“Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione”. Con queste celebri parole, pronunciate più di sessant’anni fa, Piero Calamandrei costruiva per la Resistenza una proiezione ideale e invitava a pensare la Resistenza del futuro come il cittadino a cui importa del bene comune, al punto di metterlo prima dell’interesse particolare. Parole oggi più che mai da riscoprire.
Il Discorso sulla Costituzione ai giovani di Milano di Piero Calamandrei ha avuto una fortuna davvero singolare. Esso nacque da un invito «dal basso» all’ormai venerato padre costituente: «Il 26 gennaio 1955 ad iniziativa di un gruppo di studenti universitari e medi fu organizzato a Milano nel Salone degli Affreschi della Società Umanitaria un ciclo di sette conferenze sulla Costituzione italiana, invitando insigni cultori del diritto a illustrare in modo accessibile a tutti i princìpi morali e giuridici che stanno a fondamento della nostra vita associata. Il corso è stato inaugurato e concluso da Piero Calamandrei» (così Riccardo Bauer, allora presidente dell’Umanitaria).
Ben al di là di questa contingenza, il discorso ha goduto di un favore crescente, fino a imporsi negli ultimi anni come uno dei pochissimi classici «repubblicani» italiani, riconoscibile anche nell’indistinto piano di internet. La ragione di questo successo è probabilmente la stessa che portò prima l’autore e poi i più autorevoli curatori della sua opera a non includerlo nelle antologie ufficiali: e cioè il suo taglio dichiaratamente divulgativo, il suo carattere antiaccademico e in un certo modo informale. Calamandrei non lo scelse per Uomini e città della Resistenza (uscito da Laterza in quello stesso 1955), Norberto Bobbio non lo mise negli Scritti e discorsi politici (1966) del suo «maestro e compagno», né Alessandro Galante Garrone lo ha recuperato nella raccolta del 1996 Costituzione e leggi di Antigone. Significativamente, esso è invece presente nel fortunatissimo Lo Stato siamo noi, l’instant book di Chiarelettere del 2011 introdotto da una bella prefazione di Giovanni De Luna.
Ma c’è un’altra ragione di questa popolarità, ed è che il Discorso uscì non in un libro, ma in un disco della Fonit Cetra (1959) commentato, sulla copertina, da Enzo Enriques Agnoletti, oggi rarissimo, ma ascoltabile integralmente sul web.
Si tratta di un testo breve: sei cartelle in tutto, cinque inclusi nel disco («la parte sostanziale», scrive Bauer) più un’altra introduttiva.
Ascoltando oggi la voce – fiorentinissima – di Calamandrei, è difficile dar torto alle commosse considerazioni di Bauer: «La parola del maestro indimenticabile suona oggi ancora come un altissimo richiamo all’impegno scientifico e morale di tutti i giovani che si apprestano a una sempre rinnovata battaglia di civiltà, di progresso e di libertà». A ragione Agnoletti sosteneva: «Pensiamo che se fosse stato concesso a Piero Calamandrei di scegliere in quale volto, della sua pur così varia, ricca e armoniosa umanità avrebbe voluto venire ricordato ritratto, nessuna immagine gli sarebbe stata più cara di quella che lo avesse raffigurato in atto di spiegare ai giovani che cosa è, che cosa può, e deve essere, la Costituzione italiana. […] Forse nessuno in Italia ha sentito il valore della Costituzione così intensamente come Calamandrei. Forse nessuno ha tanto operato perché venisse completata e attuata, e perché la sua originalità venisse veramente conosciuta, e perché, soprattutto, venissero accettati i doveri che essa ci impone: quel programma di libertà e giustizia che essa contiene e proclama, e che molti, purtroppo, hanno considerato come un puro esercizio retorico. Non così Calamandrei».
È esattamente questa la ragione per cui questa pagina merita di figurare nella «biblioteca ideale di chi sta dalla parte dell’uguaglianza, della libertà, della giustizia, della laicità», per citare le parole usate da Paolo Flores d’Arcais per introdurre questo volume speciale di MicroMega.
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Il Discorso si può dividere in quattro parti. La prima (quella che nel disco fu omessa) è una sorta di introduzione in cui si dichiara il tema («Domandiamoci che cosa è per i giovani la Costituzione. Che cosa si può fare perché i giovani sentano la Costituzione come una cosa loro»), si ricorda che la Costituzione è di tutti («La Costituzione è nata da un compromesso fra diverse ideologie. Vi ha contribuito l’ispirazione mazziniana, vi ha contribuito il marxismo, vi ha contribuito il solidarismo cristiano. Questi vari partiti sono riusciti a mettersi d’accordo su un programma comune che si sono impegnati a realizzare»), e si introduce il nodo centrale del discorso («La parte più viva, più vitale, più piena d’avvenire della Costituzione, non è costituita da quella struttura d’organi costituzionali che ci sono e potrebbero essere anche diversi: la parte vera e vitale della Costituzione è quella che si può chiamare programmatica, quella che pone delle mete che si debbono gradualmente raggiungere e per il raggiungimento delle quali vale anche oggi, e più varrà in avvenire, l’impegno delle nuove generazioni»).
Nella seconda parte, quella per così dire portante, Calamandrei sviluppa la visione programmatica e progettuale della Costituzione, che «è in parte una realtà, ma soltanto in parte: in parte è ancora un programma, un impegno, un lavoro da compiere». Calamandrei esalta il significato antifascista della Carta, ma mette l’accento sulla «parte della Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società. Perché – afferma – quando l’articolo 3 vi dice: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, riconosce con ciò che questi ostacoli oggi ci sono, di fatto, e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione! Un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani».
Nella terza parte Calamandrei ammonisce i suoi giovani uditori, ricordando che tutto dipende dal loro impegno: «Però, vedete, la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: lo lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno, in questa macchina, rimetterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere quelle promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo».
La prospettiva offerta nella quarta sezione del discorso è dunque quella di una vera e propria religione civile della Costituzione: «La Costituzione, vedete, è l’affermazione, scritta in questi articoli che dal punto di vista letterario non sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune: ché, se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. È la carta della propria libertà, la carta, per ciascuno di noi, della propria dignità d’uomo».
Questa appassionata apertura sul futuro, e questa sorta di pacifica e civilissima chiamata alle armi, si nutriva della consapevolezza di una legittimità della repubblica completamente diversa e altra rispetto a quella del Regno d’Italia dello Statuto albertino: a una lunga storia di civiltà (Calamandrei invoca Mazzini, Garibaldi, Cattaneo, Beccaria) si univa ora una legittimità dal basso che si fondava sulla libera scelta di chi aveva dedicato la propria vita alla liberazione dal nazifascismo. Ed è su questa nota altissima, legata alle vicende più brucianti dei padri e dei fratelli maggiori degli studenti che lo ascoltavano, che il discorso si chiude: «Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti! Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa Costituzione! Dietro ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, cha hanno dato la vita perché libertà e giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, è un testamento, è un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione».
In questo, come in altri suoi celebri interventi, Calamandrei è riuscito a costruire per la Resistenza una proiezione ideale, non astratta ma profondamente incarnata nel sangue e nella carne del paese: la Resistenza declinata al futuro è il cittadino a cui importa del bene comune, al punto di metterlo prima dell’interesse particolare. Il suo opposto è la Desistenza, come scrive genialmente Calamandrei, il cittadino a cui non interessa la sorte dello Stato: «Questo è l’indifferentismo alla politica: è così bello, è così comodo, la libertà c’è, si vive in regime di libertà, ci sono altre cose da fare che interessarsi di politica. Lo so anch’io. Il mondo è bello, vi sono tante belle cose da vedere e godere oltre che occuparsi di politica. E la politica non è una piacevole cosa». La politica per Calamandrei non è quella dei professionisti, che anzi egli indicherà come un serio pericolo, ma quella dei cittadini che si mettono al servizio dello Stato inteso come bene comune.
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La lacerante attualità di questa visione è determinata dal fatto che gli ultimi trent’anni (dal 1989 in poi) hanno visto i governi della repubblica (sia quelli di destra che quelli di sinistra) dedicarsi indifferentemente e indistinguibilmente al progressivo smontaggio del progetto della Costituzione: potremmo dire che c’è stata una Desistenza di Stato. La parte più colpita della Carta è proprio quella che Calamandrei riteneva il suo cuore. Il grande giurista assume nel discorso del 1955 una posizione decisamente sostanzialista: perché le affermazioni solenni dei princìpi fondamentali della Carta non siano solo altisonanti ipocrisie, bisogna «dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità d’uomini. Soltanto quando questo sarà raggiunto si potrà veramente affermare che la formula contenuta nell’articolo 1: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica, perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto un’uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messi a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società».
Il Discorso ha conosciuto una rinnovata fortuna in occasione delle campagne referendarie sulle riforme costituzionali di Berlusconi (2006) e Renzi (2016): ciò che forse si è meno compreso è che quei progetti (per fortuna respinti) di stravolgimento formale della Carta erano solo l’esplicitazione di un purtroppo efficacissimo svuotamento del progetto costituzionale, giocato proprio sul tema che Calamandrei riteneva fondamentale, quello dell’eguaglianza.
Anche la negazione dei princìpi fondamentali non solo attuata ma enunciata dal Matteo Salvini ministro dell’Interno (con toni esplicitamente fascistoidi) e la sostanziale indifferenza del Movimento 5 Stelle per il progetto sociale della Costituzione rappresentano in fondo non una novità radicale, ma un’ulteriore involuzione di un lungo processo di tradimento della Costituzione. È in gran parte un problema culturale, di educazione alla cittadinanza, di scolarizzazione democratica.
Non per caso questo meraviglioso discorso è rivolto agli studenti, e si apre con l’enunciazione dell’articolo 34, che dice: «I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». «Eh! E se non hanno mezzi?», commenta Calamandrei. «Allora nella nostra Costituzione», continua, «c’è un articolo [il 3] che è il più impegnativo, impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti».
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Oltre sessant’anni dopo le parole di Piero Calamandrei sono vive, urgenti, energetiche: sono capaci di farci sentire che l’amore per la Costituzione è amore per la costruzione di un’umanità giusta, è il progetto di un’altra Italia. E che la realizzazione di quel progetto, l’avvento di questa Italia diversa, direi opposta all’attuale, non dipende dallo stellone italico, dalla benevolenza degli dei o dalla qualità del ceto politico ma solo dalla nostra capacità di essere cittadini sovrani fino in fondo. È di vitale importanza che questa voce vivissima continui a dire ai ragazzi di ogni generazione che la Costituzione non è dalla parte dell’ingiusto e bestiale ordine costituito, non è dalla parte dello stato delle cose difeso dal Tina («There is no alternative») liberista, ma che, anzi, la Costituzione è dalla loro parte, e che come loro essa «dà un giudizio, la Costituzione! Un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale». Capire, sentire questo è la condizione essenziale per «metterci dentro il senso civico, la coscienza civica» per «renderci conto che ognuno di noi non è solo, non è solo».
http://temi.repubblica.it/micromega-online/iorestoacasa-e-leggo-un-classico-il-discorso-sulla-costituzione-di-piero-calamandrei-presentato-da-tomaso-montanari/