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mercoledì 17 giugno 2020

L’asse Pd-Renzi per dare più soldi alle private. - Patrizia De Robertis

L’asse Pd-Renzi per dare più soldi alle private

Trecento milioni di euro subito per evitare che restino chiuse un terzo delle 12.564 scuole paritarie (religiose e non). Le famiglie hanno smesso di pagare le rette e si rischia che, con la crisi, a settembre non rinnovino l’iscrizione. Sarebbe in bilico il sistema scolastico di alcune Regioni, dove i servizi all’infanzia si fondano per lo più sul privato. Arrivano così, immancabili, il grido d’allarme e la conseguente richiesta di soldi da parte degli istituti privati e convenzionati che si andrebbero ad aggiungere ai circa 500 milioni di euro stanziati ogni anno, scatenando l’ennesima battaglia nella maggioranza giallorosa.
La spiegazione è nei numeri. Nel decreto Rilancio, all’esame della commissione Bilancio della Camera, sono stati già stanziati 65 milioni per le paritarie a compensazione del mancato versamento delle rette da parte delle famiglie per il servizio 0-6 anni. Poi c’è stata un’ulteriore erogazione da 70 milioni per coprire fino al liceo. In totale 135 milioni per 866.805 alunni (a fronte dei 7,5 milioni iscritti al pubblico) che però per gli istituti paritari non basterebbero “neanche a coprire la metà della retta di un mese” e a pagare gli stipendi a un settore che impiega circa 230 mila addetti tra docenti, personale tecnico e amministrativo. Laddove comunque nelle strutture che non hanno fatto didattica a distanza, i dipendenti hanno comunque percepito la cassa integrazione.
L’appello delle paritarie è stato nuovamente accolto dal Pd e dal deputato Iv Gabriele Toccafondi, che da ex sottosegretario al ministero dell’Istruzione ha sempre spinto per aumentarne i finanziamenti. Negli 8 emendamenti al dl Rilancio che hanno presentato, dem e renziani chiedono – con l’appoggio di tutto il centrodestra – una detrazioni sulle rette fino a 5.500 euro, un aumento di 130 milioni per i nidi e altri 140 milioni per sopperire ai mancati incassi delle rette. Ma M5S s’è detto pronto alle barricate. “Scegliere di finanziare con fondi aggiuntivi le paritarie significa sottrarre soldi alla scuola pubblica. Chi vuole anteporre altri interessi a quelli costituzionalmente garantiti non troverà il nostro sostegno”, ha spiegato il 5 Stelle Gianluca Vacca.
Una battaglia ideologica, che diventa di sistema se però gran parte delle strutture private oggi è chiamato sostituirsi alla scuola pubblica come nel caso degli asili nido, sopperendo alla mancanza di quelli comunali o statali. Rappresentano infatti il 49% delle strutture totali e il 70% di tutte le scuole paritarie. Sono 8.957 e vengono frequentate da 524mila bimbi da 0 a 3 anni. Anche questi istituti da settembre dicono che c’è il serio rischio che non riaprano. E per chi ce la farà, la prospettiva è di riempirsi di debiti. Mentre per le famiglie, da sempre fuori dalle graduatorie pubbliche, significa non sapere dove lasciare i figli piccolissimi e scegliere tra famiglia e lavoro. Secondo Save the Children, solo 1 bambino su 4 ha accesso al nido o ai servizi integrativi per l’infanzia, e, di questi, solo la metà frequenta un asilo pubblico. Un servizio pubblico che è quasi assente in Calabria (2,6%) e Campania (3,6%), a fronte delle più virtuose Valle d’Aosta (28%) o Emilia Romagna (26,6%). Ma anche i nidi che potrebbero ripartire da subito come centro estivo devono scontrarsi contro i protocolli di sicurezza che non sono stati ancora recepiti. Iniziative considerate sperimentali ci sono in Veneto e a Bolzano. “Nessuna delle nostre 30 strutture tra Lombardia, Toscana, Lazio e Campania è riuscita a riaprire”, spiega Domenico Crea di Crescere Insieme che gestisce decine di strutture in 4 Regioni. “Non si sa ancora quale sia il rapporto educatore-bambino. Potrebbe essere indicato un rapporto 1 a 3/4 tra operatori e bambini, rapporto consigliato ma non obbligatorio”, aggiunge. Nella realtà sono state date solo delle linee guida. Le Regioni devono recepirle e inoltrarle ai Comuni, che a loro volta hanno bisogno delle autorizzazioni dell’Asl. Così, dicono le associazioni, non riusciranno a resistere a lungo.

sabato 15 giugno 2019

Radio Radicale, dove sono finiti i 300 milioni di fondi pubblici. - Patrizia De Rubertis



Trecento milioni di euro arrivati quasi sempre a fine anno nelle leggi di Stabilità, nei decreti Milleproroghe o in altri provvedimenti ad hoc hanno permesso a Radio Radicale di svolgere per 25 anni “servizio pubblico”, senza alcun tipo di valutazione (come l’affidamento con una gara) e nonostante sia una radio privata e legata a un partito. Ed è una ricorrente che il salvataggio dell’emittente fondata nel 1976 da Marco Pannella arrivi sempre in extremis grazie a denaro pubblico. Come l’ultima boccata di ossigeno arrivata dall’accordo Lega-Pd che giovedì ha concesso a Radio Radicale altri 3 milioni nel 2019 (e 4 milioni nel 2020). Che si vanno ad aggiungere ai 5 già stanziati per l’anno in corso. Un unicum nel panorama editoriale quello conquistato dall’emittente.
Radio Radicale nasce 43 anni fa, per iniziativa di un gruppo di deputati militanti dell’omonimo partito, e diventa subito il megafono delle battaglie di Marco Pannella, tra cui quella contro il finanziamento pubblico ai partiti. Ma senza quei fondi e a fronte di costi di gestione sempre più alti, sono costretti a chiudere nel luglio 1986. I dirigenti decidono di sospendere tutti i programmi per lasciare la parola agli ascoltatori che tra messaggi di stima e bestemmie la trasformano nell’emittente più ascoltata d’Italia (l’esperimento è stato ripetuto anche nel 1993, sempre per salvarsi dalla chiusura). Ma la svolta arriva nel 1990 con la legge 230 quando si aprono le porte dei contributi pubblici: da allora la radio percepisce ogni anno circa 4 milioni di euro. La secondo svolta è datata 21 novembre 1994: viene firmata la convenzione, approvata con un decreto del ministro delle Telecomunicazioni Giuseppe Tatarella, che da allora eroga alla società Centro di produzioni S.p.a. (ossia Radio Radicale con il suo archivio in via Principe Amedeo a Roma) 10 milioni di euro ogni anno per la trasmissione delle sedute parlamentari. È merito di un bando del governo Berlusconi, che i maligni dicono sia stato cucito su misura (niente musica e zero pubblicità), se la radio – che navigava in cattive acque – si salva di nuovo. I Radicali continuano a essere contrari a dare i soldi dei contribuenti ai partiti, ma da allora la radio ha incassato oltre 300 milioni di euro. Il bando, fatto per decreto, non è stato mai convertito in legge. È stato rinnovato per ben 17 volte, da tutti i governi, con una specie di regime transitorio. Contributi all’editoria e rinnovo della convenzione che hanno permesso di percepire 14 milioni di euro ogni anno.
Chi c’è dietro la radio? Fino alla fine degli anni Novanta l’azionista unico dell’emittente era l’Associazione politica nazionale Lista Marco Pannella. Poi l’assetto proprietario cambia nel marzo 2000 quando l’imprenditore Marco Podini (già padrone della catena di supermercati A&O e dei discount Md), aderendo all’appello pubblico di Pannella in un altro momento di difficoltà della radio, acquista tramite la Pasubio Spa il 25% di Radio Radicale per 25 miliardi di lire. Emittente finanziata fino ad allora solo da soldi pubblici, e il cui valore totale schizza così a 100 miliardi di lire. Pochi mesi prima la Rai aveva fatto un’offerta per rilevare tutta la società per una ventina di miliardi. Podini annuncia un aumento della sua partecipazione al 50%, che però non avverrà mai. L’imprenditore siede insieme alla sorella Maria Luisa nel cda della società (la quota è passata nel frattempo alla Holding Lillo) ed è anche il presidente della Dedagroup, una società che si occupa di information technology. Così come l’altro gruppo che possiede, la Piteco, una software house italiana quotata in Borsa.
Da allora le quote della società che controlla la radio sono rimaste immutate: all’associazione Pannella, editore dell’emittente, resta il 62,68% e un’altra piccola quota, del 6,17%, è in mano alla commercialista Cecilia Maria Angioletti. Il resto è in mano alla holding finanziaria Lillo attiva nel campo della distribuzione alimentare che fattura 2,3 miliardi di euro l’anno. Nel 2017, ultimo dato aggiornato del bilancio, i ricavi complessivi della radio hanno raggiunto gli 8,3 milioni con un incremento di 21mila euro sull’anno prima, garantiti dagli introiti della convenzione. A cui si aggiungono 4 milioni di contributi dal fondo dell’editoria. Il costo del personale (a Radio Radicale lavorano 52 dipendenti tra cui 20 giornalisti impiegati) è salito a 4 milioni dai 3,8 del 2016 (compresi contributi e Tfr) con il direttore Alessio Falconio e l’ad Paolo Chiarelli che guadagnano poco più di 100mila euro. Utili ce ne sono stati pochi negli ultimi anni, ma non è sempre andata così. Il 2010, per dire, si chiuse con un utile di 168 mila euro, ma il cda deliberò di distribuire un dividendo di 600 mila euro attingendo alle riserve. Negli ultimi 3 anni i conti hanno sempre chiuso in rosso (nel 2017 di 6.500 euro).

venerdì 17 febbraio 2017

ECCO QUANTO HA RUBATO LA FAMIGLIA AGNELLI IN 100 ANNI AGLI ITALIANI! - Marx21

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Come gli Agnelli hanno rapinato l’Italia lungo un intero secolo.

Gioanin lamiera, come scherzosamente gli operai chiamavano l’Avvocato, ha succhiato di brutto; ma prima di lui ha succhiato suo padre; e prima di suo padre, suo nonno Giovanni. 

Giovanni Agnelli Il Fondatore. Hanno succhiato dallo Stato, cioè da tutti noi. E’ una storia della Fiat a suo modo spettacolare e violenta, tipo rapina del secolo, questa che si può raccontare – alla luce dell’ultimo blitz di Marchionne – tutta e completamente proprio in chiave di scandaloso salasso di denaro pubblico. Un salasso che dura da cent’anni. Partiamo dai giorni che corrono. Per esempio da Termini Imerese, lo stabilimento ormai giunto al drammatico epilogo (fabbrica chiusa e operai sul lastrico fuori dai cancelli). 

Costruito su terreni regalati dalla Regione Sicilia, nel 1970 inizia con 350 dipendenti e 700 miliardi di investimento. Dei quali almeno il 40 per cento è denaro pubblico graziosamente trasferito al signor Agnelli, a vario titolo. La fabbrica di Termini Imerese arriva a superare i 4000 posti di lavoro, ma ancora per grazia ricevuta: non meno di 7 miliardi di euro sborsati pro Fiat dal solito Stato magnanimo nel giro degli anni. Agnelli costa caro. Calcoli che non peccano per eccesso, parlano di 220 mila miliardi di lire, insomma 100 miliardi di euro (a tutt’oggi), transitati dalle casse pubbliche alla creatura di Agnelli. 

Nel suo libro – “Licenziare i padroni?”, Feltrinelli – Massimo Mucchetti fa alcuni conti aggiornati: «Nell’ultimo decennio il sostegno pubblico alla Fiat è stato ingente. L’aiuto più cospicuo, pari a 6059 miliardi di lire, deriva dal contributo in conto capitale e in conto interessi ricevuti a titolo di incentivo per gli investimenti nel Mezzogiorno in base al contratto di programma stipulato col governo nel 1988». Nero su bianco, tutto “regolare”. Tutto alla luce del sole. «Sono gli aiuti ricevuti per gli stabilimenti di Melfi, in Basilicata, e di Pratola Serra, in Campania». A concorrere alla favolosa cifra di 100 miliardi, entrano in gioco varie voci, sotto forma di decreti, leggi, “piani di sviluppo” così chiamati. Per esempio, appunto a Melfi e in Campania, il gruppo Agnelli ha potuto godere di graziosissima nonché decennale esenzione dell’imposta sul reddito prevista ad hoc per le imprese del Meridione. E una provvidenziale legge n.488 (sempre in chiave “meridionalistica”) in soli quattro anni, 1996-2000, ha convogliato nelle casse Fiat altri 328 miliardi di lire, questa volta sotto la voce “conto capitale”. Un bel regalino, almeno 800 miliardi, è anche quello fatto da tal Prodi nel 1997 con la legge – allestita a misura di casa Agnelli, detentrice all’epoca del 40% del mercato – sulla rottamazione delle auto. 
Per non parlare dell’Alfa Romeo, fatta recapitare direttamente all’indirizzo dell’Avvocato come pacco-dono, omaggio sempre di tal Prodi. Sempre secondo i calcoli di Mucchetti, solo negli anni Novanta lo Stato ha versato al gruppo Fiat 10 mila miliardi di lire. Un costo altisssimo è poi quello che va sotto la voce”ammortizzatori sociali”, un frutto della oculata politica aziendale (il collaudato stile “privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite”): cassa integrazione, pre-pensionamenti, indennità di mobilità sia breve che lunga, incentivi di vario tipo. «Negli ultimi dieci anni le principali società italiane del gruppo Fiat hanno fatto 147,4 milioni di ore di cassa integrazione – scrive sempre Mucchetti nel libro citato – Se assumiamo un orario annuo per dipendente di 1.920 ore, l’uso della cassa integrazione equivale a un anno di lavoro di 76.770 dipendenti. E se calcoliamo in 16 milioni annui la quota dell’integrazione salariale a carico dello Stato nel periodo 1991-2000, l’onere complessivo per le casse pubbliche risulta di 1228 miliardi». 

Grazie, non è abbastanza. Infatti, «di altri 700 miliardi è il costo del prepensionamento di 6.600 dipendenti avvenuto nel 1994: e atri 300 miliardi se ne sono andati per le indennità di 5.200 lavoratori messi in mobilità nel periodo». Non sono che esempi. Ma il conto tra chi ha dato e chi ha preso si chiude sempre a favore della casa torinese. Ab initio. In un lungo studio pubblicato su “Proteo”, Vladimiro Giacché traccia un illuminante profilo della storia (rapina) Fiat, dagli esordi ad oggi, sotto l’appropriato titolo”Cent’anni di improntitudine.

Ascesa e caduta della Fiat”. Nel 1911, la appena avviata industria di Giovanni Agnelli è già balzata, con la tempestiva costruzione di Motori per navi e sopratutto di autocarri, «a lucrare buone commesse da parte dello Stato in occasione della guerra di Libia». Non senza aver introdotto, già l’anno dopo, 1912, «il primo utilizzo della catena di montaggio», sulle orme del redditizio taylorismo. E non senza aver subito imposto un contratto di lavoro fortemente peggiorativo; messo al bando gli “scioperi impulsivi”; e tentato di annullare le competenze delle Commissioni interne. «Soltanto a seguito di uno sciopero durato 93 giorni, la Fiom otterrà il diritto di rappresentanza e il riconoscimento della contrattazione collettiva» (anno 1913). Anche il gran macello umano meglio noto come Prima guerra mondiale è un fantastico affare per l’industria di Giovanni Agnelli, volenterosamente schierata sul fronte dell’interventismo. I profitti (anzi, i “sovraprofitti di guerra”, come si disse all’epoca) furono altissimi: i suoi utili di bilancio aumentarono dell’80 per cento, il suo capitale passò dai 17 milioni del 1914 ai 200 del 1919 e il numero degli operai raddoppiò, arrivando a 40 mila.
«Alla loro disciplina, ci pensavano le autorità militari, con la sospensione degli scioperi, l’invio al fronte in caso di infrazioni disciplinari e l’applicazione della legge marziale». E quando viene Mussolini, la Fiat (come gli altri gruppi industriali del resto) fa la sua parte. Nel maggio del ’22 un collaborativo Agnelli batte le Mani al “Programma economico del Partito Fascista”; nel ’23 è nominato senatore da Mussolini medesimo; nel ’24 approva il “listone” e non lesina finanziamenti agli squadristi.

Ma non certo gratis. In cambio, anzi, riceve moltissimo. «Le politiche protezionistiche costituirono uno scudo efficace contro l’importazione di auto straniere, in particolare americane». Per dire, il regime doganale, tutto pro Fiat, nel 1926 prevedeva un dazio del 62% sul valore delle automobili straniere; nel ’31 arrivò ad essere del 100%; «e infine si giunse a vietare l’importazione e l’uso in Italia di automobili di fabbricazione estera». Autarchia patriottica tutta ed esclusivamente in nome dei profitti Fiat. Nel frattempo, beninteso, si scioglievano le Commissioni interne, si diminuivano per legge i salari e in Fiat entrava il “sistema Bedaux”, cioè il “controllo cronometrico del lavoro”: ottimo per l’intensificazione dei ritmi e ia congrua riduzione dei cottimi. Mussolini, per la Fiat, fu un vero uomo della Provvidenza. E’ infatti sempre grazie alla aggressione fascista contro l’Etiopia, che la nuova guerra porta commesse e gran soldi nelle sue casse: il fatturato in un solo anno passa da 750 milioni a 1 miliardo e 400 milioni, mentre la manodopera sale a 50 mila. «Una parte dei profitti derivanti dalla guerra d’Etiopia – scrive Giacché – fu impiegata (anche per eludere il fisco) per comprare i terreni dove sarebbe stato costruito il nuovo stabilimento di Mirafiori». Quello che il Duce poi definirà «la fabbrica perfetta del regime fascista». Cospicuo aumento di fatturato e di utili anche in occasione della Seconda guerra mondiale. Nel proclamarsi del tutto a disposizione, sarà Vittorio Valletta, nella sua veste di amministratore delegato, a dare subito «le migliori assicurazioni. Ponendo una sola condizione: che le autorità garantissero la disciplina nelle fabbriche attraverso la militarizzazione dei dipendenti». 
Fiat brava gente. L’Italia esce distrutta dalla guerra, tra fame e macerie, ma la casa torinese è già al suo “posto”. Nel ’47 risulta essere praticamente l’unica destinataria dell’appena nato “Fondo per l’industria meccanica”; e l’anno dopo, il fatidico ’48, si mette in tasca ben il 26,4% dei fondi elargiti al settore meccanico e siderurgico dal famoso Piano Marshall. E poi venne la guerra fredda, e per esempio quel grosso business delle commesse Usa per la fabbricazione dei caccia da impiegare nel conflitto con la Corea. E poi vennero tutte quelle autostrade costruite per i suoi begli occhi dalla fidata Iri. E poi venne il nuovo dazio protezionistico, un ineguagliabile 45% del valore sulle vetture straniere… E poi eccetera eccetera. Mani in alto, Marchionne! 
Questa è una rapina.

http://laveritadininconaco.altervista.org/quanto-rubato-la-famiglia-agnelli-100-anni-agli-italiani/

lunedì 13 maggio 2013

Politiche giovanili, la beffa del fondo per l’occupazione svuotato dai partiti. Thomas Mackinson


Politiche giovanili, la beffa del fondo per l’occupazione svuotato dai partiti


Letta ha dichiarato che sostenere il lavoro dei giovani sarà la sua "ossessione". Ma gli stanziamenti dedicati, falcidiati dagli ultimi governi, vanno a iniziative opache e non sono monitorati. La Compagnia delle Opere, ad esempio, si accaparra un importo superiore al costo del suo progetto e si tiene il resto. Poi c'è il sito per giovani imprenditori, che costa 350mila euro e fa 20 utenti al mese.

Un fondo per i giovani che non ha più fondi, gestito in modo caotico e opaco, che premia progetti a volte misteriosi e spesso non rendicontati. E che in cinque anni ha visto scivolare via oltre 500 milioni di euro. E’ il ramo secco dello Stato su cui Enrico Letta punta per legittimare ulteriormente il suo governo di larghe intese, con tanto di impegno pubblico a fare dell’occupazione giovanile la sua “ossessione”. Le radici le ha proprio in ufficio, nella presidenza del Consiglio, titolare del “Fondo politiche giovanili”, una cassa di finanziamento falcidiata dai tagli e da cui più soggetti hanno attinto. C’è, ad esempio, la Compagnia delle Opere che si fa finanziare un progetto, spende meno del previsto, e si tiene la differenza. Ci sono le domande di partecipazione a un bando da un milione di euro che nessuno si è premurato neppure di aprire e restano lì, sigillate, a invecchiare come il vino. Un museo che organizza master per under 30 ma ci mette le sue guide e ci realizza un cofanetto promozionale. E poi c’è un sito, giovaneimpresa.it, che doveva diventare il punto di riferimento per tutte le iniziative pubbliche di sostegno all’imprenditorialità giovanile. Ma, in realtà, è divenuto l’emblema di come vanno le cose quando la politica mette il cappello sui giovani: è costato 350mila euro, attinti sempre dal fondo di cui sopra, ma è un relitto nella rete che totalizza 200 visitatori in dieci mesi, 20 al mese, meno di uno al giorno.
Tutto con il logo della Presidenza del Consiglio, quella che – in continuità tra centrosinistra e centrostra – ha formalmente elevato il tema dell’occupazione giovanile, issandolo come una bandiera sul tetto di Palazzo Chigi. Enrico Letta era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio quando Romano Prodi, il 17 giugno del 2006, un mese dopo l’insediamento, istituiva il primo fondo. Per due anni, però, rimase dormiente: i decreti attuativi arrivarono tardi, quando il governo dell’Unione si era già polverizzato. Nel 2008 Berlusconi se li ritrovò predisposti e pensò bene di crearci attorno perfino una delega ad hoc, quella di Giorgia Meloni, rigorosamente senza portafoglio. Tutti, sinistra e destra, a dire che l’importante è investire sui giovani. Ma i numeri dicono il contrario, raccontano un’altra storia: i fondi per le politiche giovanili sono stati via via svuotati e tagliati negli anni fino a lasciare le briciole. Molti programmi, in nome dei vincoli di spesa e dell’austerità, dovranno presto limitarsi a utilizzare i residui passivi delle gestioni precedenti, altri non riceveranno più un euro. Nel complesso la “dote” giovani è calata di due terzi in quattro anni.
Il capitolo di missione dedicato allo sport e al servizio civile, ad esempio, è sceso da 173 a 71 milioni (nella nota di previsione del 2013 a 64) con un taglio del 60%. Tanto che è appena stata depositata un’interrogazione per chiederne l’integrazione. Scorrendo poi le singole voci del bilancio della Presidenza si capisce meglio cosa intendesse Mario Monti quando un anno fa parlava di una “generazione perduta sulla quale mi chiedo se valga la pena investire”. Già nella nota di bilancio 2011 si spiegava che sul “Fondo di credito ai giovani” (cap. 848) “non è possibile allocare alcuna nuova disponibilità”. Idem per il “Fondo di garanzia per l’acquisto prima casa” (cap. 893), istituito nel 2008, che tre anni dopo non sarà neppure finanziato. Stesso destino per il “Fondo per le comunità giovanili” (cap.884).
La Corte dei Conti, a marzo, ha cercato di capire come sono stati spesi i soldi per il “Fondo per le politiche giovanili”. I magistrati contabili rilevano alcune “criticità” evidenti , sia in ordine ai progetti finanziati, sia alla loro successiva gestione e rendicontazione, perlopiù sparpagliate su diversi ministeri, enti locali e di diritto pubblico come Invitalia o l’Agenzia nazionale per i Giovani. Il fondo, questo è certo, sta toccando il fondo: nel 2008 erano stati stanziati 150 milioni, che sono divenuti 100 l’anno successivo, poi 81 e infine 12 per il 2011. Insomma, l’investimento sui giovani anche per questo capitolo è decisamente in picchiata.
Le iniziative finanziate sono spesso opache e a volte del tutto “disallineate” agli scopi del finanziamento. Alcuni esempi? Un bando del 30 dicembre 2008 da 4,8 milioni ha finanziato un portale (www.giovaneimpresa.it) che alla fine della fase di test non ha superato i 200 accessi in 10 mesi ma è costato la bellezza di 350mila euro. “In seguito – scrivono i magistrati – si è fermato per la mancanza di ulteriori fonti di finanziamento, ed il portale è diventato, in sostanza, uno strumento ad uso della Comunicazione istituzionale del Ministro della Gioventù”. Una scatola vuota “il cui quadro complessivo evidenzia una sostanziale incorenza anche per la falcidia che ha subito nel tempo il Fondo per le politiche giovanili, il cui stanziamento per il 2012 è limitato a 8 milioni di euro”.
Un altro bando sotto la lente è quello del 23 gennaio 2008 per la “legalità e crescita della cultura sportiva”. Importo, 1 milione di euro. L’amministrazione non ha mai trasmesso il decreto di approvazione dell’iniziativa alla Corte in quanto “irreperibile”, con buona pace della legalità in calce al bando. Si scoprirà che non era mai stato emanato. Le domande di partecipazione erano però arrivate in plichi sigillati, numerate e catalogate. Alla fine vengono ammessi 55 progetti, ma quelli che hanno ricevuto il finanziamento, a tempo scaduto, saranno solo due.
“Manca un reale monitoraggio”, infine sui cofinanziamenti per 19 milioni di euro gestiti in compartecipazione con sei regioni. “I progetti si concludono con una mera presa d’atto delle relazioni che ne indicano la conclusione”. Tra questi il progetto della Compagnia delle Opere da 710mila euro dal nome emblematico: “Potter – Progetto e occasione per tessere trame educative”. I soldi servono a finanziare esperienze di lavoro e attività extrascolastiche. La nota si chiude con un rilievo non da poco: tra le fonti di finanziamento e la spesa effettiva c’è uno scostamento significativo, ma la quota pubblica che doveva essere pari al 70% non è stata rimodulata sulla spesa effettiva e la restituzione della somma eccedente non è mai avvenuta. In pratica la Cdo ha messo a carico del pubblico quanto avrebbe dovuto finanziare in proprio. Tanto pagano i giovani.
465mila euro messi a disposizione della Fondazione Centro Studi G.B. Vico per giovani imprenditori si scoprirà che sono andati a beneficio di un’altra categoria. Con quei soldi la Fondazione pagherà l’instradamento a 47 potenziali guide turistiche per il proprio museo vichiano (oltre a un confanetto promozionale sul filosofo di cui porta il nome). “Evidente che l’attività realizzata dal soggetto attuatore si focalizzano su tematice e azioni legate ai propri interessi che non ripondono a quelli del bando”. Anche per l’età dei destinatari della formazione: il bando indicava una fascia d’età compresa tra i 15 e i 30 anni, delle 47 unità che hanno ricevuto formazione, 21 superano i 30 anni ed in alcuni casi i 50 “e comunque non si forniscono notizie circa gli ulteriori sviluppi sotto il profilo dell’inserimento lavorativo dei soggetti coinvolti nella formazione”. Li chiamavano giovani. E gli sottraevano il futuro.