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sabato 29 febbraio 2020

Thomas Fazi: il filo dell’analisi di classe scorre da Marx alla MMT.


Risultato immagini per Thomas Fazi
Thomas Fazi e Bill Mitchell

La Modern Monetary Theory, o MMT, è una scuola economica fondata dall’economista statunitense Warren Mosler e dall’economista australiano Bill Mitchell. Con quest’ultimo, Thomas Fazi ha scritto il volume “Sovranità o barbarie” edito da Meltemi Editore. Giornalista, saggista e traduttore, oltre a essere annoverato fra i più importanti divulgatori della MMT nel nostro Paese, Fazi gestisce un proprio sito web e sta scrivendo un nuovo libro insieme a Mitchell.
SOLLEVARE IL VELO IDEOLOGICO
Lei è uno dei massimi esperti della MMT in Italia. Che legami ha questa teoria economica con il marxismo e la ritiene la chiave per rilanciare l’economia italiana? 
Anzitutto ci tengo a precisare di ritenermi, più che un esperto della MMT, un mero divulgatore della MMT baciato dalla fortuna di aver conosciuto e di poter lavorare a stretto contatto con uno dei fondatori della teoria in questione, Bill Mitchell – lui sì un vero esperto – e dunque di potersi abbeverare direttamente alla fonte del sapere, per così dire! Fatta questa doverosa premessa, possiamo continuare.
A prima vista i legami tra la MMT e la teoria marxista potrebbe apparire piuttosto deboli. Quest’ultima si occupa soprattutto dei rapporti interni al mondo della produzione, mentre la MMT si occupa soprattutto dei rapporti tra la sfera della produzione e quella delle politiche economiche e, in particolare, delle politiche di bilancio. In questo senso, la MMT ha un rapporto molto più stretto con la teoria keynesiana e soprattutto post-keynesiana, di cui rappresenta per certi versi un’evoluzione. Se analizziamo la questione più a fondo, però, emergono diversi punti di contatto con la teoria marxista.
La MMT mostra infatti come i rapporti di forza interni al mondo della produzione (quelli, cioè, che intercorrono tra capitale e lavoro) siano una diretta conseguenza delle politiche economiche, nella misura in cui sono queste ultime a determinare (tra le altre cose) il tasso di occupazione e dunque il potere contrattuale delle classi lavoratrici. L’analisi della MMT è dunque implicitamente un’analisi di classe e sotto certi aspetti lo stesso si potrebbe dire per gli stessi motivi anche della teoria (post-)keynesiana, a prescindere dagli usi e abusi che sono stati fatti nel corso della storia in merito a tale teoria. La stessa proposta, sostenuta dai teorici della MMT, del Lavoro Garantito (Job Guarantee) secondo cui lo Stato si farebbe carico di offrire un lavoro retribuito a chiunque ne voglia uno, sebbene formalmente sia finalizzata al controllo dell’inflazione, in realtà nasce proprio dalla consapevolezza dello squilibrio strutturale esistente tra lavoratori e capitalisti. I capitalisti possono permettersi di non assumere un lavoratore. Tuttavia un lavoratore (un proletario, si sarebbe detto un tempo), in assenza d’interventi pubblici “correttivi”, è di fatto costretto a vendere la propria forza-lavoro sul mercato, alle condizioni dettate da quest’ultimo. Togliere questo potere di ricatto ai capitalisti, garantendo ai lavoratori un impiego nel settore pubblico, aumenterebbe enormemente il potere contrattuale de lavoratori. Ciò detto, affibbiare un preciso orientamento alla MMT sarebbe sbagliato, nella misura in cui essa è una teoria descrittiva e non prescrittiva.
Sarebbe a dire che essa mostra come funzionano effettivamente i moderni sistemi monetari e quali sono le reali opzioni a portata di mano dei governi che dispongono della sovranità monetaria (e, per converso, quali sono i limiti dei governi che non ne dispongono). Potremmo dire che, così come Karl Marx ha sollevato il velo ideologico neoclassico per disvelare la realtà dei rapporti capitalistici di proprietà e di produzione, la MMT solleva il velo ideologico neoliberale per disvelare la realtà dei moderni sistemi monetari (e i vincoli autoimposti utilizzati per mascherare questa realtà e come questi influenzino i suddetti di proprietà e di produzione ovverosia i rapporti di classe: basti pensare all’importanza dell’ideologia della scarsità del denaro nel far accettare le politiche di austerità alle masse). Tale comprensione può poi essere messa al servizio degli obiettivi più disparati, tanto di matrice liberista (come è spesso il caso: vedasi i governi che se ne infischiano del deficit pubblico quando si tratta di regalare soldi alle banche o tagliare le tasse ai ricchi) quanto di matrice socialista. Tuttavia non c’è alcun dubbio, per quanto mi riguarda, che l’implementazione di un programma socialista (o anche solo moderatamente socialdemocratico) non possa prescindere dalla comprensione dei moderni sistemi monetari – e dell’importanza del controllo della valuta – offerta dalla MMT.
In breve, se mi passate una battuta (ma neanche troppo), non è pensabile prendere possesso dei mezzi di produzione senza prendere possesso anche dei mezzi di produzione della moneta. Per quanto riguarda l’Italia, il pregio principale della MMT consiste nel mostrare come il recupero della sovranità monetaria sia una condizione assolutamente essenziale per rilanciare l’economia (rilancio che richiederebbe uno stimolo fiscale assolutamente irrealizzabile senza disporre del controllo della leva monetaria) ma soprattutto, da una prospettiva progressiva, per rilanciare l’occupazione e il welfare. E per poter tornare a considerarci una democrazia, quantomeno da un punto di vista formale.
INTERNAZIONALISMO E CONTROLLO DEMOCRATICO
Notoriamente lei si oppone all’UE. Vorrei sapere cosa ne pensa delle proposte di riforma dell’UE provenienti da sinistra o di progetti alternativi come l’ALBA euromediterranea del professor Luciano Vasapollo?
Le ritengo, nella migliore delle ipotesi, estremamente ingenue. Per quanto riguarda l’Unione Europea e in particolare l’unione monetaria, credo che sia sotto gli occhi di tutti oramai come si tratti di istituzioni assolutamente non riformabili in senso progressivo (il che non esclude affatto una loro riforma in senso peggiorativo, basti pensare alla proposta di riforma del MES) né tantomeno democratizzabili. E la ragione di fondo risiede nella natura di classe del progetto europeo. La costituzione economica e politica dell’Unione Europea è strutturata precisamente per produrre i risultati che stiamo vedendo (l’erosione della sovranità popolare, il trasferimento di ricchezza dalle classi medio-basse a quelle alte, l’indebolimento del lavoro e più in generale lo smantellamento delle conquiste democratiche ed economico-sociali che erano state precedentemente raggiunte dalle classi subordinate) e per impedire proprio il tipo di riforme cui aspirano gli integrazionisti/federalisti di sinistra. In tal senso, non è dato comprendere perché le élite nazionali ed europee dovrebbero acconsentire a delle riforme che andrebbero inevitabilmente a ridurre il loro potere (nella misura in cui qualunque avanzamento sul fronte occupazionale e/o democratico andrebbe ad aumentare il potere contrattuale delle classi subalterne). Alla stessa conclusione era giunto anche Luciano Gallino poco prima della sua scomparsa: «Nessuna realistica modifica dell’euro sarà possibile», scrisse, in quanto esso è stato progettato «quale camicia di forza volta a impedire ogni politica sociale progressista, e le camicie di forza, vista la funzione per cui sono state create, non accettano modifiche “democratiche”».
A ciò si potrebbe obiettare che, nella misura in cui tali riforme sono oggi irrealizzabili alla luce degli attuali equilibri politici in seno all’Unione Europea, una modifica di quegli equilibri potrebbe rendere le suddette ipotesi di riforma attuabili. Da un punto di vista tecnico-istituzionale, però, anche questa strada è preclusa: basti pensare che una riforma dei trattati richiederebbe l’unanimità di tutti i Paesi membri nel Consiglio europeo, il che presupporrebbe la simultanea salita al potere di governi sinceramente progressivi (e che condividano le stesse prospettive di riforma) in tutti i Paesi dell’Unione. Non occorre essere particolarmente pessimisti per arrivare alla conclusione che ciò non accadrà mai. Ma il punto vero è un altro: tutte queste proposte di riforma non sono solo irrealizzabili ma anche e soprattutto inauspicabili. Se anche emergesse un consenso tra le classi dirigenti europee per la creazione di un’architettura europea più propriamente politica e democratica dal punto di vista formale (primato del Parlamento europeo et cetera), si tratterebbe nella migliore delle ipotesi di una “democrazia” a bassissima intensità e dunque intrinsecamente instabile, data l’assenza di un demos europeo che possa infondere legittimità a tali istituzioni.
E questo senza considerare che i rischi connessi alla cattura del processo democratico da parte delle oligarchie economiche (per mezzo di attività di lobbying et cetera) vengono fortemente accentuati a livello sovranazionale; è per questo motivo che, in generale, il trasferimento di sovranità a centri di decisione politica internazionali/sovranazionali contribuisce all’indebolimento del controllo popolare. In ultima analisi, solo attraverso la restituzione degli strumenti di politica economica ai singoli Stati sarà possibile recuperare spazi di agibilità democratica, promuovere il progresso sociale e così porre le basi per una reale collaborazione tra i Paesi europei. Molte delle suddette obiezioni, infatti, potrebbero essere mosse anche alle varie proposte di unione euromediterranea.
Se siamo nell’ambito di una collaborazione tra Stati sovrani – soprattutto dal punto vista monetario – mi va benissimo, ovviamente; ma se parliamo di mettere in comune la moneta o altri strumenti di politica economica, seppur tra Paesi economicamente meno eterogenei e culturalmente più simili, allora la mia opposizione è netta, poiché si riproporrebbero molti dei problemi che oggi vediamo nell’eurozona, con un altro Paese (magari l’Italia stessa?) nel ruolo della Germania. Il punto che la sinistra dovrebbe mettersi in testa è che le unioni monetarie non funzionano. Punto.
MMT E PENSIERO MARXISTA
Lei come risponde alle critiche che vengono dal mondo marxista alla MMT? Penso ad esempio a Michael Roberts che la definisce come una forma post-keynesiana di cartalismo. 
Le considero piuttosto risibili nella misura in cui le critiche principali mosse dai marxisti alla MMT sono sostanzialmente tre:
1) la MMT non avrebbe una prospettiva di classe;
2) la MMT, in quanto sostiene che le tasse non finanziano la spesa pubblica, sarebbe contraria a tassare i ricchi;
3) la MMT, come il keynesismo, rappresenterebbe una soluzione volta a riformare il capitalismo e non ad abbatterlo.
In merito al primo punto ho già risposto: semmai sono i marxisti che non comprendono quanto l’architettura monetaria e fiscale di un Paese incida sulla lotta di classe.
Per quanto riguarda il secondo punto: al netto del fatto che, come già detto, non esistono delle prescrizioni “ufficiali” della MMT in materia di politica fiscale o di altro tipo, ma solo le opinioni personali (e spesso contrastanti) di economisti riconducibili alla scuola MMT, trarre dal postulato secondo cui le tasse non finanziano la spesa pubblica – un fatto oggettivo – la conclusione che, dunque, non vi sarebbe alcun bisogno di tassare i ricchi rappresenta un palese non sequitur. Ciò che la MMT mostra è che uno Stato che dispone della sovranità monetaria non dipende dai ricchi per finanziare qualunque programma di spesa scelga di perseguire; questo non significa che non vi siano altre validissime ragioni per tassare i ricchi: in primis, ridurre il loro potere economico e dunque politico all’interno della società, come io e Mitchell abbiamo sostenuto in più occasioni. Lo stesso dicasi delle tasse sulle imprese: l’obiettivo non dovrebbe essere quello di fare cassa ma semmai di scoraggiare o incoraggiare comportamenti ritenuti dannosi o virtuosi.
Infine, per quanto riguarda l’ultimo punto: ho sempre ritenuto piuttosto ridicolo il dibattito su riformismo versus rivoluzione (spesso declinato in termini di una presunta dicotomia keynesismo-socialismo). A prescindere dagli obiettivi di lungo periodo che uno sceglie di darsi, è evidente che, nella data congiuntura, una politica di stampo “keynesiano” – nella forma di una riconquista delle leve di politica monetaria e fiscale al fine di rilanciare l’occupazione – rappresenta un passaggio obbligato verso una più radicale socializzazione dell’economia; allo stesso tempo, sottrarre una parte cospicua dell’investimento e della produzione (e dunque dell’occupazione) alla logica del profitto si rivelerà probabilmente inevitabile nella misura in cui non paiono esserci oggi le condizioni per un “compromesso di classe” in stile keynesiano ed è dunque lecito aspettarsi l’indisponibilità del capitale privato a qualunque misura che vada a ledere il proprio controllo sulla società. In entrambi i casi, le intuizioni della MMT sono assolutamente fondamentali. Una nota “di colore” finale: l’aspetto più grottesco di molte delle critiche marxiste è che spesso si basano su assunti macroeconomici del tutto ortodossi, come l’idea che “stampare moneta provocherebbe iperinflazione” o “svaluterebbe il tasso di cambio”, nozioni a cui ormai non credono più neanche gli economisti mainstream. Dei sedicenti giacobini più realisti del re, insomma.
PENSIERO KEYNESIANO E MARXISMO
Da quello che ho potuto leggere, nei suoi lavori noto una certa vicinanza al pensiero di Keynes. Mi vengono allora in mente due esempi del rapporto tra questo brillante economista e la tradizione marxista. Chi accetta la sfida posta da Keynes alla teoria economica, come Paul Baran e Sweezy che scriveranno uno dei testi simbolo del ‘68 “Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana” e chi fin da subito muove delle critiche interessanti come Paul Mattick ma anche ad esempio Michał Kalecki che dimostrò l’impossibilità della piena occupazione nel capitalismo. Lei come si pone nei confronti di queste diverse interpretazioni marxiste di Keynes? 
Le trovo tutte interessanti, benché molte di esse siano viziate da errori macroeconomici. Si pensi per esempio a tutto il dibattito marxista degli anni Settanta (i cui strascichi arrivano fino ai giorni nostri) sulla presunta “crisi fiscale dello Stato”. Si tratta di un’analisi viziata dall’idea che la moneta sia una risorsa scarsa. Mi ritrovo invece completamente d’accordo con l’analisi di Kalecki sui limiti politici della piena occupazione in un contesto capitalistico. L’errore, però, a mio avviso – e mi riallaccio a quello che dicevo poc’anzi – è quello di interpretare questo dibattito come una sorta di “sfida” tra marxismo (e prospettiva socialista più in generale) e keynesismo. Come già detto, io non vedo alcun conflitto tra i due. Tutt’altro. L’errore di fondo, comune ai marxisti, sta nel considerare il keynesismo come un’ideologia ben definita, sostanzialmente finalizzata a “salvare il capitalismo da sé stesso” piuttosto che a superarlo. Al contrario, io interpreto l’impianto (post-)keynesiano alla stregua di come interpreto l’impianto (per certi versi simile) della MMT ossia come una lente attraverso cui comprendere gli strumenti a disposizione di uno Stato per raggiungere determinati obiettivi politico-economici anche molto diversi tra loro. Tra questi obiettivi ci metto anche il socialismo democratico (nelle sue varie declinazioni, più o meno radicali), a cui non vedo come si possa arrivare senza ricorrere agli strumenti del (post-)keynesismo e della MMT, giacché la teoria marxista è notoriamente povera di prescrizioni “tecniche” sugli assetti economici, politici ed istituzionali (e più in generale sulla forma-Stato) di cui dotarsi per conseguire l’obiettivo della democratizzazione dell’economia e della progressiva socializzazione dei mezzi di produzione.
MINSKY E “LA VIA LENTA AL SOCIALISMO”
Nelle sue idee per uscire dall’attuale crisi economica che spazio ha il pensiero di Hyman Minsky (e la difesa di Minsky di un capitalismo interventista)? 
Sono un grande ammiratore del pensiero di Minsky. A mio avviso, lui esprime benissimo l’idea che gli strumenti di politica economica (post-)keynesiani possano essere messi al servizio di obiettivi ben più radicali di quanto non sia stato fatto nel cosiddetto trentennio keynesiano. Minsky fu uno dei pochi a capire che, a fronte dell’evidente impossibilità di trovare una soluzione consensuale al conflitto capitale-lavoro che si venne a determinare negli anni Settanta, la crisi del cosiddetto “compromesso di classe keynesiano” non poteva che risolversi a favore dell’una o dell’altra parte: a favore del capitale (per mezzo di una riduzione dei salari e più in generale del potere dei sindacati, come poi è stato) o a favore dei lavoratori, per mezzo di quella graduale “socializzazione degli investimenti” (finalizzata a sottrarre una parte cospicua dell’investimento alla logica del profitto, all’interno di una regolamentazione complessiva dell’investimento privato) che lo stesso Keynes indicava come unica soluzione alla naturale tendenza al ristagno del capitalismo sviluppato e che Minsky considerava come una sorta di “via lenta al socialismo”. Purtroppo le sinistre occidentali non ebbero la consapevolezza, la forza o il coraggio per perseguire questa strada, finendo dunque per gestire la crisi del capitale per conto del capitale. Le conseguenze le conosciamo.
AZIONE DELLO STATO E MONDIALIZZAZIONE
In “Sovranità o barbarie” lei cerca di mettere in risalto il possibile ruolo centrale dello Stato nell’economia, oltre a difendere correttamente la necessità di rompere la gabbia europea. Come può agire lo Stato in un’economia-mondo che sembra rilanciare la competizione tra macro-aree e rompere il rapporto di dipendenza con il centro del polo imperialista europeo prodotto dal mercantilismo tedesco? 
Ritengo questo approccio, che potremmo definire “geopoliticista”, fallace e pericoloso allo stesso tempo. Fallace perché ritengo falsa – e totalmente strumentale all’ideologia globalista dominante – l’idea che oggi ci troveremmo in una fase strutturalmente inedita della globalizzazione capitalistica, tale addirittura da costringerci a ripensare la forma-Stato per come l’abbiamo conosciuta finora. La competizione tra macro-aree è sempre esistita: la Cina e l’Occidente, tanto per fare un esempio, già si facevano le guerre commerciali nel diciottesimo secolo. Così come sono sempre esistiti Paesi economicamente e commercialmente dominanti. Questo in passato non ha impedito a Stati delle dimensioni più svariate di prosperare. Per questo motivo considero infondata l’idea, promossa incessantemente dal mainstream e avallata da buona parte della sedicente sinistra (tra cui anche diversi marxisti), secondo cui l’attuale contesto globale ci costringerebbe a muovere verso forme di aggregazione politica più ampie (magari di natura sovranazionale) per poter “stare a galla nel mare magnum della globalizzazione”, per usare un’accezione molto diffusa.
Se così fosse non si spiegherebbe perché in media quei Paesi che appartengono all’esempio di aggregazione-integrazione sovranazionale più avanzata che esista oggi al mondo (cioè l’Unione Europea e in particolare l’unione monetaria) e che dunque secondo la narrazione dominante dovrebbero essere maggiormente in grado di fronteggiare la competizione internazionale, abbiano registrato nell’ultimo decennio livelli occupazionali e di crescita inferiori alla media dei Paesi sviluppati, inclusi quei Paesi europei che non hanno aderito all’euro e detengono ancora la propria valuta (Islanda, Norvegia, Svezia, Svizzera et cetera).
E la ragione è presto detta: se proprio si vuole competere con i nuovi giganti dell’economia mondiale come la Cina – obiettivo in sé alquanto discutibile, come spiegherò – ciò che conta non è tanto la “stazza” di un Paese quanto la sua capacità di disporre di tutte le leve della politica economica (politica monetaria, di bilancio e del cambio) per poter accrescere la propria competitività, tanto in termini di offerta e di qualità (per mezzo della politica industriale) che di prezzo. In questo senso l’Unione Europea, con la sua ossessione per il rigore fiscale ed i suoi ostacoli all’intervento pubblico, lungi dal proteggerci dalle grandi potenze, ci espone alla loro mercé. Non è un caso, infatti, se oggi tutti i Paesi europei (inclusa l’Italia) spalancano le porte agli investimenti cinesi, giacché gli è preclusa la possibilità di realizzare investimenti pubblici dagli assurdi vincoli di bilancio europei, mentre non esiste una politica di investimento europea degna di questo nome. Come dice Alberto Bradanini, ambasciatore a Pechino tra il 2013 e il 2015 (quindi non esattamente il tipico “sovranista”): «L’Italia potrà avere qualche beneficio da un’interlocuzione con la Cina se, dopo aver recuperato la propria sovranità monetaria, saprà avviare una politica economica degna di questo nome, riavviando il tessuto industriale ridottosi del 20 per cento nell’ultimo decennio e investendo massicciamente su innovazione e ricerca. In assenza di ciò, l’Italia è destinata a raccogliere solo poche briciole dal dialogo con la Cina». Insomma, non solo un Paese come l’Italia potrebbe benissimo “tenere testa” alle grandi potenze fuori dall’euro ma, come dice Bradanini, potrebbe farlo solo fuori dall’euro.
Considero altrettanto fallace l’argomentazione, anch’essa cara a certi marxisti, secondo cui la diffusione delle cosiddette “catene globali del valore”, cioè la dispersione internazionale della produzione, presupporrebbe inevitabilmente un movimento verso forme sempre più avanzate di integrazione commerciale (come il mercato unico europeo) e monetaria (come, appunto, l’euro) e che – per contro – le monete nazionali, i cambi fluttuanti e più in generale qualunque ostacolo posto alla libera circolazione delle merci e dei capitali sarebbero da intendersi come fondamentalmente incompatibili con la “globalizzazione” e con il commercio internazionali (ammesso e non concesso che questi siano degli obiettivi in sé auspicabili). In realtà i dati mostrano che né il commercio internazionale, né la partecipazione alle catene globali del valore richiedono “mercati unici” né tantomeno monete uniche. Anzi. Questo è confermato da tutti i principali studi sul tema, che non hanno trovato alcuna correlazione positiva tra integrazione monetaria e commercio internazionale, né alcuna prova che le fluttuazioni dei tassi di cambio e i relativi “costi di transazione” rappresentino un impedimento al commercio e/o all’integrazione produttiva. Come scrive Costas Lapavitsas:
«Il punto cruciale da osservare è che le principali trasformazioni dell’economia mondiale a cui abbiamo assistito nel corso degli ultimi quattro decenni, tra cui lo sviluppo delle nuove tecnologie, la diffusione delle catene globali del valore, la crescita del commercio e l’ascesa della Cina, non hanno necessitato di condizioni analoghe a quelle del mercato unico europeo. Semmai è proprio l’ideologia del mercato unico a rappresentare un residuato di un’altra epoca».
Come accennavo all’inizio, però, considero questo tipo di argomentazioni (da me definite “geopoliticiste”) non solo errate ma anche pericolose, nonché del tutto incompatibili con una prospettiva socialista. In primo luogo, perché accettano – implicitamente o esplicitamente – la logica mercantilista e liberoscambista propugnata dalle oligarchie dominanti, ovverosia l’idea che l’obiettivo della politica commerciale globale debba essere quello di incrementare il più possibile il volume e l’intensità degli scambi commerciali internazionali, con l’obiettivo, tra le altre cose, di aumentare le esportazioni, ridurre il costo delle importazioni e favorire l’integrazione delle filiere produttive dei singoli Paesi. Eppure è ormai sempre più evidente che siamo di fronte a una strategia non solo completamente irrazionale dal punto di vista sociale ed economico ma anche anche completamente suicida dal punto di vista ambientale. Ciò che serve da una prospettiva (eco-)socialista è un ribaltamento radicale di questa logica, che ponga al primo posto la riduzione (e non l’allargamento) del grado di apertura commerciale dei singoli Paesi. Una nuova razionalità economica che punti all’ottenimento del massimo grado di autosufficienza economica nazionale possibile, secondo la filosofia esposta da Keynes nel suo noto saggio del 1933, “Autosufficienza nazionale”:
«Io simpatizzo piuttosto con coloro che vorrebbero ridurre al minimo il groviglio economico tra le nazioni, che non con quelli che lo vorrebbero aumentare al massimo. Le idee, il sapere, la scienza, l’ospitalità, il viaggiare – queste sono le cose che per loro natura dovrebbero essere internazionali. Ma lasciate che le merci siano fatte in casa ogni qualvolta ciò è ragionevolmente e praticamente possibile, e, soprattutto, che la finanza sia eminentemente nazionale».
Ma il “geopoliticismo” è pericoloso soprattutto perché porta inevitabilmente ad adottare una postura imperiale ed imperialista, in cui qualunque considerazione attinente alla sfera della distribuzione, del modello sociale, della sovranità, della democrazia viene sacrificata sull’altare della politica di potenza. Come nota giustamente Andrea Zhok,
«le realizzazioni storiche di grandi unificazioni politiche di differenti nazioni su vaste estensioni geografiche hanno storicamente un nome ben preciso. Si chiamano imperi».
Il caso europeo è paradigmatico. Non è un caso che gli appelli dell’establishment europeo a unificare l’Europa per “competere” con la Cina, con gli Stati Uniti e con le altre grandi potenze riecheggino le teorie dei primi teorici geopolitici tedeschi – riprese poi da nazisti – secondo cui, per resistere alle pressioni esercitate dalle potenze esterne e per competere adeguatamente con esse sui mercati mondiali, l’Europa doveva fondersi in un’unica unità economica, sotto la “direzione” della Germania.
Da socialista suggerisco dunque di lasciare questi deliri di onnipotenza agli altri e di concentrarci su ciò di cui c’è veramente bisogno nelle nostre società: democrazia, sovranità, giustizia sociale ed ecologica. Tutte cose che non hanno nulla a che fare con gli imperi e con cui anzi sono del tutto incompatibili. Infine, per quanto riguarda la Germania: la nostra dipendenza dalla filiera produttiva tedesca, se è questo che si intende con la domanda, è una conseguenza dell’adozione – e della sua istituzionalizzazione tramite la moneta unica – dello stesso modello di sviluppo estroverso della Germania. L’obiettivo, come detto, non dovrebbe essere quello di rompere tale dipendenza attraverso l’adozione di misure mercantilistiche più prettamente nazionali ma piuttosto di farlo attraverso l’adozione di un modello autocentrico che punti sulla domanda interna e riduca l’intensità degli scambi commerciali con l’estero a favore di una rilocalizzazione, per quanto possibile, della produzione. Ciò detto, il modo più facile per indebolire il mercantilismo tedesco nel breve è porre fine alla moneta unica, che rappresenta notoriamente una sovvenzione implicita alle esportazioni tedesche per mezzo della compressione artificiale del tasso di cambio tedesco.
IL MODELLO CINESE.
Lei come analizza lo sviluppo della Cina? Considera questo Paese una forma di transizione al socialismo e cosa ne pensa della loro idea della globalizzazione sintetizzata nel progetto BRI? 
L’analisi del modello economico cinese è un altro di quei temi su cui – ahimè – mi trovo spesso in disaccordo con i marxisti. Tra costoro, infatti, sembra essere diffusa l’idea secondo cui la Cina sia da considerarsi a tutti gli effetti un’economia capitalistica se non addirittura «neoliberale» (vedi David Harvey), che non presenterebbe dunque alcuna alterità di fondo rispetto al paradigma economico occidentale. Mi pare una posizione francamente assurda. L’errore, a mio avviso, consiste nell’illusione di poter tracciare una linea netta tra capitalismo e socialismo – per cui tutti i Paesi sarebbero da considerarsi al di qua di questa linea immaginaria finché non realizzano un improvviso salto quantico verso un modello “socialista” non meglio specificato –, mentre sarebbe più utile vedere capitalismo e socialismo come due poli di un continuum lungo il quale collocare le specifiche esperienze storiche dei diversi Paesi. La domanda, dunque, non è se la Cina sia capitalista o socialista ma dove si situi lungo questo continuum e verso quale dei due poli si stia muovendo. Per rispondere a questa domanda, però, è necessario mettersi d’accordo su una definizione di massima dei due termini, cosa tutt’altro che semplice, il che spiega in parte perché vi siano opinioni così discordanti, soprattutto a sinistra, sulla natura del modello cinese: perché è difficile mettersi d’accordo su cosa sia effettivamente il capitalismo e dunque, per contro, il socialismo.
Se dovessi dare una personale definizione dei due modelli, che dunque non ha alcuna pretesa di esaustività o scientificità, opterei per la seguente: per capitalismo “puro” si intende un sistema in cui vige la proprietà privata di tutti i mezzi di produzione e della totalità del capitale nazionale (inclusi gli apparati statali), in cui tutti i processi decisionali in materia economica sono affidati alla libera iniziativa privata e in cui ogni aspetto della vita economica e sociale è soggetto alle regole di mercato e alla logica del profitto e dell’accumulazione; per socialismo “puro” si intende un sistema in cui non esiste la proprietà privata, in cui vige la proprietà pubblica (collettiva) di tutti i mezzi di produzione e della totalità del capitale nazionale e in cui tutti i processi decisionali in materia economica sono affidati alla pianificazione statale e finalizzati unicamente all’appagamento dei bisogni individuali e collettivi della società. Ora, va da sé che nessuno dei due modelli è mai esistito (né può probabilmente esistere) in forma “pura”; qualunque sistema economico rappresenta un ibrido dei due modelli. La domanda, semmai, è se uno specifico regime economico si collochi al di qua o al di là di un immaginario punto di mezzo tra capitalismo e socialismo lungo il suddetto continuum.
Per quanto riguarda la Cina, ritengo che si possa tranquillamente sostenere che sia un sistema più socialista che capitalista, per le seguenti ragioni: pur avendo progressivamente aperto alla proprietà privata (che oggi rappresenta addirittura il 70 per cento del capitale nazionale secondo le stime di Piketty),
(1) i terreni e le risorse naturali cinesi sono di proprietà dello Stato;
(2) lo Stato detiene la maggioranza della proprietà (circa il 55 per cento) delle imprese cinesi e dunque dei mezzi di produzione;
(3) i principali settori strategici (petrolio, telecomunicazioni, armi et cetera) sono in mano a un centinaio di mega-aziende statali che non vengono gestite secondo criteri di profittabilità ma di interesse nazionale;
(4) la vita economica del Paese è largamente affidata alla pianificazione statale, soprattutto grazie alla presenza di un massiccio settore pubblico – che dunque permette allo Stato di determinare direttamente una larga parte delle politiche in materia di investimento, produzione, occupazione et cetera – ma anche attraverso una forte regolamentazione del settore privato, nonché per mezzo di politiche di controllo dei prezzi, sovvenzioni pubbliche, trasferimenti forzati di tecnologia et cetera;
(5) il settore finanziario e del credito è perlopiù in mano allo Stato cinese (o comunque soggetto a forte regolamentazione da parte dello stesso);
(6) i movimenti di capitale (sia in entrata che in uscita) sono soggetti a controlli ferrei. Tutto ciò mi fa concludere che il modo di produzione capitalistico non sia dominante in Cina. Come riassume la questione il succitato ex ambasciatore Bradanini:
«In Cina il primato del potere politico su quello economico rimane indiscusso. […] I capisaldi del socialismo con caratteristiche cinesi sono costituti dal dogma della sovranità nazionale, un ferreo controllo della società, la forte presenza dello Stato in economia, il controllo della finanza, delle grandi aziende/corporazioni e dei settori fondamentali del Paese (proprietà e iniziativa private, giudicate utile a generare ricchezza in questo frangente storico, sono de facto attenuate e attentamente monitorate) e la proprietà pubblica della terra (sebbene talvolta il suo possesso sia gestito con metodi capitalisti)».
Scusate se è poco. Francamente trovo incredibile che chi si propone come obiettivo il superamento del modello capitalistico – o quantomeno della sua variante neoliberale, ancora dominante in Occidente – non comprenda lo straordinario contributo offerto dalla Cina a questa battaglia, in termini simbolici ancor prima che pratici: il successo economico della Cina – soprattutto se paragonato ai risultati catastrofici di quei Paesi in via di sviluppo che negli ultimi decenni hanno seguito le prescrizioni neoliberali – è la dimostrazione non solo che un’alternativa al modello capitalistico dominante (se non al capitalismo tout court) è possibile, ma che la pianificazione (il che, come mostra l’esempio cinese, non è incompatibile con l’esistenza di un settore imprenditoriale privato) rappresenta per molti versi un’alternativa superiore all’economia di mercato. L’altra lezione che ci arriva dalla Cina, infatti, è che le tecnologie odierne (big data et cetera) permettono di ovviare a molti dei problemi che hanno contraddistinto i tentativi fallimentari delle precedenti esperienze socialiste di coordinare efficacemente l’attività economica nazionale. Come ha scritto di recente nientedimeno che il Financial Times:
Molti economisti cinesi ritengono che i microdati in tempo reale, ad esempio sui flussi di valuta, di investimento e di credito, consentiranno di guidare i mercati e contenere in modo preciso e rapido i rischi finanziari come le bolle immobiliari o azionarie. Questo consentirebbe un’allocazione più intelligente delle risorse rispetto ai meccanismi di prezzo basati sul mercato».
In un’epoca in cui si fa un gran parlare di transizione ecologica, ovverosia della trasformazione radicale dei nostri modelli di produzione e di consumo per far fronte alla crisi ambientale (il che, mi pare evidente, presupporrebbe un livello di pianificazione economica pari almeno a quella sperimentata in Occidente solo in tempo di guerra), non vedo come non si possa non riconoscere alla Cina di aver dato legittimità a questi strumenti, considerati tabù fino a poco tempo fa nel dibattitto pubblico occidentale. Semmai la domanda cruciale, a cui ovviamente non possiamo rispondere in questa sede, è se questo livello di pianificazione sia compatibile con l’alternanza di governo tipica dei regimi liberaldemocratici. Infine, per quanto riguarda il modello di globalizzazione alternativa promosso dalla Cina, ciò che mi interessa sottolineare in questa sede non sono i meriti o i demeriti del modello in sé, quanto l’importanza in quanto tale dell’esistenza (per la prima volta in quarant’anni) di un’alternativa a livello globale. L’emergere di un ordine multipolare rappresenta, a mio avviso, un’occasione straordinaria per quei Paesi che vogliano conquistare una maggiore autonomia in campo economico e geopolitico proprio perché certifica la fine di quell’iper-impero mondiale che era in grado di imporre – con la forza o con altri mezzi – il proprio volere a tutto il pianeta.
COSTRUIRE UNA NUOVA UNITÀ POPOLARE.
Lei ritiene la variante del populismo di sinistra come il modo di condurre la lotta di classe in questa congiuntura storica come Formenti? Come giudica il programma economico di queste formazioni politiche sparse per l’Europa? 
Mi trovo perfettamente d’accordo con l’analisi del “momento populista” di Formenti, secondo cui oggi in Occidente non esiste un soggetto o una classe specifica su cui poter fare affidamento per portare avanti una battaglia socialista ma che qualunque progetto trasformativo richiede la capacità di creare «un movimento politico capace di aggregare un blocco sociale che accorpi diverse rivendicazioni (anche se parzialmente in competizione reciproca), che risultino incompatibili con il sistema capitalista nelle sue forme attuali», cioè di «costruire un popolo, […] un’ampia alleanza di soggetti sociali che gli consenta di conquistare il governo e lanciare un programma di riforme radicali». Questa alleanza deve ovviamente includere i lavoratori ma anche le classi medie impoverite e/o minacciate dalla globalizzazione (per esempio, i piccoli-medi imprenditori); deve inoltre saper fare leva su tutte quelle faglie e quei conflitti che sono esterni al mondo della produzione: crisi ecologiche, crisi della riproduzione, conflitti generazionali, di genere, etnici, religiosi et cetera. In breve, «costruire l’unità popolare significa organizzare il potere della plebe nel momento storico in cui i vecchi strumenti del movimento operaio non funzionano più». Purtroppo, per quanto riguarda le formazioni politiche “socialiste” sparse per l’Europa, la situazione è abbastanza sconfortante. Mi sento di condividere ogni virgola di ciò che ha scritto qualche tempo fa Wolfgang Streeck:
La ragione principale del fallimento delle sinistre è l’assenza pressoché totale di una realistica strategia anti-capitalistica, o anche solo anti-neoliberale, relativa all’UE. A sinistra non ci si chiede nemmeno se l’UE possa veramente essere un veicolo per una strategia anti-capitalistica. Piuttosto, continua a prevalere a sinistra un’accettazione ingenua o opportunistica di quell’ “europeismo” buonista così popolare tra i giovani e che viene abilmente sfruttato dai partiti di centro e dai tecnocrati europei per legittimare il regime neoliberista.
A sinistra non si fa menzione di come la costituzione economica dell’Unione Europea renda impossibile qualunque programma anti-capitalistico o anche solo pro-labour, in virtù del liberismo incarnato nei trattati (le “quattro libertà”), della dittatura di fatto della Corte europea di giustizia e dell’austerità imposta dall’euro. Qualsiasi discussione critica sulla principale politica sociale dell’UE – la libera circolazione del lavoro tra Paesi economicamente molto diversi tra loro – viene rigorosamente evitata, e anzi viene sostituita da una vaga simpatia per l’idea delle frontiere aperte, anche tra l’UE e il mondo esterno.
[…] La sinistra tende a relegare le questioni politiche a un livello di “democrazia europea” che esiste solo nella loro fantasia e che non esisterà per molto tempo a venire. Una sinistra radicale degna di questo nome capirebbe che il migliore contributo che può dare all’“Europa” consiste nel prendere atto che le “soluzioni europee” non possono sostituire la politica a livello nazionale, per il semplice fatto che quelle soluzioni non esistono. E si adopererebbe per difendere l’unica democrazia realmente esistente, cioè la democrazia nazionale, contro il suo esautoramento in un nome di una democrazia sovranazionale “cosmopolitica”».
La morale di ciò che dice Streeck è che oggi non basta avere un buon programma economico. Lo dimostra la sconfitta di Corbyn. Al leader laburista e ai suoi va senz’altro riconosciuto il merito di aver abbandonato la “terza via” social-liberista in materia di politica economica e di aver messo in campo un programma economico piuttosto avanzato (per quanto viziato da alcuni errori macroeconomici di fondo ma sorvoliamo) basato sulla rinazionalizzazione di diversi settori, sul rilancio del welfare, sulla redistribuzione della proprietà azionaria delle grandi imprese ai lavoratori, su un massiccio piano di investimenti verdi et cetera. Avendo però il Labour sbagliato completamente la posizione sulla Brexit – per le ragioni spiegate da Streeck – tutto questo lavoro si è rivelato inutile.
I PRO E I CONTRO DI MARX
Lei ritiene l’opera di Karl Marx ancora utile nell’analizzare il capitalismo e in che rapporto è con i lavori di questo pensatore? 
Se oggi siamo in grado di analizzare il capitalismo lo dobbiamo in buona parte a Marx e alla vastissima tradizione teorica ispirata al suo pensiero, dunque non ha neanche senso chiedersi se ciò che ci permette di pensare una cosa sia ancora utile all’analisi della suddetta. La domanda semmai è quali elementi del pensiero marxiano originario (per molti versi poi estremizzati e iperbolizzati dalla tradizione marxista) siano ormai da archiviare in quanto anacronistici, incompleti o semplicemente errati e dunque non più utili alla trasformazione rivoluzionaria dell’esistente o addirittura funzionali alla sua conservazione. In questo senso, mi riconosco perfettamente nella tesi avanzata da Carlo Formenti e Onofrio Romano nel loro recente volume Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, in cui gli autori individuano una serie di elementi critici – da archiviare, appunto – del pensiero marxiano. Tra questi:
  • la visione progressista, positivista e determinista della storia che individua nel progresso industriale e tecnologico – e più in generale nella diffusione del capitalismo su scala globale – un fattore di civilizzazione che porta in sé i germi della rivoluzione;
  • il riduzionismo economicista che focalizza tutta l’attenzione sulle dinamiche di classe, ignorando (o svalutando) tutta una serie di elementi culturali altrettanto importanti nell’esistenza degli individui e nella determinazione dei processi storici (e della stessa lotta di classe!), a partire dall’identità collettiva (costumi, tradizioni, cultura et cetera) delle varie comunità territoriali e nazionali; la mancanza di una vera teoria politica “regolativa”, a cui come detto più su ha ovviato – per fortuna – l’impianto teorico keynesiano;
  • l’idea che vi sia un soggetto privilegiato portatore di una genuina coscienza rivoluzionaria; la posizione ambigua nei confronti dello Stato e una concezione banale e antistorica dell’internazionalismo («il proletariato non ha patria», a onor del vero successivamente problematizzata dallo stesso Marx ma soprattutto da Engels e Lenin) che non ha alcun senso in una fase storica come quella attuale (ma lo stesso, a ben vedere, era vero anche al tempo di Marx) in cui il rafforzamento della sovranità nazionale – e la riconquista della stessa per coloro che l’hanno persa del tutto, come i Paesi dell’eurozona – è la condicio sine qua non per l’esercizio della democrazia e per resistere all’illimitata estensione geografica del dominio capitalistico (il che ovviamente non è in contraddizione con un reale inter-nazionalismo inteso come solidarietà e collaborazione tra Stati sovrani).
Bisogna, insomma, archiviare proprio quegli elementi a cui – non a caso – si rifà ciò che rimane della moribonda sinistra occidentale la quale, come scrive Formenti, lascia marcire il cadavere del socialismo mentre ne venera le sue inutili reliquie.