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domenica 20 febbraio 2022

Lupi per Agnelli. - Marco Travaglio

 

La lettura dei giornaloni ci induce a un moto spontaneo di commozione e gratitudine per una famiglia di buoni samaritani torinesi che dona un miliardo di euro allo Stato per i nostri bisogni più impellenti. I titoli più soavi sono sulle testate dei benefattori. Stampa: “Accordo tra Fisco e gruppo Agnelli: un miliardo per le sedi in Olanda. Exor: ‘Corretta la nostra interpretazione delle norme. Nessuna sanzione, contenzioso chiuso’”. Repubblica: “Accordo col Fisco sul passaggio in Olanda. La società: ‘Operato secondo le regole’”. Ma anche il Sole 24 ore non scherza: “Exor e Agnelli, quasi 1 miliardo per chiudere la vertenza fiscale”. E il Corriere: “Exor-Agnelli, pace da 950 milioni con il Fisco”. Non è ben chiaro a quale guerra o “vertenza” o “contenzioso” sia seguito l’“accordo” di “pace”. Ma è pacifico che i donatori subalpini nulla dovevano, avendo osservato rigorosamente “regole” e “norme”, il che rende ancor più nobile il munifico gesto di devolverci metà degli utili. Un po’ come quegli imputati che patteggiano anni di galera, ma restano innocenti. Ci par di vederlo, il giovine John Elkann che arringa il folto gregge degli Agnelli, leccandosi il pollice mentre sfoglia il libretto degli assegni: “Mi voglio rovinare: facciamo un miliardo e un bacio sopra, se no dicono che siamo tirati! Apro una parente: se non sganciamo subito il miliardo, il fisco potrebbe affibbiarcene 2 o 3 per l’Exit Tax non pagata col trasloco in Olanda, e cara grazia che c’è lo sconto Draghi. Ma questo non lo diciamo, anche perché dallo Stato abbiamo incassato 10 miliardi fino al 2013 e ora si ricomincia. Chiusa la parente. Senza nulla a pretendere, i fratelli Elkann, che siamo noi”.

Ci par di vedere pure i colleghi di Stampubblica, ai quali va la nostra solidarietà. S’erano appena riavuti dalla fatica di nascondere il sequestro di 30 milioni ai cavalieri Gedi (gestione De Benedetti) per una presunta truffa da 38 all’Inps e di maledire il M5S per le truffe miliardarie sul superbonus (mai esistite) e zac! Gli capita fra capo e collo la notizia del padrone che prende i soldi e scappa, viene beccato e ne restituisce un po’ per evitare il peggio, mentre con l’altra mano ritira il primo dei 3-4 miliardi in 8 anni gentilmente offerti dal trio Draghi-Giorgetti-Cingolani. Ora chi lo dice a Sebastiano Messina, che su Rep voleva “vietare a vita l’uso della parola ‘onestà’” ai 5Stelle che “permettono a un imbroglione di truffare un miliardo – un miliardo! – col superbonus e consentono a mafiosi, finti poveri e latitanti di incassare ogni mese il reddito di cittadinanza” (500 euro!). In attesa di trovare un’anima pia che lo avvisi col dovuto tatto, Rep mette a pag. 1 il miliardo dallo Stato agli Agnelli e a pag. 25 il miliardo dagli Agnelli allo Stato. Sennò poi la gente sospetta che questi Agnelli siano parenti.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/20/lupi-per-agnelli-2/6500321/

venerdì 17 febbraio 2017

ECCO QUANTO HA RUBATO LA FAMIGLIA AGNELLI IN 100 ANNI AGLI ITALIANI! - Marx21

Risultati immagini per famiglia agnelli

Come gli Agnelli hanno rapinato l’Italia lungo un intero secolo.

Gioanin lamiera, come scherzosamente gli operai chiamavano l’Avvocato, ha succhiato di brutto; ma prima di lui ha succhiato suo padre; e prima di suo padre, suo nonno Giovanni. 

Giovanni Agnelli Il Fondatore. Hanno succhiato dallo Stato, cioè da tutti noi. E’ una storia della Fiat a suo modo spettacolare e violenta, tipo rapina del secolo, questa che si può raccontare – alla luce dell’ultimo blitz di Marchionne – tutta e completamente proprio in chiave di scandaloso salasso di denaro pubblico. Un salasso che dura da cent’anni. Partiamo dai giorni che corrono. Per esempio da Termini Imerese, lo stabilimento ormai giunto al drammatico epilogo (fabbrica chiusa e operai sul lastrico fuori dai cancelli). 

Costruito su terreni regalati dalla Regione Sicilia, nel 1970 inizia con 350 dipendenti e 700 miliardi di investimento. Dei quali almeno il 40 per cento è denaro pubblico graziosamente trasferito al signor Agnelli, a vario titolo. La fabbrica di Termini Imerese arriva a superare i 4000 posti di lavoro, ma ancora per grazia ricevuta: non meno di 7 miliardi di euro sborsati pro Fiat dal solito Stato magnanimo nel giro degli anni. Agnelli costa caro. Calcoli che non peccano per eccesso, parlano di 220 mila miliardi di lire, insomma 100 miliardi di euro (a tutt’oggi), transitati dalle casse pubbliche alla creatura di Agnelli. 

Nel suo libro – “Licenziare i padroni?”, Feltrinelli – Massimo Mucchetti fa alcuni conti aggiornati: «Nell’ultimo decennio il sostegno pubblico alla Fiat è stato ingente. L’aiuto più cospicuo, pari a 6059 miliardi di lire, deriva dal contributo in conto capitale e in conto interessi ricevuti a titolo di incentivo per gli investimenti nel Mezzogiorno in base al contratto di programma stipulato col governo nel 1988». Nero su bianco, tutto “regolare”. Tutto alla luce del sole. «Sono gli aiuti ricevuti per gli stabilimenti di Melfi, in Basilicata, e di Pratola Serra, in Campania». A concorrere alla favolosa cifra di 100 miliardi, entrano in gioco varie voci, sotto forma di decreti, leggi, “piani di sviluppo” così chiamati. Per esempio, appunto a Melfi e in Campania, il gruppo Agnelli ha potuto godere di graziosissima nonché decennale esenzione dell’imposta sul reddito prevista ad hoc per le imprese del Meridione. E una provvidenziale legge n.488 (sempre in chiave “meridionalistica”) in soli quattro anni, 1996-2000, ha convogliato nelle casse Fiat altri 328 miliardi di lire, questa volta sotto la voce “conto capitale”. Un bel regalino, almeno 800 miliardi, è anche quello fatto da tal Prodi nel 1997 con la legge – allestita a misura di casa Agnelli, detentrice all’epoca del 40% del mercato – sulla rottamazione delle auto. 
Per non parlare dell’Alfa Romeo, fatta recapitare direttamente all’indirizzo dell’Avvocato come pacco-dono, omaggio sempre di tal Prodi. Sempre secondo i calcoli di Mucchetti, solo negli anni Novanta lo Stato ha versato al gruppo Fiat 10 mila miliardi di lire. Un costo altisssimo è poi quello che va sotto la voce”ammortizzatori sociali”, un frutto della oculata politica aziendale (il collaudato stile “privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite”): cassa integrazione, pre-pensionamenti, indennità di mobilità sia breve che lunga, incentivi di vario tipo. «Negli ultimi dieci anni le principali società italiane del gruppo Fiat hanno fatto 147,4 milioni di ore di cassa integrazione – scrive sempre Mucchetti nel libro citato – Se assumiamo un orario annuo per dipendente di 1.920 ore, l’uso della cassa integrazione equivale a un anno di lavoro di 76.770 dipendenti. E se calcoliamo in 16 milioni annui la quota dell’integrazione salariale a carico dello Stato nel periodo 1991-2000, l’onere complessivo per le casse pubbliche risulta di 1228 miliardi». 

Grazie, non è abbastanza. Infatti, «di altri 700 miliardi è il costo del prepensionamento di 6.600 dipendenti avvenuto nel 1994: e atri 300 miliardi se ne sono andati per le indennità di 5.200 lavoratori messi in mobilità nel periodo». Non sono che esempi. Ma il conto tra chi ha dato e chi ha preso si chiude sempre a favore della casa torinese. Ab initio. In un lungo studio pubblicato su “Proteo”, Vladimiro Giacché traccia un illuminante profilo della storia (rapina) Fiat, dagli esordi ad oggi, sotto l’appropriato titolo”Cent’anni di improntitudine.

Ascesa e caduta della Fiat”. Nel 1911, la appena avviata industria di Giovanni Agnelli è già balzata, con la tempestiva costruzione di Motori per navi e sopratutto di autocarri, «a lucrare buone commesse da parte dello Stato in occasione della guerra di Libia». Non senza aver introdotto, già l’anno dopo, 1912, «il primo utilizzo della catena di montaggio», sulle orme del redditizio taylorismo. E non senza aver subito imposto un contratto di lavoro fortemente peggiorativo; messo al bando gli “scioperi impulsivi”; e tentato di annullare le competenze delle Commissioni interne. «Soltanto a seguito di uno sciopero durato 93 giorni, la Fiom otterrà il diritto di rappresentanza e il riconoscimento della contrattazione collettiva» (anno 1913). Anche il gran macello umano meglio noto come Prima guerra mondiale è un fantastico affare per l’industria di Giovanni Agnelli, volenterosamente schierata sul fronte dell’interventismo. I profitti (anzi, i “sovraprofitti di guerra”, come si disse all’epoca) furono altissimi: i suoi utili di bilancio aumentarono dell’80 per cento, il suo capitale passò dai 17 milioni del 1914 ai 200 del 1919 e il numero degli operai raddoppiò, arrivando a 40 mila.
«Alla loro disciplina, ci pensavano le autorità militari, con la sospensione degli scioperi, l’invio al fronte in caso di infrazioni disciplinari e l’applicazione della legge marziale». E quando viene Mussolini, la Fiat (come gli altri gruppi industriali del resto) fa la sua parte. Nel maggio del ’22 un collaborativo Agnelli batte le Mani al “Programma economico del Partito Fascista”; nel ’23 è nominato senatore da Mussolini medesimo; nel ’24 approva il “listone” e non lesina finanziamenti agli squadristi.

Ma non certo gratis. In cambio, anzi, riceve moltissimo. «Le politiche protezionistiche costituirono uno scudo efficace contro l’importazione di auto straniere, in particolare americane». Per dire, il regime doganale, tutto pro Fiat, nel 1926 prevedeva un dazio del 62% sul valore delle automobili straniere; nel ’31 arrivò ad essere del 100%; «e infine si giunse a vietare l’importazione e l’uso in Italia di automobili di fabbricazione estera». Autarchia patriottica tutta ed esclusivamente in nome dei profitti Fiat. Nel frattempo, beninteso, si scioglievano le Commissioni interne, si diminuivano per legge i salari e in Fiat entrava il “sistema Bedaux”, cioè il “controllo cronometrico del lavoro”: ottimo per l’intensificazione dei ritmi e ia congrua riduzione dei cottimi. Mussolini, per la Fiat, fu un vero uomo della Provvidenza. E’ infatti sempre grazie alla aggressione fascista contro l’Etiopia, che la nuova guerra porta commesse e gran soldi nelle sue casse: il fatturato in un solo anno passa da 750 milioni a 1 miliardo e 400 milioni, mentre la manodopera sale a 50 mila. «Una parte dei profitti derivanti dalla guerra d’Etiopia – scrive Giacché – fu impiegata (anche per eludere il fisco) per comprare i terreni dove sarebbe stato costruito il nuovo stabilimento di Mirafiori». Quello che il Duce poi definirà «la fabbrica perfetta del regime fascista». Cospicuo aumento di fatturato e di utili anche in occasione della Seconda guerra mondiale. Nel proclamarsi del tutto a disposizione, sarà Vittorio Valletta, nella sua veste di amministratore delegato, a dare subito «le migliori assicurazioni. Ponendo una sola condizione: che le autorità garantissero la disciplina nelle fabbriche attraverso la militarizzazione dei dipendenti». 
Fiat brava gente. L’Italia esce distrutta dalla guerra, tra fame e macerie, ma la casa torinese è già al suo “posto”. Nel ’47 risulta essere praticamente l’unica destinataria dell’appena nato “Fondo per l’industria meccanica”; e l’anno dopo, il fatidico ’48, si mette in tasca ben il 26,4% dei fondi elargiti al settore meccanico e siderurgico dal famoso Piano Marshall. E poi venne la guerra fredda, e per esempio quel grosso business delle commesse Usa per la fabbricazione dei caccia da impiegare nel conflitto con la Corea. E poi vennero tutte quelle autostrade costruite per i suoi begli occhi dalla fidata Iri. E poi venne il nuovo dazio protezionistico, un ineguagliabile 45% del valore sulle vetture straniere… E poi eccetera eccetera. Mani in alto, Marchionne! 
Questa è una rapina.

http://laveritadininconaco.altervista.org/quanto-rubato-la-famiglia-agnelli-100-anni-agli-italiani/

mercoledì 3 ottobre 2012

Stanno ritornando i fascisti. O meglio, non erano mai andati via. Come Giuseppe Fava ci aveva ben spiegato nel 1983. - Sergio Di Cori Modigliani




Ogni cultura, ogni etnia, ogni paese ha dei suoi specifici simboli, sintagmi, espressioni, che sintetizzano e determinano l’immaginario collettivo di quel popolo. Se andate a Omaha, Nebraska, e mettete su un partito con l’immagine del fascio littorio, forse trovate tre adepti e la vostra trovata elettorale non avrà alcun impatto. A loro, quel simbolo, non evoca nulla. Se le stesse persone, con identica argomentazione, una grafica uguale e gli stessi slogan, fanno la stessa cosa a Sarzana o a Reggio Emilia, inevitabilmente ci sarà una reazione distinta. E così via dicendo. Se mettete su un movimento come “occupy wall street” e basate la vostra argomentazione sul principio noto “1% contro il 99%” in un paese, come gli Usa, in cui pagare le tasse è norma consolidata e lo fanno tutti; dove le banche –per tradizione- da novant’anni finanziano imprese e idee; dove i meccanismi di corruzione vengono perseguiti con vigore, e quando qualcuno viene beccato, non esiste patteggiamento, e se gli va bene perché non finisce in galera, sparisce per sempre dalla vita politica; dove esistono forti precedenti di una gestione politica (vedi Roosevelt e Truman) che ha messo le banche e la borsa sotto severissimo controllo, accade che possa accadere ciò che sta accadendo da diverse settimane nella contea di Manhattan, dove un giudice ha messo sotto accusa il colosso finanziario J.P.Morgan il cui management finirà presto alla sbarra, dove il governo e una folta maggioranza parlamentare sta aprendo un incartamento giudiziario sulla bolla esplosa dei mutui nel 2008, ecc. Ma se mettete su lo stesso identico movimento, con le stesse parole d’ordine e con la stessa spinta volitiva, in un paese come l’Arabia Saudita, dopo un giorno finite arrestati, condannati a morte senza processo e fucilati all’alba. Se lo fate in Danimarca o in Svezia, tutta la casa reale scende in campo, e ogni giorno se ne parla in parlamento finchè il governo è costretto a intervenire con appositi dispositivi, leggi, controlli, decisioni.
In Italia, negli ultimi mesi, e soprattutto nelle ultime settimane, si è manifestata l’ennesima finzione italiota, che da surrealismo bello e buono, diventa dramma civile, sociale e collettivo, perché è praticamente impossibile denunciare che è un falso.
Perché ciò che oggi in Italia esiste è, mi ripeto, la traduzione di mode importate, riadattate e applicate nel tessuto italiano in modo rassicurante, a garanzia che nulla verrà cambiato mai, che non ci sarà nessuna modificazione.
L’Italia è un paese antico ed è vero.
Non siamo come il Qatar che è stato inventato a tavolino dalla Gran Bretagna nel 1970, o come la Giordania dove inglesi, americani, francesi e tedeschi hanno preso uno qualunque e gli hanno detto “da domani tu se il re e questo è il tuo popolo”.
Non siamo neppure come gli Usa, una gigantesca ed efficiente confederazione, vero e proprio laboratorio dinamico umano e fucina di idee e di innovazioni, il cui principale collante storico, per ovvi motivi, è sempre stato il business.
Si può discutere per ore e decenni sulla solita storiella che siamo soltanto una espressione geografica, perché gli italiani non sono stati mai fatti ma questa, è ormai un’argomentazione obsoleta e non corrisponde affatto alla realtà dei fatti sociali, psicologici, legali ed esistenziali.
Gli italiani esistono, eccome se esistono.
Siamo stati unificati, eccome se siamo stati unificati.
Siamo un tutt’uno, eccome se siamo un tutt’uno.
Ogni differenza tra un brianzolo e un catanese, un frusinate e un vicentino, sono davvero quisquilie antropologiche; si tratta delle stesse identiche differenze di lingua locale, usi tradizionali, costumi psicologici che si trovano tra una casalinga puritana di Cape Cod, sulla East Coast statunitense e una sua omologa cattolica sulla spiaggia di San Diego sulla West Coast: diversissime in tutto, se non nella loro omologazione che le rende (per noi che le vediamo dall’esterno e le riconosciamo) squisitamente americane.
L’Italiano ancora non esisteva nel 1968. E’ iniziato a esistere nel febbraio del 1970, grazie all’irruzione della televisione, della ideologia faziosa e dell’ignoranza, usate come furibonde armi di distrazione di massa. Fu la prima grande mutazione antropologica che andò a costruire la prima fase dell’omologazione come nazione, quella che Pasolini denunciò allora come una tragedia epocale (per lui lo era). Avvenne, allora, con un atto politico-economico che unificò il paese (a sua insaputa) genialmente orchestrato dai due leader che condussero l’operazione e che poi, grazie a questo successo, presero il controllo operativo dei loro due grandi partiti: Giulio Andreotti ed Enrico Berlinguer. Gli italiani ancora non esistevano, e il paese era attraversato da una autentica sollevazione sociale di stampo generazionale che correva il rischio di unificare il paese verso forme evolute davvero molto pericolose per i gestori e garanti dello status quo. E lì avvenne un episodio, anzi due, che unirono il paese, perché si verificarono uno a Torino e l’altro a Reggio Calabria, unendo quindi in un sottilissimo filo di complicità l’austera classe dirigente efficiente piemontese e quella meridionalista calabrese. C’erano, allora, due pericolosi (per il potere) focolai: a Torino la Fiat era in grave crisi. Ben ingerita e digerita la trionfante stagione del modello 500, si era trovata in un momento di riassestamento del capitalismo europeo, ma la famiglia Agnelli (come ha sempre fatto) invece di aver scelto (anni prima) di investire i loro profitti in ricerca avanzata tecnologica, innovazione, aumento della produttività, accettando l’esistenza della concorrenza di altre marche italiane, aveva optato per gettarsi nel campo della finanza speculativa trasformando la Fiat in una semplice cassaforte da usare per fare soldi con gli strumenti finanziari più evoluti allora in voga, senza praticare nessuna politica industriale. In seguito alle lotte sindacali e all’aumento della concorrenza di Renault, Citroen, Opel e Volkswagen, era finita in crisi. Per “fingere” che la propria crisi era tragica, con grandiosa abilità dirottarono nel 1968 il corrispondente di oggi di circa 50 miliardi di euro verso insospettabili “casseforti” all’estero, il tutto intestato a società di comodo. Nel pieno delle lotte sindacali si presentano allo Stato centrale e paventando la bancarotta (con i conti alla mano truccati) sostengono che dovranno licenziare circa 25.000 persone subito. Inizia una trattativa, gestita soprattutto da Riccardo Lombardi (PSI) Luciano Lama (CGIL) e Berlinguer (PCI) scelti con abilità da Amintore Fanfani come i migliori mediatori del momento. Gli unici che con Lotta Continua ci potevano parlare. Contemporaneamente, però, in Calabria erano insorti i meridionali, manifestandosi con rivolte di popolo contro lo strapotere delle banche, contro lo strozzinaggio delle banche, contro le politiche di austerità del settentrione, gestite da un leader locale che si chiamava Ciccio Franco, pilotate dal MSI al grido di “Boia chi molla”, con scontri nelle strade, incendi, devastazioni, morti. Mentre a Torino ci si scontrava contro la polizia al grido di “polizia fascista”, a Reggio Calabria ci si scontrava contro la polizia al grido di “polizia serva dei comunisti”. Risolsero il problema. Magicamente arrivò da Mosca una proposta commerciale alla Fiat per dare inizio alla prima automatizzazione di massa del popolo sovietico; vennero accettate dalla Fiat tutte le richieste sindacali, l’azienda garantì il lavoro, decise di espandersi assumendo altri 8.000 operai nel settentrione. In cambio, ottenne dal governo il corrispondente di oggi di circa 50 miliardi di euro come “prestito d’incentivazione”. E il giorno dopo il fratello di Giovanni Agnelli annunciava la propria candidatura nelle file della DC per le elezioni seguenti, in modo tale da garantire alla sua famiglia che quei soldi non sarebbero mai stati restituiti. Una settimana dopo, in un celebre discorso alla Camera dei deputati, l’allora ministro dell’economia, Emilio Colombo –che in quel momento lanciò nell’arena Giulio Andreotti- annunciava la risoluzione definitiva della questione meridionale. Minacciò i meridionali sostenendo che se non la smettevano subito avrebbe inviato l’esercito e li avrebbe fatti prendere a cannonate. In compenso, garantiva a nome del governo che al massimo entro 72 ore, sarebbe diventato esecutivo il più grande piano mai realizzato di investimenti nel meridione per lanciare il sud verso la modernità. Per far ciò –e poterlo fare in fretta- data la situazione di “grave emergenza che ci obbliga a intervenire subito e data la responsabilità che abbiamo anche come membri fondatori del mercato economico europeo, chiedo un atto di responsabilità civile agli onorevoli colleghi dell’opposizione per appoggiare con favore un decreto legge d’urgenza che consenta la risoluzione immediata del disagio delle popolazioni meridionali”. E lo ottenne. Fu la prima volta che il PCI votò compatto all’unanimità un decreto del governo democristiano. E così, mentre al settentrione la Fiat, attraverso la mediazione di CGIL e PCI rubava “letteralmente” i soldi dalle tasse degli italiani, nel meridione, in 24 ore, a nome del governo, Giulio Andreotti istituisce nella sola Calabria 1.789 enti inutili nati dal nulla che consentono di annunciare in aula, due giorni dopo, che la settimana entrante sarebbero state assunte, nella sola Calabria, 26.860 persone. Come avvenne. Finirono tutti assunti a far poco o nulla in entità fittizie il cui compito consisteva nel non produrre nulla, se non la pace sociale necessaria per garantire lo status quo.  L’unica cosa chiesta in cambio era che il management di province, enti, assessorati, ecc, fosse messo nelle amorevoli mani di burocrati democristiani. Accettarono tutti. E così il meridione, pur di mangiare, accettò di entrare nella mentalità della clientela sussidiaria parassitaria al soldo e agli ordini della Democrazia Cristiana (e in Calabria in connivenza con il PSI) mentre in Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, la grande industria entrava alla grande nel meccanismo del sussidio nazionale mediato dall’opposizione. Tutte le agitazioni di piazza scomparvero nel nulla. Per far fronte a questa situazione, la Banca d’Italia fu costretta a battere una quantità strabordante di danaro. Dieci mesi dopo, l’inflazione era salita del 320% e lentamente ci si avviava verso la grande crisi economica del 1972.
Lì nacquero gli italiani.
Uniti come popolo e nazione, al di là della loro faziosità, al di là dello schieramento ideologico, al di là delle loro differenze, al di là della loro posizione geografica, incorporarono dentro di sé la mala pianta nevropatica dell’odio/amore verso lo Stato, considerato come nemico ma allo stesso tempo amorevole mamma accudente dei propri bisogni primari.
La seconda fase, fondamentale nella nascita degli italiani è stata quella perpetrata e organizzata alla grande da Silvio Berlusconi e i suoi compari.
Ancora nel 1989, la criminalità organizzata –pur sempre mostruosamente forte- aveva come roccaforti la gestione, amministrazione ed esercizio del potere locale regionale, suddivisa in mafia siciliana, ‘ndrangheta calabrese, camorra napoletana, sacra corona unita pugliese, che trovavano soprattutto nella destra fascista e democristiana la copertura necessaria per svolgere il loro malaffare.
Con Berlusconi tutto ciò cambia e la criminalità organizzata, da meridionale, diventa nazionale. Vent’anni dopo, tutte le più importanti organizzazioni criminali meridionali mantengono nel meridione una posizione territoriale più che altro psico-politica. Come ben spiegato dal magistrato Caselli e dal procuratore Grasso, nel 2010 “il 70% delle attività finanziarie delle mafie si svolge e si realizza nelle quattro grandi regioni settentrionali”.
In questo ventennio, le mafie –come persone, come concetto, come antropologia, come modalità d’affari, come cultura- entrano nel sistema industriale, finanziario e bancario del settentrione e se ne impossessano.
L’Italia realizza finalmente la propria unità nazionale.
Il mafioso siciliano non esiste più oggi. Se non nella sua obsoleta (seppur ancora viva) manifestazione di bullismo criminale locale legato a tradizioni familiari micro-delinquenziali. L’Italia diventa mafiosa e criminale nella sua perdurante attività quotidiana. ED E’ QUESTO CIO’ CHE INCEPPA IL SISTEMA E INGESSA IL MERCATO non le banche. E’ questa mentalità che esalta e piace ai colossi finanziari internazionali che vedono in questa furiosa debolezza e fragilità etica la ghiotta occasione per espoliare la nazione appropriandosi delle nostre ricchezze. Non è certo un caso che tutti questi siti, pagine di facebook, quotidiani on-line dove ogni giorno si legge il consueto piattume demagogico contro le banche (vera e propria arma di distrazione di massa di facilissimo appeal emotivo perché manipola l’autentico disagio collettivo) neanche una volta parlano di mafie, se non per raccontarci irrilevanti notizie.
Siamo diventati unità nazionale.
L’Italia è Fiorito, per i maschi. Ed è Nicole Minetti per le femmine.
Che ci piaccia o non ci piaccia, questo è il paese: sono entrambi invidiati.
E’ soltanto attraverso una rivoluzione esistenziale interiore che si può arrivare a compiere quella necessaria mutazione del nostro dna culturale per cambiare per davvero la nostra realtà. E ciascuno sa in che cosa consiste il suo “personale e individuale modo di essere rivoluzionari oggi in Italia”, non lo sfogo contro le banche, bensì il disprezzo per i Fiorito e per le Minetti (qui assurti a simbolo rappresentativo) di un intero sistema che è, prima di ogni altra cosa in assoluto, un fatto mentale. Un fatto interiore.
Non spetta alla magistratura il compito di pulire il bianco, il rosso, il verde. L’hanno già fatto nel 1992: non è servito a nulla.
Per ogni Fiorito che va in carcere oggi, per ogni Minetti che si pavoneggia per la sua furbizia, c’è un altro Fiorito ad Alessandria, Siracusa, Ancona, Grosseto, pronto a sostituirlo.
Va cambiato la mentalità d’approccio.
Invece di sentirsi particolarmente intelligenti o puliti perché su facebook si vomitano insulti contro Berlusconi, Monti o Goldman Sachs, è bene che ciascuno cominci a interrogarsi sulla propria istintiva tendenza alla clientela, al piagnisteo che chiede sussistenza, alla querula lamentela di chi finge di voler essere imprenditore quando l’unico vero obiettivo consiste nel metter su (se va bene) un baracchino che poi verrà sovvenzionato dallo Stato in un qualche modo.
L’Italia non sta in crisi perché non può battere moneta. E’ FALSO.
Il “sistema Italia è andato in crisi perché l’Europa non consente più all’Italia di mantenere un gigantesco esercito di burocrati inutili, assunti per malleveria partitica o vaticanista, che producono soltanto rendite passive e non merci competitive”.
E la Germania, va da sé, gongola e approfitta di questa situazione. Lo fa anche la Francia, e adesso il Qatar, e i colossi finanziari all’arrembaggio.
Siamo esposti e a rischio.
Siamo esposti all’unità nazionale che, in totale consociativismo, hanno costruito per noi, sapendo che così sarebbero stati votati.
Non a caso (e l’unico a darne la notizia è Il Fatto Quotidiano, colpito proprio da un “sintagma della memoria storica”) Casa Pound e Forza Nuova annunciano sfracelli a Rimini e in Emilia Romagna mobilitando la piazza “contro il mercatismo e contro il signoraggio” e con parole d’ordine che vanno da “fermiamo le banche” a “eliminiamo le banche” ma dove, guarda caso, da ieri è ritornato a primeggiare il mai sopito “Boia chi molla”. E Il Fatto Quotidiano annuncia l’evento facendolo squillare come un campanello.
Il nemico vero è dentro di noi. Spetta a noi strapparselo dalla carne viva, anche a morsi se è necessario. Ciascuno a modo proprio.
Qui di seguito, vi ripropongo un estratto di una grande vittima innocente della nostra Bella Italia che non esiste più. E’ un brano tratto da un testo dello scrittore italiano Giuseppe Fava, assassinato dalla mafia perché divulgava  Cultura. Il libro si chiama “I siciliani” ed è stato pubblicato nel lontano 1983. L’aspetto più agghiacciante –da cui la necessità di questo post- consiste nel fatto che 29 anni dopo non ha perso neppure un grammo della sua cronachistica attualità psico-esistenziale dell’etnia italiana. Eccolo per voi.
Meditateci su, vale la pena.


Il brano è inserito in un capitolo il cui titolo è: “Paura, Vergogna, Stupidità”.
Perché questi sono, purtroppo, i veri tre colori della nostra bandiera nazionale, oggi. Fiorito docet.

Eccolo:
“Non ti lamentare perciò se […] a Napoli la camorra ha sostituito lo Stato nella pubblica amministrazione, nella distribuzione degli appalti, nella amministrazione privata della giustizia e perfino nella coscienza della gente, e in Sicilia e dovunque la mafia è padrona di ciò che ha comunque valore economico e politico, assassina chiunque sgarra o gli da soltanto fastidio, […] Non ti lagnare amico mio se tutto questo accade, non ne hai il diritto. Il primo lazzarone sei tu e la storia ti paga per quello che merita la tua maniera di concepire la politica e quindi la tua stessa dignità!
Solo che ora non hai più molto tempo. Lo vedi tu stesso quello che ci circonda e assedia: amministratori che divorano, terroristi che avanzano menando strage, l'inflazione che ogni giorno ti rende sempre più miserabile, finanzieri che portano il denaro all'estero ed ogni giorno rendono questa tua miseria più infame, logge segrete come immense piovre in tutti i vertici dello Stato, mafiosi praticamente padroni anche della tua sedia di lavoro!
La necessità di una rivolta morale è diventata una necessità per sopravvivere.
Io allora non ti dico per quale partito votare, perché penso che tu abbia avuto almeno la lucidità per fare una tua scelta ideale. Ti chiedo solo che, all'interno di questo partito al quale affidi la tua coscienza di cittadino, di scegliere uomini intelligenti, soprattutto uomini onesti.
E se hai coraggio e passione, allora stai tu dentro quel partito a lottare per la tua parte.
So quanto sia difficile, poiché manigoldi e ruffiani sono riusciti finora ad emarginare o eliminare gli intelligenti e gli onesti.
Ma bisogna tentare, disperatamente, quotidianamente lottare e sperare. Altrimenti ignoranti, ladri e imbecilli ti affonderanno definitivamente!”.
Ci hanno affondato, infatti.
Spetta a noi riemergere