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mercoledì 29 aprile 2020

La salute è un bene comune globale. - Vittorio Pelligra

(Getty Images)

Siamo passati molto velocemente, negli ultimi decenni, da una situazione nella quale lo stato di salute del singolo era una faccenda puramente privata, o al massimo familiare, alla consapevolezza che, invece, la salute individuale è una faccenda sociale.

Questi mesi di pandemia sono, per tanti versi, mesi di rivelazione. L'unicità e la tragicità dell'esperienza che, insieme, stiamo vivendo, produce come un affinamento dei sensi che ci aiuta a cogliere aspetti fondamentali della nostra vita che, nella normalità dei tempi, passavano, nel migliore dei casi, inosservati.

Uno di questi aspetti riguarda certamente la presa di coscienza del fatto che la salute, quella di ciascuno di noi, non possa essere pensata come un bene privato, come una faccenda individuale, ma abbia, piuttosto, tutte le caratteristiche di un bene comune, di un bene comune globale. Gli economisti tendono a classificare i beni sulla base dell'intensità con cui posseggono due caratteristiche: l'”escludibilità” e la “rivalità”. I beni altamente escludibili sono quelli dal cui godimento è relativamente semplice ed agevole escludere gli altri. Se mi compro una pizza, posso facilmente e legittimamente impedire a qualcun altro di mangiarsela; al contrario, se illumino la strada di fronte a casa mia, non posso facilmente impedire al mio vicino di godere della stessa illuminazione.

La seconda dimensione è quella della “rivalità”. I beni rivali sono, tipicamente, quelli che si consumano con l'uso. La pizza, una volta mangiata, non può nuovamente essere mangiata né da me, né da nessun altro. Al contrario, il fatto che il mio vicino goda dell'illuminazione notturna, non impedisce a me di fare lo stesso. L'illuminazione non è rivale.

L'elevata escludibilità e la rivalità sono le caratteristiche definitorie dei beni privati. Al polo opposto stanno quei beni che sono, invece, non-escludibili e non-rivali. Questi sono i cosiddetti beni pubblici. Un parco cittadino, per esempio; in tempi normali non si può legittimamente impedire a qualcuno di fare una passeggiata in quel parco o di goderne della vista rilassante e, allo stesso tempo, il fatto che qualcuno usufruisca di quel bene, non impedisce ad altri di fare lo stesso.

Il bene pubblico non si consuma, non è rivale. Sono beni simili, in tempi normali, la scuola, l'amministrazione della giustizia, la sanità, la libera stampa, la qualità del dibattito pubblico, solo per fare qualche esempio. A metà tra i beni pubblici e quelli privati, troviamo i beni comuni, quei beni, cioè, che sono, non-escludibili, ma rivali. Beni dal cui godimento non è possibile escludere nessuno, ma che, allo stesso tempo, con l'uso, si consumano. Questi beni sono particolarmente importanti, non solo perché la qualità della nostra vita dipende in maniera crescente dai beni comuni – un esempio per tutti, la qualità ambientale - ma anche perché questi sono particolarmente fragili.

Nel 1968 Garrett Hardin pubblicò su “Science” un articolo significativamente intitolato “The Tragedy of the Commons” (La tragedia dei beni comuni) nel quale metteva in luce un paradosso che emerge nella gestione di questi beni. Hardin utilizza l'esempio di un terreno comune dove un gruppo di allevatori possono portare il bestiame al pascolo. Ogni allevatore avrà interesse a far pascolare, ogni giorno, il maggior numero di capi di bestiame in modo da ricavarne il massimo beneficio per sé, tenendo conto del fatto che i costi associati a questo comportamento (il consumo del pascolo) verranno, per così dire, socializzati, cioè divisi tra tutti gli altri allevatori. Abbiamo, quindi, da un punto di vista individuale, alti benefici e bassi costi, il che indurrà ogni allevatore a sfruttare al massimo il pascolo. Questa scelta, benché ottimale da un punto di vista individuale, quando messa in atto da tutti gli altri allevatori (il bene è non-escludibile), determinerà un sovrasfruttamento del bene fino alla sua stessa distruzione. «L'essenza della tragedia – scrive Hardin nel giustificare il titolo del suo articolo – non è l'infelicità. Essa risiede, piuttosto, nella solennità dell'impietoso funzionamento delle cose (…) nell'inevitabilità del destino e nella futilità di ogni tentativo di sfuggirvi».

La radice del paradosso che emerge dalla logica dei beni comuni ha a che fare con il conflitto tra la razionalità autointeressata e l'irrazionalità dei suoi esiti: è proprio il perseguimento razionale dell'interesse individuale a produrre il risultato peggiore dal punto di vista sia collettivo che individuale. Il “self-interest” è “self-defeating”; l'auto-interesse, in quest'ambito, distrugge se stesso.

La prima implicazione di questo discorso riguarda il fatto che i beni comuni sono per loro natura fragili e che, quindi, vanno attivamente protetti e tutelati. Se non proteggiamo attivamente l'ambiente questo, naturalmente, verrà sovra-sfruttato e distrutto. Le risposte tradizionali a questo problema hanno, storicamente, puntato verso due direzioni opposte ma complementari: la privatizzazione e la statalizzazione. Le difficoltà nel preservare i beni comuni possono essere eliminate nel momento in cui la proprietà comune diventa proprietà privata o, all'opposto, pubblica. Nel primo caso interesse privato e interesse sociale si allineano, semplicemente perché la dimensione sociale viene eliminata; nel secondo caso, invece, l'interesse privato viene tutelato attraverso una limitazione della libertà individuale ad opera di un potere superiore, lo Stato appunto.

Nel contesto della società globalizzata nella quale oggi viviamo, le soluzioni tradizionali mostrano i loro limiti perché si sta trasformando la natura stessa dei beni comuni, i più importanti dei quali hanno assunto una dimensione globale.

Nel contesto della società globalizzata nella quale oggi viviamo, queste soluzioni tradizionali, mostrano, però, i loro limiti, in particolare, perché si sta trasformando la natura stessa dei beni comuni, i più importanti dei quali hanno assunto una dimensione globale. I global commons, i beni comuni globali, sono quei beni comuni il cui effetto si dispiega oltre i limiti dei confini nazionali. Proviamo a pensare all'acqua del fiume Nilo. Dalla sua disponibilità e qualità dipende la vita di milioni di persone in tutti gli otto stati che il fiume attraversa. Ognuno di questi paesi ha un incentivo, nello spirito tragico evidenziato da Hardin, a sovra-sfruttare quella risorsa per ottenere maggiori benefici a danno degli altri e nessuna di queste spinte appropriative potrà mai essere limitata e regolamentata dall'intervento di una singola legislazione nazionale. Dal Nilo all'atmosfera, alle grandi foreste, agli oceani, nessuno di questi global commons potrà, quindi, essere tutelato adeguatamente usando gli strumenti del mercato o quelli delle autorità nazionali.

Siamo passati molto velocemente, negli ultimi decenni, da una situazione nella quale lo stato di salute del singolo era una faccenda puramente privata, o al massimo familiare, alla consapevolezza che, invece, la salute individuale è una faccenda sociale. Se mio figlio è immunodepresso e va a scuola con un compagno non vaccinato, vuol dire che i genitori si stanno comportando come gli allevatori egoisti di Hardin, stanno cercando di ottenere i massimi benefici individuali facendo ricadere i costi su tutti gli altri, senza rendersi conto, però, che tra “gli altri” ci sono anche loro. Da qui la necessità di un intervento legislativo a tutela della salute pubblica.

Oggi l'epidemia ci fa compiere un ulteriore passo, mostrandoci come la salute abbia, in realtà, tutte le caratteristiche di un bene comune e di un bene comune globale.

Oggi l'epidemia ci fa compiere un ulteriore passo, mostrandoci come la salute abbia, in realtà, tutte le caratteristiche di un bene comune e di un bene comune globale. Una questione tutt'altro che privata, dunque. Non basta cioè tutelare la salute dei cittadini all'interno dei confini nazionali, perché, con il livello di permeabilità delle nostre frontiere ai sacrosanti movimenti di persone, o siamo tutti al sicuro o nessuno è al sicuro. Lo diceva Papa Francesco qualche giorno fa: “Nessuno si salva da solo”. Lo ha scritto Garrett Hardin qualche decennio prima a proposito della sua etica della scialuppa di salvataggio (lifeboat ethics). E allora va benissimo se le misure di distanziamento sociale in Italia hanno appiattito la curva dei contagi al punto da non superare la soglia critica della disponibilità dei letti in terapia intensiva.

Ma questa soglia, in Italia, è pari a 12.5 letti ogni 100.000 abitanti, in Inghilterra a 6.6, ma nelle Filippine è 2.2, e in Bangladesh 0.7 letti ogni 100.000 abitanti. L'accesso alle strutture sanitarie, così come alle terapie farmacologiche e, in un futuro che speriamo non troppo remoto, al vaccino, non è garantito a tutti nello stesso modo. Il virus non è affatto democratico, così come qualcuno ancora si ostina a scrivere. I costi della pandemia non sono distribuiti in maniera equa e gli impatti futuri saranno più forti per i più fragili e vulnerabili, siano essi individui o paesi. Ma qui sta il punto vero della questione. Quei paesi che avranno subito un impatto più ridotto, che avranno potuto garantire ai propri cittadini livelli di protezione maggiore, che potranno ripartire prima, continueranno, comunque, ad essere esposti al rischio di un contagio di ritorno e all'apparire di nuovi focolai in misura proporzionale alla protezione ottenuta, non tanto e non solo dai loro cittadini, ma dai cittadini dei paesi meno protetti. Come la forza complessiva di una catena è determinata dalla forza del suo anello più debole, così anche l'efficacia del sistema di protezione sanitario mondiale è definito dalla qualità della protezione garantita ai più deboli. L'utopia di vivere in un mondo globalizzato, ma chiusi dentro confini nazionali, si scontra con la realtà tragica dei fatti e non basteranno le mascherine a mascherare quei volti che da troppo tempo non vogliamo guardare. Così come l'”alluvione razzista” che devastò New Orleans a seguito dell'uragano Katrina, innescò, nel 2005, una catarsi sociale che portò allo sviluppo del movimento mondiale per la “global climate justice”, forse anche da questa pandemia potrà scaturire del bene come effetto collaterale del male.

Il virus non è affatto democratico, così come qualcuno ancora si ostina a scrivere. I costi della pandemia non sono distribuiti in maniera equa e gli impatti futuri saranno più forti per i più fragili e vulnerabili, siano essi individui o paesi.

Lo shock antropologico che stiamo sperimentando lascerà segni indelebili nelle nostre coscienze e nella nostra memoria che cambieranno radicalmente il modo in cui penseremo il futuro. Potrà forse essere un'occasione, un esempio di quel “catastrofismo empancipatorio”, per usare l'efficace espressione di Ulrich Beck, grazie alla quale, forse, ripensare le condizioni della nostra vita in comune, del nostro agire sociale, all'interno di un nuovo orizzonte di fraternità.

L'emergere di un nuovo orizzonte normativo e perfino istituzionale non è, certamente, un processo automatico, ma dev'essere sostenuto da un lavoro culturale e trasformativo nel quale il principio dimenticato della Rivoluzione Francese, potrà, forse, esercitare un'azione catalizzatrice. Ancora questa pandemia ci insegna che mentre una distribuzione dei beni, anche fortemente diseguale, è perfettamente compatibile con il nostro attuale sistema geopolitico ed economico, perché incentrata sulle unità politiche nazionali, la distribuzione dei mali, può essere colta solo con uno sguardo cosmopolita. E allora, con questo sguardo, il panorama che si contempla è davvero sconsolante. L'epidemia ci aiuta a ragionare oltre la prospettiva nazionale, perché è vero che ogni paese sta vivendo storie parzialmente differenti, ma tutte dentro la stessa vicenda globale, che ci accomuna e che ci fa cogliere, in maniera inedita, la dimensione della nostra interdipendenza. Il virus (ri)guarda tutti. In questa condizione di rischio e precarietà, allora diventa ancora più forte la convinzione espressa sempre da Ulrich Beck secondo cui viviamo una metamorfosi “che fino a ieri era impensabile e che oggi è diventata reale e possibile”.

lunedì 19 novembre 2018

Filippine /2 – Qui dove la povertà rende invisibili. - Francesca Borri

Filippine /2 – Qui dove la povertà rende invisibili

Via via, Manila si sgretola. Letteralmente. Andando verso la periferia, le case diventano sempre più scalcinate, i muri marci. E poi ferro e amianto, invece che cemento e mattoni, e poi pannelli di compensato, e poi rifugi di fortuna.E poi Tondo. Che è il più esteso slum di Manila, ha 600mila abitanti. E questi tuguri che non sono neppure costruzioni di lamiera e iuta come nei campi profughi: sono assemblati di materiali di ogni tipo, non c’è parete che sia un pezzo unico. Pile di cassette della frutta, di bottiglie di plastica, segnali stradali, travi e pali e tubi. Un ritaglio di prato sintetico. Un trancio di cisterna. Non hanno stanze. Spazi regolari. Intravedi solo delle cavità buie e umide. Sono spazi senza logica apparente, a due piani in un certo senso, o comunque con un sotto e un sopra: ed è tutto così confuso, così promiscuo che all’inizio vedi degli abiti in fila su delle grucce, e pensi siano in vendita, pensi sia un negozio, e invece è il bucato steso ad asciugare, vedi tavoli e piatti e gente che viene e che va, e ti siedi e ordini del riso anche tu – e invece non è un ristorante, è una cucina.
Padre Carlo, missionario canossiano originario della provincia di Treviso, vive qui da oltre 30 anni. E nella sua chiesa di san Paolo apostolo, l’unico luogo di ritrovo di Tondo, organizza tutto l’organizzabile. Perché Manila ha un sindaco, sì, ha un’amministrazione comunale. Ma ha 22,7 milioni di abitanti, 16 distretti e 897 barangay, che sono un po’ l’equivalente delle nostre circoscrizioni: e sostanzialmente, ognuno si arrangia come può. Ogni barangay, ma anche ogni famiglia. Chi abita a Tondo è troppo povero per emigrare. Non ha lauree, diplomi. E l’emigrazione nelle Filippine è regolamentata dallo Stato, gestita da agenzie di collocamento che selezionano solo lavoratori qualificati. Si vive di rimesse dall’estero, qui. O più spesso, di furti e spaccio. O si fruga nella spazzatura.
Appena ti addentri un po’ non c’è più l’asfalto, e tanti girano scalzi nella melma fino alla caviglie. Tondo è anche una delle discariche di Manila, una delle più tossiche, una delle più scenografiche, la preferita dai turisti in cerca di miseria e folklore, si vive senza acqua, qui, senza fogna, senza niente, al più con un allaccio abusivo alla rete elettrica: e questa è la Tondo dei ricchi. 
La Tondo vera inizia un metro più sotto. E infatti è praticamente a filo d’acqua, in bilico su palafitte marce. Siamo sulla baia di Manila, e c’è questa specie di cunicolo che fende dritto un cumulo indistinto di persone, cose, animali, in un tanfo così denso che a tratti vomiti. La pioggia, qui, non allaga: sommerge. Le Filippine producono solo lo 0,3%delle emissioni mondiali di anidride carbonica, il 20,9% arriva dagli Stati Uniti: ma sono uno dei Paesi più esposti al cambiamento climatico. Nei prossimi anni, saranno colpite 703 città su un totale di 1610.
Già ora, a Tondo nella stagione dei monsoni si sta in acqua. Anche se in realtà il mare, a Tondo, sembra più una palude. Una palude in cui galleggia di tutto. E la sponda di fronte è una fila di depositi di carbone. Con il vento, si ricopre tutto di polvere nera, qui. Un occidentale, vaccini e tutto, non potrebbe sopravvivere: nessuno di noi ha più difese immunitarie per luoghi così. Luoghi in cui si muore ancora di tubercolosi. Ma padre Carlo non si scompone. L’Africa, dice, è molto più dura. “In Africa non hai spazzatura. Perché non hai niente da gettare via”.
Stare a Tondo non è semplice, dice padre Graziano, che è qui da pochi mesi. Con la sua immensità, intesa come immensità di spazio, di popolazione, ma anche di problemi, Tondo ti fa sentire inadeguato, dice. Inadeguato, e al fondo irrilevante. Ma forse l’errore è proprio questo, dice. Venire qui un po’ come dei professionisti dell’aiuto: e avere un approccio solo tecnico alla povertà. Perché se vieni qui per combattere la povertà, finisci travolto. Ma in fondo, dice, la cosa più feroce della povertà non è tanto la privazione materiale, quanto l’emarginazione, l’invisibilità. L’essere nulla, più che il non avere nulla. E quindi, dice, è importante lasciare una moneta, sì, ma è ancora più importante fermarsi a parlare con un mendicante: e a parlare da pari a pari, un po’ come insegnava don Tonino Bello quando diceva: non è questione di organizzare mense, ma di aggiungere posti a tavola. “Includendo gli altri nella tua vita. Condividendo con loro quanto hai di più prezioso: il tempo. Perché solo un uomo a cui dai tempo, è un uomo a cui dai davvero valore”.
Fonte: ilfattoquotidiano del 18.11.2018

Ma, Papa Francesco queste cose le sa?
E se le sa, che fa?
Continua a vivere e far vivere nel lusso i suoi subalterni cardinali e vescovi e preti....e tutti quelli che gli ruotano intorno? E, magari, spera anche che noi continuiamo a credere in ciò in cui vorrebbero farci credere?

mercoledì 21 ottobre 2015

Tifone nelle Filippine, 35 morti e mezzo milione di sfollati.

Tifone nelle Filippine, 35 morti e mezzo milione di sfollati


E' salito a 35 morti il bilancio delle vittime del tifone Koppu che negli ultimi giorni ha colpito il nord delle Filippine. 
Lo riferiscono le autorità locali, aggiungendo che sono quasi mezzo milione gli sfollati
I decessi per la maggior parte sono avvenuti a causa delle inondazioni, con l'acqua che in alcune zone hanno raggiunto i tetti delle abitazioni. Altri sono rimasti sepolti nelle frane o colpiti da alberi sradicati o pareti crollate. Diversi i dispersi, con oltre 500.000 persone complessivamente colpite.

Secondo l'ufficio meteorologico nazionale Koppu, indebolito ora a depressione tropicale, si muove verso nord-est a 6 chilometri all'ora e non lascerà il paese fino all'inizio della prossima settimana. Nel suo passaggio il tifone ha distrutto le coltivazioni del riso ed ha causato danni all'agricoltura e alle infrastrutture per un valore di almeno 6,56 miliardi di pesos (142,60 milioni di dollari).

lunedì 11 novembre 2013

Filippine distrutte dal tifone Haiyan: oltre diecimila morti. Scattano i saccheggi.


Supertifone, Filippine devastate da Haiyan. La polizia: “Almeno 10mila morti”

Roma - (Adnkronos/Ign) - Il bilancio delle autorità locali: la maggior parte delle vittime nella provincia di Leyte. Ma ci sono migliaia di dispersi. L’allarme si sposta in Vietnam e in Cina. Venti sostenuti di oltre 235 chilometri l'ora e raffiche fino a 275 (VIDEO 1 -2). Il reporter eroe (VIDEO).Papa: "Profondo dolore"Il tifone che deve il suo nome alla procellaria
Roma , 10 nov. (Adnkronos/ Ign) - Filippine devastate dal passaggio di Haiyan, uno dei tifoni più violenti degli ultimi decenni. Praticamente rasa al suolo la provincia di Leyte, dove secondo le autorità locali siconterebbero 10 mila vittime.
Il bilancio ufficiale diffuso da Manila parla al momento di 552 morti, un numero destinato sicuramente ad aumentare. Altre centinaia di vittime sono state identificate nella vicina Samar e sono migliaia i dispersi. Diversi inoltre i centri abitati e le città costiere che non sono ancora stati raggiunti dai soccorritori.
'Haiyan' ha messo fuori uso la rete elettrica, interrotto le comunicazioni, danneggiato gli aeroporti, bloccato le strade, rendendo più complicato il lavoro delle squadre di soccorso. "Non disperate, gli aiuti stanno arrivando", ha promesso oggi il presidente Benigno Aquino durante una visita a Tacloban. Aquino, che non ha confermato la cifra dei 10mila morti diffusa dalle autorità locali, ha poi parlato di "cifre allarmanti, ma la nostra priorità sono i superstiti".
Tutta la provincia di Leyte è nel caos con centinaia di persone disperate che si sono date ai saccheggi per procurarsi cibo, medicinali ed altri generi di prima necessita. E' stato assaltato e saccheggiato anche un convoglio di camion carichi di aiuti che si trovava a 20 chilometri da Tacloban, ha reso noto il capo della Croce Rossa, Richard Gordon.
Secondo il National Disaster Risk Reduction and Management Council (Ndrrmc), le famiglie colpite sono 944.586, pari a 4,28 milioni di persone. Mentre l'Unicef rileva che più del 40% dei quattro milioni di persone coinvolte sono bambini e ragazzi sotto i 18 anni di età. In particolare sono circa 1,7 milioni i piccoli sopravvissuti nelle zone colpite dall'emergenza "Le priorità dell'Unicef sono focalizzate su interventi salva-vita - spiega il Rappresentante Unicef nelle Filippine Tomoo Hozumi - la fornitura di farmaci essenziali e forniture alimentari, acqua potabile, kit igienici per bambini e famiglie. Questo non è il primo disastro naturale a colpire di recente le Filippine, considerato il terremoto a Bohol di tre settimane fa; quindi sappiamo quanto sia importante raggiungere i bambini in fretta".
La tempesta, che nel passaggio attraverso il Mar cinese meridionale si è indebolita, ora si sta dirigendo verso il Vietnam dove 500mila persone sono state evacuate. Circa la metà di loro sono potute rientrare nelle loro abitazioni nella provincia di Quang Nam. Secondo la Croce Rossa, il tifone è diretto verso la provincia di Thanh Hoa, 170 chilometri circa a sud di Hanoi.
Per quanto riguarda l'eventuale presenza di italiani, l'ambasciatore italiano a Manila, Massimo Roscigno, assicura all'Adnkronos che "fortunatamente non abbiamo cattive notizie riguardanti i nostri connazionali,non risulta confermato nessun italiano tra le vittime né coinvolto pesantemente da questo dramma". "Qualche italiano di passaggio è rimasto bloccato perché i collegamenti aerei sono interrotti in alcuni aeroporti. Sappiamo di un solo connazionale residente nella zona colpita, a Tacloban city - spiega poi l'ambasciatore - ancora non siamo riusciti a contattarlo anche perché la zona è completamente isolata ma le autorità locali ci hanno detto che al momento nessuno straniero risulta tra le vittime. C'è poi qualche connazionale nell'isola di Boracay e siccome l'aeroporto che serve Boracay è chiuso non sono in grado di rientrare. Comunque non sappiamo esattamente quanti sono ma sappiamo che stanno bene".

http://www.adnkronos.com/IGN/News/Esteri/Filippine-distrutte-dal-tifone-Haiyan-oltre-diecimila-morti-Scattano-i-saccheggi_32844744244.html