministrazione ed esercizio del potere locale regionale, suddivisa in mafia siciliana, ‘ndrangheta calabrese, camorra napoletana, sacra corona unita pugliese, che trovavano soprattutto nella destra fascista e democristiana la copertura necessaria per svolgere il loro malaffare.
Con Berlusconi tutto ciò cambia e la criminalità organizzata, da meridionale, diventa nazionale. Vent’anni dopo, tutte le più importanti organizzazioni criminali meridionali mantengono nel meridione una posizione territoriale più che altro psico-politica. Come ben spiegato dal magistrato Caselli e dal procuratore Grasso, nel 2010 “il 70% delle attività finanziarie delle mafie si svolge e si realizza nelle quattro grandi regioni settentrionali”.
In questo ventennio, le mafie –come persone, come concetto, come antropologia, come modalità d’affari, come cultura- entrano nel sistema industriale, finanziario e bancario del settentrione e se ne impossessano.
L’Italia realizza finalmente la propria unità nazionale.
Il mafioso siciliano non esiste più oggi. Se non nella sua obsoleta (seppur ancora viva) manifestazione di bullismo criminale locale legato a tradizioni familiari micro-delinquenziali. L’Italia diventa mafiosa e criminale nella sua perdurante attività quotidiana. ED E’ QUESTO CIO’ CHE INCEPPA IL SISTEMA E INGESSA IL MERCATO non le banche. E’ questa mentalità che esalta e piace ai colossi finanziari internazionali che vedono in questa furiosa debolezza e fragilità etica la ghiotta occasione per espoliare la nazione appropriandosi delle nostre ricchezze. Non è certo un caso che tutti questi siti, pagine di facebook, quotidiani on-line dove ogni giorno si legge il consueto piattume demagogico contro le banche (vera e propria arma di distrazione di massa di facilissimo appeal emotivo perché manipola l’autentico disagio collettivo) neanche una volta parlano di mafie, se non per raccontarci irrilevanti notizie.
Siamo diventati unità nazionale.
L’Italia è Fiorito, per i maschi. Ed è Nicole Minetti per le femmine.
Che ci piaccia o non ci piaccia, questo è il paese: sono entrambi invidiati.
E’ soltanto attraverso una rivoluzione esistenziale interiore che si può arrivare a compiere quella necessaria mutazione del nostro dna culturale per cambiare per davvero la nostra realtà. E ciascuno sa in che cosa consiste il suo “personale e individuale modo di essere rivoluzionari oggi in Italia”, non lo sfogo contro le banche, bensì il disprezzo per i Fiorito e per le Minetti (qui assurti a simbolo rappresentativo) di un intero sistema che è, prima di ogni altra cosa in assoluto, un fatto mentale. Un fatto interiore.
Non spetta alla magistratura il compito di pulire il bianco, il rosso, il verde. L’hanno già fatto nel 1992: non è servito a nulla.
Per ogni Fiorito che va in carcere oggi, per ogni Minetti che si pavoneggia per la sua furbizia, c’è un altro Fiorito ad Alessandria, Siracusa, Ancona, Grosseto, pronto a sostituirlo.
Va cambiato la mentalità d’approccio.
Invece di sentirsi particolarmente intelligenti o puliti perché su facebook si vomitano insulti contro Berlusconi, Monti o Goldman Sachs, è bene che ciascuno cominci a interrogarsi sulla propria istintiva tendenza alla clientela, al piagnisteo che chiede sussistenza, alla querula lamentela di chi finge di voler essere imprenditore quando l’unico vero obiettivo consiste nel metter su (se va bene) un baracchino che poi verrà sovvenzionato dallo Stato in un qualche modo.
L’Italia non sta in crisi perché non può battere moneta. E’ FALSO.
Il “sistema Italia è andato in crisi perché l’Europa non consente più all’Italia di mantenere un gigantesco esercito di burocrati inutili, assunti per malleveria partitica o vaticanista, che producono soltanto rendite passive e non merci competitive”.
E la Germania, va da sé, gongola e approfitta di questa situazione. Lo fa anche la Francia, e adesso il Qatar, e i colossi finanziari all’arrembaggio.
Siamo esposti e a rischio.
Siamo esposti all’unità nazionale che, in totale consociativismo, hanno costruito per noi, sapendo che così sarebbero stati votati.
Non a caso (e l’unico a darne la notizia è Il Fatto Quotidiano, colpito proprio da un “sintagma della memoria storica”) Casa Pound e Forza Nuova annunciano sfracelli a Rimini e in Emilia Romagna mobilitando la piazza “contro il mercatismo e contro il signoraggio” e con parole d’ordine che vanno da “fermiamo le banche” a “eliminiamo le banche” ma dove, guarda caso, da ieri è ritornato a primeggiare il mai sopito “Boia chi molla”. E Il Fatto Quotidiano annuncia l’evento facendolo squillare come un campanello.
Il nemico vero è dentro di noi. Spetta a noi strapparselo dalla carne viva, anche a morsi se è necessario. Ciascuno a modo proprio.
Qui di seguito, vi ripropongo un estratto di una grande vittima innocente della nostra Bella Italia che non esiste più. E’ un brano tratto da un testo dello scrittore italiano Giuseppe Fava, assassinato dalla mafia perché divulgava  Cultura. Il libro si chiama “I siciliani” ed è stato pubblicato nel lontano 1983. L’aspetto più agghiacciante –da cui la necessità di questo post- consiste nel fatto che 29 anni dopo non ha perso neppure un grammo della sua cronachistica attualità psico-esistenziale dell’etnia italiana. Eccolo per voi.
Meditateci su, vale la pena.


Il brano è inserito in un capitolo il cui titolo è: “Paura, Vergogna, Stupidità”.
Perché questi sono, purtroppo, i veri tre colori della nostra bandiera nazionale, oggi. Fiorito docet.

Eccolo:
“Non ti lamentare perciò se […] a Napoli la camorra ha sostituito lo Stato nella pubblica amministrazione, nella distribuzione degli appalti, nella amministrazione privata della giustizia e perfino nella coscienza della gente, e in Sicilia e dovunque la mafia è padrona di ciò che ha comunque valore economico e politico, assassina chiunque sgarra o gli da soltanto fastidio, […] Non ti lagnare amico mio se tutto questo accade, non ne hai il diritto. Il primo lazzarone sei tu e la storia ti paga per quello che merita la tua maniera di concepire la politica e quindi la tua stessa dignità!
Solo che ora non hai più molto tempo. Lo vedi tu stesso quello che ci circonda e assedia: amministratori che divorano, terroristi che avanzano menando strage, l'inflazione che ogni giorno ti rende sempre più miserabile, finanzieri che portano il denaro all'estero ed ogni giorno rendono questa tua miseria più infame, logge segrete come immense piovre in tutti i vertici dello Stato, mafiosi praticamente padroni anche della tua sedia di lavoro!
La necessità di una rivolta morale è diventata una necessità per sopravvivere.
Io allora non ti dico per quale partito votare, perché penso che tu abbia avuto almeno la lucidità per fare una tua scelta ideale. Ti chiedo solo che, all'interno di questo partito al quale affidi la tua coscienza di cittadino, di scegliere uomini intelligenti, soprattutto uomini onesti.
E se hai coraggio e passione, allora stai tu dentro quel partito a lottare per la tua parte.
So quanto sia difficile, poiché manigoldi e ruffiani sono riusciti finora ad emarginare o eliminare gli intelligenti e gli onesti.
Ma bisogna tentare, disperatamente, quotidianamente lottare e sperare. Altrimenti ignoranti, ladri e imbecilli ti affonderanno definitivamente!”.
Ci hanno affondato, infatti.
Spetta a noi riemergere

sabato 22 settembre 2012

Crisi Fiat, Marchionne cambia idea sugli aiuti di Stato: “Guardate il Brasile”.


Crisi Fiat, Marchionne cambia idea sugli aiuti di Stato: “Guardate il Brasile”


Non più tardi del 6 giugno l'ad del Lingotto diceva: "Non abbiamo nessuna intenzione di chiedere impegni finanziari al governo. Il governo ha molte cose da fare in questo momento, noi stiamo facendo da soli".

“Non abbiamo nessuna intenzione di chiedere impegni finanziari al governo. Il governo ha molte cose da fare in questo momento, noi stiamo facendo da soli”, aveva detto Sergio Marchionne il 6 giugno scorso a margine  dell’incontro di Cars 21 il gruppo a cui partecipano i produttori, la Ue, i governi e le parti sociali, ribadendo la sua dichiarata avversione agli incentivi. Qualcosa, però, dev’essere cambiato.
Al punto che a una settimana dalla disdetta del piano Fabbrica Italia, con i suoi 20 miliardi di investimenti nel Paese, ma soprattutto alla vigilia dell’incontro col governo a Palazzo Chigi, il manager ha mostrato le carte e cambiato volto. “Sono felice che il ministro Passera, andando in Brasile, si sia reso conto dei grandi risultati della Fiat in quel Paese. Certamente non gli sarà sfuggito che il governo brasiliano sia particolarmente attento alle problematiche dell’industria automobilistica. Sono sicuro che il Ministro sappia che le case automobilistiche che vanno a produrre in Brasile possono accedere a finanziamenti e agevolazioni fiscali“, ha infatti dichiarato in risposta alle esternazioni del ministro dello Sviluppo economico.
“In particolare per lo stabilimento nello stato di Pernambuco, in corso di costruzione, la Fiat riceverà finanziamenti sino all’85 per cento su un investimento complessivo di 2,3 miliardi di euro. A questi si aggiungeranno benefici di natura fiscale, quando sarà avviata la produzione di automobili, per un periodo minimo di 5 anni. Per quanto riguarda la Fiat l’ultima operazione del genere in Italia si è verificata all’inizio degli anni novanta per lo stabilimento di Melfi”, ha aggiunto completando la rivendicazione e riconoscendo che “l’attuale quadro normativo europeo, simili condizioni di finanziamento non siano ottenibili nell’ambito dell’Unione Europea”. Nessun accenno, invece, all’ipotesi di richiedere al governo la cassa integrazione in deroga per gli addetti degli impianti italiani, versione degli ammortizzatori sociali a carico dello Stato o delle regioni,  in cambio del mantenimento degli attuali livelli occupazionali.
Secondo i calcoli della Cgia di Mestre, dal 1977 a oggi, la Fiat ha ricevuto l’equivalente di 7,6 miliardi di euro dallo Stato, e ne ha investiti 6,2 miliardi. Dal computo sono esclusi  ammortizzatori sociali impiegati in questo periodo né gli ultimi contratti approvati dal Cipe nel biennio 2010-2011.  In generale nel 2011, per sua stessa ammissione, la Fiat spa e Chrysler hanno ricevuto a livello globale 2,551 miliardi di euro, quasi il doppio del miliardo abbondante ottenuto l’anno prima. E’ quanto scrive il Lingotto stesso nel bilancio di sostenibilità pubblicato dall’azienda che precisa che la somma si divide in 93 milioni di contributi a fondo perduto e 1,229 miliardi di finanziamenti, 669 milioni dei quali agevolati, mentre i restanti 560 milioni sono arrivati dalla Banca Europea per gli Investimenti.
Da un punto di vista geografico, al di là delle dichiarazioni di indipendenza di Marchionne, la sua azienda dichiara che dall’Italia l’anno scorso le sono arrivati 591,832 milioni di euro, il 23,2% del totale. La Penisola, quindi, è il terzo sostenitore pubblico della Fiat, dietro alla Serbia (25,7% con 655,607 milioni) e, appunto al Brasile (30,6% con 780,606 milioni).  Al quarto posto, infine, il Messico, altro Paese dove il Lingotto è molto attivo anche grazie al sostegno pubblico pari a quasi 324 milioni di euro (12,7% del totale). Non è solo una questione di mercato che funziona o non funziona, quindi. 

mercoledì 19 settembre 2012

Il “saldo” Fiat: 7,6 miliardi di euro ricevuti dallo Stato, investiti 6,2 miliardi.


disoccupazione dati ocse


Uno studio della Cgia di Mestre fornisce le cifre su un tema di cui si torna a discutere spesso: gli aiuti pubblici ricevuti dalla casa di Torino, dal 1977 a oggi, a fronte dei benefici restituiti all'economia. Esclusi dal conto gli ammortizzatori sociali.

Dal 1977 a oggi, la Fiat ha ricevuto l’equivalente di 7,6 miliardi di euro dallo Stato, e ne ha investiti 6,2 miliardi: è la Cgia di Mestre a fornire le cifre su tema spesso dibattuto a proposito della casa torinese, cioè il “saldo” tra aiuti pubblici ricevuti e capitali impiegati nell’economia nazionale. “Una somma importante – segnala il segretario di Cgia Giuseppe Bortolussi – che comunque è stata integrata, tra il 1990 e i giorni nostri, da oltre 6,2 miliardi di investimenti realizzati dalla Fiat sui progetti per i quali ha ottenuto i 7,6 miliardi presi in considerazione. Va anche detto che gli aiuti più significativi – continua – sono avvenuti negli anni ’80, quando tutti i Governi dei Paesi occidentali sono intervenuti massicciamente per sostenere le proprie case automobilistiche”.
Tra gli aiuti elargiti alla Fiat, l’analisi della Cgia non ha tenuto conto degli ammortizzatori sociali impiegati in questo periodo né gli ultimi contratti approvati dal Cipe nel biennio 2010-2011. In assoluto, l’investimento più importante è stato quello che si è reso necessario per la costruzione degli impianti produttivi di Melfi e Pratola Serra (1990-1995) che sono costati alle casse dello Stato quasi 1,28 miliardi di euro. Per contro, la Fiat ha investito in questo nuovo sito 2 miliardi di euro. Di un certo rilievo anche le ristrutturazioni che hanno interessato la Sata di Melfi (1997-2000) e l’Iveco di Foggia (2000-2003). Se nel primo intervento lo Stato ha investito 151 milioni di euro, nel secondo sono stati spesi 121,7 milioni di euro pubblici. La Fiat, comunque, per entrambi i siti ha messo sul tavolo una cifra complessiva di poco inferiore agli 895 milioni di euro.
“Da sempre – conclude Bortolussi – la politica italiana ha guardato con grande attenzione e una certa indulgenza alla più grande industria privata italiana. Ora che soldi pubblici non ce ne sono più, ognuno deve correre con le proprie gambe e affrontare la concorrenza internazionale con i propri mezzi. Se, in una fase estremamente delicata come quella che stiamo vivendo, dovessimo perdere un marchio che ha fatto, nel bene e nel male, la storia industriale del Paese sarebbe un grave danno per tutta l’economia italiana”.
La Fiat è dello Stato, cioè nostra! Riprendiamocela, sicuramente sapremmo gestirla meglio!
Cetta.