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mercoledì 17 giugno 2020

OSCAR FARINETTI E L’APOCALISSE “MA-TE-MA-TI-CA”. - Antonio Padellaro

Oscar Farinetti e l'apocalisse “ma-te-ma-ti-ca” – infosannio

Ogni volta che vedo in tv Oscar Farinetti, sempre così placido e conciliante, mi viene in mente quel vecchio Carosello con Ernesto Calindri che, seduto come al bar, in mezzo a un infernale ingorgo di auto, serenamente sorseggiava un famoso aperitivo “contro il logorio della vita moderna”. 
Così, l’altra sera, a Otto e mezzo, dopo che il professor Massimo Cacciari, con l’abituale leggerezza sturm und drang aveva predetto: “ci sveglieremo a settembre e sarà una tragedia”, abbiamo assistito, non senza sbigottimento, alla trasformazione in diretta dell’emolliente Oscar in un profetico Cacciari al cubo: “La crisi a settembre è ma-te-ma-ti-ca” (ogni sillaba, una fucilata). 

Nessuno intende prendere sottogamba le tensioni sociali innescate dal lungo lockdown, la disoccupazione incombente, la destra che soffia sul fuoco e le difficoltà nel trovare subito la montagna di soldi necessari (se va bene quelli promessi dall’Europa arriveranno nel 2021). Ma se davvero fossimo alla vigilia di un’esplosione incontenibile (e matematica) di rabbia, impossibile non chiedersi come mai nel dibattito degli Stati generali in corso a Roma, il tema dell’insurrezione non sia, urgentemente, all’ordine del giorno. Perché delle due l’una. O si tratta di un allarme condiviso dal governo e allora il premier Conte e la ministra dell’Interno Lamorgese ne dovrebbero dare conto alla pubblica opinione, illustrando le contromisure per evitare di ritrovarsi con le barricate per le strade, soprattutto al Sud. Se invece ci troviamo di fronte a un allarmismo ampiamente e artatamente esagerato dall’opposizione, a maggior ragione, i vertici delle istituzioni avrebbero il dovere di denunciarlo, in modo chiaro e forte. Esiste una terza ipotesi, contenuta nella celebre poesia Aspettando i barbari di Konstantinos Kavafis. Gli ultimi versi: “Si è fatta notte, e i barbari non sono più venuti. Taluni sono giunti dai confini, han detto che di barbari non ce ne sono più. E adesso senza i barbari, cosa sarà di noi? Era una soluzione quella gente”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/06/17/oscar-farinetti-e-lapocalisse-ma-te-ma-ti-ca/5837657/ 

sabato 21 settembre 2019

Un paraculo da Oscar. - Mario Giordano



Come faccia di tolla è da Oscar. Farinetti, grande difensore del cibo made in Italy, ha avuto infatti il coraggio di cedere l’ acqua minerale Lurisia, quella dell’ antica fonte termale di Roccaforte di Mondovì, alla Coca Cola. Niente meno. E come se non bastasse, subito dopo, ha avuto il coraggio di concedere un’ intervista in cui ha rivendicato con orgoglio l’ operazione.
Ha detto che lui non ha affatto «venduto l’anima al diavolo», perché questa è «una grande opportunità per l’Italia». Sicuro: vendere un prodotto tipico italiano alla Coca Cola è un’opportunità per l’Italia. Esattamente come vendere la Madonnina di Milano all’ emiro del Kuwait sarebbe una grande opportunità per il cristianesimo. Basta crederci.
E l’Oscar ci crede. O, almeno, fa finta di crederci. Lui è fatto così, le spara grosse e poi sorride, siccome ha il cuore a sinistra, gliele fanno passare tutte. La Coca Cola, garantisce, «salvaguarderà lo stile e le radici tricolori del marchio». In effetti, si sa: è proprio la caratteristica delle multinazionali quella di salvaguardare le radici e i prodotti locali. Sono nate per quello. Non fanno altro. E per dimostrarsi coerente fino in fondo con questa dichiarazione di amore per l’Italia (anzi per l’Eatalia), Farinetti conclude annunciando che i soldi che incasserà dalla vendita della Lurisia li investirà tutti.
Ma proprio tutti. Dove? Negli Stati Uniti, ovviamente.
L’impressione, alla fine della lettura, è che Oscar avrà pure venduto l’ acqua, ma gli è rimasto il vino. Californiano, probabilmente. In ogni caso ad alta gradazione di scemenze.
C’ è solo una cosa, infatti, peggiore di un sedicente difensore dei prodotti tipici italiani che vende uno dei suoi tesori alla Coca Cola: un sedicente difensore dei prodotti tipici italiani che vende uno dei suoi tesori alla Coca Cola e poi cerca di spiegarlo con un’ intervista a Repubblica. Soprattutto se cerca di convincerci che si tratta di «un ottimo segnale per il nostro Paese».
Ottimo segnale? Ora: va bene che in un Paese che crede a Eataly può credere a tutto, ma non bisogna esagerare. Esageruma nen, come diciamo noi piemontesi. Anche se forse ora Farinetti preferirebbe dire «don’ t push it», chiedendosi se c’ è qualche multinazionale pronta a comprarsi pure il dialetto.
Avrebbe potuto essere sincero, Oscar. Avrebbe potuto dire che l’ ha fatto per quegli 88 milioni (prezzo di vendita di Lurisia) che schifo di certo non fanno. Oppure avrebbe potuto scegliere il silenzio. Ma non ce la fa. È più forte di lui. Ama le luci della ribalta. E così s’ è avventurato su strade più scivolose dell’ olio (ovviamente tunisino).
Prima ha descritto la Coca Cola come una succursale delle Giovani marmotte (hanno «grande responsabilità sociale nei confronti dell’ ambiente e del pianeta e si muovono di conseguenza», ha detto, facendo venire il sospetto ad Atlanta comandi Greta Thunberg). Poi ha annunciato che tratterà ancora con le grandi multinazionali, cominciando a elogiare la Nestlè. E infine, il colpo di scena: ha detto infatti che userà tutti i soldi incassati dalla vendita di Lurisia per aprire sei negozi. Negli States. Quando si dice amare l’ Italia. Anzi, l’Eatalia.
Gli ex amici di Farinetti, quelli dello Slow food, Carlin Petrini & C., hanno subito preso le distanze dall’ Oscar delle multinazionali. Lurisia sponsorizzava gli eventi Slow food legati al territorio e ai prodotti tipici, ma la collaborazione è stata troncata di netto. «Non condividiamo questa filosofia», hanno tagliato corto.
Ma Oscar se ne fa un baffo: «Siederanno anche loro al tavolo con la Coca Cola», ha profetizzato nell’ intervista. Del resto non è la prima volta che viene accusato dai suoi compagni di cordata di tradimento: tre anni fa, la cooperativa rossa Novacoop cedette tutte le quote che aveva da sempre in Eataly, imputando a quest’ ultimo di essere «diventato un supermercato come tutti gli altri». Farinetti non si è lasciato deprimere.
Dopo aver chiuso l’ ultimo bilancio in rosso (17 milioni di euro), infatti in nome del cibo italiano s’ è messo alla ricerca di un nuovo socio. Cinese, ovviamente. La coerenza, del resto, per lui è sempre stata un optional.
Quando Roberto Maroni si candidò per la Regione Lombardia disse: «Se vince lui non aprirò Eataly a Milano». Maroni vinse e lui aprì Eataly a Milano. «Diventerò amico del governatore», giurò. Poi preferì diventare amico di Renzi, anche perché si avvicinava la stagione dell’ Expo, dove la fece da padrone. Quando però Renzi è caduto in disgrazia, Farinetti s’ è scoperto improvvisamente fan di Zingaretti, salvo tornare prontamente renziano ai primi vagiti di riscossa di quest’ ultimo. In ogni caso, per non sbagliare, è andato in Sardegna con Flavio Briatore, per salvare il pecorino della Barbagia (lo venderanno alla Monsanto? O alla Dow Chemical? Sempre per il bene dell’ Italia, s’ intende).
E ha scritto pure un libro con Piergiorgio Odifreddi (Dialogo fra un cinico e un sognatore), leggendo il quale, chissà perché, tutti hanno pensato che lo scienziato Odifreddi fosse diventato all’ improvviso un sognatore. Ovviamente, essendo molto di sinistra, Farinetti ha una casa a Saint Tropez (proletari di tutto il mondo, unitevi a Brigitte Bardot), ha fatto il condono (e chi non lo fa?) ed è stato accusato dai sindacati di sfruttare lavoratori e precari.
Lui non s’ è lasciato intimidire e ha aperto Fico, un super Eataly a Bologna senza incontrare troppo successo («la Disneyworld del cibo», scrisse Der Spiegel; «un megamarket in stile americano», scrisse il Guardian). «Mi rottamo da solo, lascio tutti gli incarichi in azienda», giurò alla stampa nel 2015. E invece eccolo ancora lì, che compra e vende (soprattutto vende) e giustifica la Coca Cola. Figlio di un partigiano, dice che ama molto la Resistenza. Lui, però, non sa resistere molto. Soprattutto alle telecamere. E alle lusinghe dei soldi. Perciò ha scelto di sventolare bandiera rossa.

Quella della Coca Cola, ovviamente.

https://infosannio.wordpress.com/2019/09/21/un-paraculo-da-oscar/

venerdì 12 luglio 2019

EATALY PANATA E FRITTA - Carlo Cambi "la Verità"





La frase è di Henry Ford, ma lui intervistato da Stefano Lorenzetto per il Corsera se l’ è attribuita. Si parla di galline che hanno inventato il marketing perché quando depongono starnazzano e così tutto il mondo mangia le loro uova. Natale, detto Oscar, Farinetti l’ha un po’ aggiustata e fatta sua: forse pensava alle uova d’oro che doveva dargli Eataly e che invece non brillano. Nelle magnifiche sorti e progressive dell’ impero della salamella buona, pulita e giusta – concetto preso a prestito, stavolta da Carlo Petrini di Slow Food – c’ è un’ altra battuta d’ arresto. L’ha scoperta Mf-Milanofinanza.

Con un articolo di Andrea Montanari ha fatto luce sul bilancio 2018 di Eataly che ha perso 17,1 milioni di euro. L’ordine è di non farlo sapere, le conseguenze sono: niente quotazione in Borsa sempre annunciata e mai praticata e ricerca, ora un po’ più urgente, di uno – magari cinese – che ci metta i soldi. Quell’ uno potrebbe essere Jack Ma del colosso dell’ ecommerce Alibaba oppure un fondo immobiliare cinese che da tempo si evoca per Fico Eatalyworld, la Disneyland al ragù aperta a Bologna dalla compagnia di Farinetti sui terreni del Comune, di cui non si riesce a capire se sia un successo o un flop.

Resta il fatto che il 2018 per i soci di minoranza di Eataly è pesante. Natale Farinetti detto Oscar, che ha ceduto il timone ai figli e all’ amministratore delegato Andrea Guerra, invece in passato i dividendi se li è comunque assegnati. Come andrà quest’ anno è top secret: la finanziaria della famiglia Farinetti che ha la maggioranza di Eataly tace. Tutto il contrario di Natale Oscar che arringa le folle dai talk televisivi. Da alcuni anni va dicendo che l’ approdo naturale di Eataly è la quotazione in Borsa. Lo ha ribadito due anni fa a Taormina. Ma con questi conti è abbastanza difficile e lui stesso ha dato il contrordine compagni: non c’ è fretta.

È la terza volta che la bottega di famiglia si affaccia a Piazza Affari per poi rinculare. Andrea Guerra – manager già a capo di Luxottica, era il consigliere strategico di Palazzo Chigi quando nel 2016 venne invitato a occuparsi di robiole – arrivato a capo di Eataly via Matteo Renzi ha subito assunto lo stile della casa: aveva promesso nel 2016 (altro bilancio in rosso) che il fatturato del pane e salame sarebbe arrivato a 1 miliardo in tre anni. Non è successo, ma che gli fa. L’ anno scorso il giro d’ affari è stato di 532 milioni (+14% rispetto al 2017), ma un po’ lontano dall’ obbiettivo.

Se i conti vanno così è probabile che i soci di minoranza, dal Clubitaly di Giovanni Tamburi alla coppia storica Baffigo-Mirolglio, comincino a premere. All’ orizzonte si fa sempre più concreta la possibilità di cessione di parte del capitale a un socio di preferenza cinese. Ma nel caso vendono i soci di minoranza o i Farinetti?

Ci sono indizi su entrambi i fronti. Nei conti non brillanti dell’ ultimo esercizio, rivelati da Milanofinanza, ci sono alcune particolarità. Le banche di solito sparagnine nel prestare soldi a Eataly che nel corso dell’ esercizio fa dimagrire il patrimonio (da 65,37 a 50,92 milioni in un anno) hanno concesso ulteriori crediti per 21,65 milioni il che fa salire l’indebitamento verso le banche a 96,3 milioni. Poi ci sono i debiti verso i fornitori che storicamente sono cospicui.

Nel bilancio il management scrive che continua la strategia di espansione: altri punti vendita da Toronto a Parigi, da Verona a Dallas, da Londra a San Josè. Ma anche che si sono fatti ammortamenti consistenti (26 milioni, più 5 rispetto all’anno scorso) e che i costi sono lievitati a 545 milioni con una redditività in calo (l’ Ebitda rettificato a 21,21 milioni negativo rispetto al 2017 per il 16%), per cui è necessario abbassarli. Bisogna, scrivono in bilancio, ottimizzare i costi d’ acquisto agendo su contratti di fornitura globali, diminuire i costi del negozio, razionalizzare stock e logistica. Insomma chi lavora con e per Eataly potrebbe dover pagare una parte del conto.

Giovanni Tamburi (Tip), al quale Farinetti ha ceduto nel 2014 il 20% di Eataly per 120 milioni, non sembra più così soddisfatto dell’ investimento anche dopo che con un cambiamento di statuto Eataly ha concentrato la linea di comando su Guerra e i tre figli di Natale Oscar. Tamburi a fronte dei conti 2018 ha detto: «La redditività non è soddisfacente, i numeri non sono quelli previsti tra nuove aperture e investimenti mostruosi. La quotazione resta un obiettivo, ma ci sono alternative, ad esempio soluzioni ponte, molti fondi si sono affacciati».

Tradotto: forse vendiamo un pezzo. Ma Natale Farinetti detto Oscar sempre in quella chiacchierata con il Corriere fa sapere che il progetto Green Pea, e cioè vendere auto elettriche, energie pulite in una «casa» costruita con gli alberi abbattuti dal tifone dolomitico, è il suo nuovo impegno. Lui tenta un altro Oscar tornando all’ elettricità – i soldi li ha fatti con Unieuro – ma stavolta «buona, pulita e giusta».