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sabato 27 novembre 2021

I MILLE AVVOCATI DI STRADA CHE RESTITUISCONO DIGNITÀ AI SENZA DIMORA (E AGLI ULTIMI). - Maria Novella De Luca

 

Sono lo studio legale più grande d’Italia, tutti “soci” volontari, con il fatturato più povero: zero euro. Assistono persone precipitare nella povertà dopo licenziamenti, sfratti, divorzi, costrette oggi a vivere sui marciapiedi, nei dormitori, in auto. Per tutti la sfida più grande: ottenere un indirizzo di residenza per non essere più invisibili.

Sono lo studio legale più grande d’Italia (mille “soci” tra civilisti e penalisti) e anche il più povero: fatturato euro zero. Del resto, i loro clienti, nella scala sociale, sono gli ultimi degli ultimi, così privi di tutto da non avere nemmeno un indirizzo: sono clochard, senza tetto, senza fissa dimora. Si chiamano “avvocati di strada”, sono riuniti in un’associazione fondata nel 2001 da Antonio Mumolo, avvocato giuslavorista che nelle fredde notti di Bologna, da volontario portava cibo e coperte a chi viveva sui marciapiedi o sotto rifugi di cartone. “E molti di loro, conoscendo il mio mestiere, mi facevano domande legali, raccontandomi di pensioni perdute, di eredità negate, di figli mai più incontrati per mancanza di un indirizzo di residenza, di fallimenti economici per crediti inesigibili, di assistenza sanitaria negata. Capii che quel mondo di invisibili finiva per strada non soltanto per tossicodipendenza, alcolismo o per problemi psichiatrici, ma soprattutto per diritti negati”.

Insieme a un solo altro collega, Mumolo fonda la onlus “Avvocato di strada”, oggi presente in 56 città, con mille legali che offrono assistenza (gratuita) ai senza dimora, trentottomila persone seguite dal 2001 ad oggi, tremila pratiche aperte ogni anno, centinaia di cause vinte, ma soprattutto centinaia di ex drop-out tornati a vivere dal mondo di sotto al mondo di sopra. Con il motto non “esistono cause perse”, “Avvocato di strada” ha dedicato ai sessantamila clochard italiani addirittura un festival nell’ottobre scorso, per raccontare questo estremo segmento di povertà.

Spiega Antonio Mumolo: “Il senzatetto che dorme sui cartoni è solo la forma più evidente di questa emarginazione, figlia delle ripetute crisi economiche che hanno devastato l’Italia. A differenza di vent’anni fa quando i senza dimora erano persone con storie di alcol o malattie mentali, oggi sono cittadini, all’ottanta per cento italiani, che da un giorno all’altro perdono il bene fondamentale: la casa. Ci vuole poco: un licenziamento, le rate di mutuo non pagate, lo sfratto, una pensione troppo misera, un divorzio e ci si ritrova a dormire in auto, nei dormitori pubblici, negli edifici occupati, in fila alla mensa, alle docce, alle distribuzioni di vestiti usati. Bussando da una porta all’altra alla ricerca di lavoro”.

La storia di Francesca, da commessa in un supermercato ad una vita senza più figlie né una casa.

Come accade a F. che chiameremo Francesca, nelle tante storie che “Avvocato di strada”, pubblica sul suo bilancio sociale ogni anno. Francesca è italiana, ha 40 anni, è mamma di due bimbe di 6 e 8 anni. Emblema e paradigma di come si possa passare da una situazione dignitosa alla povertà in un tempo brevissimo, fulmineo. Un capitombolo nel baratro. “F. era commessa in un supermercato, conviveva con il suo compagno e padre delle bambine, finché i due non decidono di separarsi e l’uomo, abbandonata la casa, smette di prendersi carico delle spese. F. non ce la fa, il suo stipendio è troppo basso per pagare un affitto e gestire, da sola, due figlie. Arriva lo sfratto e le bimbe vengono affidate ai nonni paterni. Costretta a dormire in macchina, Francesca si rivolge ad “Avvocato di strada” perché è inverno, i soldi stanno finendo e pagare la benzina per arrivare al lavoro diventa impossibile”. F. si ammala di broncopolmonite, viene aggredita nella notte, la macchina si guasta irreparabilmente. Sul lavoro le assenze diventano troppe e Francesca viene licenziata.

“Dopo aver messo in contatto Francesca con i servizi sociali della città – ricorda Agostina, avvocata di strada di Milano – siamo riusciti a farle ottenere la residenza fittizia, grazie alla quale ha potuto cercare un nuovo lavoro e un alloggio”. Piano piano Francesca riemerge dal buio e ricostruisce un rapporto con le figlie. Con il sogno, oggi, di riaverle con sé.

Per chi nella vita ha sempre avuto un indirizzo e un nome sul citofono, la parola residenza evoca soltanto un fastidio burocratico da espletare quando, magari, si cambia casa o città. Invece no: la residenza è un diritto fondamentale che determina lo spartiacque tra l’esistenza e la non esistenza. Tra l’essere cittadini o clandestini. Essere invisibili oggi è non poter fornire un indirizzo, dunque ottenere una carta d’identità, quindi un lavoro e l’assistenza sanitaria.

Gli avvocati di strada ricostruiscono i fili spezzati di queste vite, cuciono una tela che riannoda affetti, patrimoni, dignità. Portano in tribunale comuni e datori di lavoro, enti previdenziali e familiari disonesti. “I comuni – dice Mumolo – spesso violano l’obbligo di assegnare per legge ai senza dimora una di quelle vie fittizie inventate proprio per dare una residenza a chi non ce l’ha”. Come via Modesta Valenti a Roma, clochard che morì di stenti, o via della Speranza, o via dei Senzatetto in altre città.

Si sentono rinascita e resistenza nelle storie degli avvocati di strada. C’è M, italiano, che viveva in un dormitorio dopo una dolorosa separazione. Grazie all’assistenza legale riesce a definire il divorzio, trova alloggio in co-housing. “La cosa più bella – è stata sentirmi di nuovo chiamare papà”.

La storia di Stella, da clandestina a una vita alla luce del sole.

C’è S. la chiameremo Stella, ucraina, mamma di un bellissimo bambino con cui viveva, però, quasi nascosta. “Nel periodo in cui è venuta al nostro sportello viveva in una situazione totalmente precaria fuori Genova. Non aveva documenti, non riusciva ad ottenere un permesso di soggiorno ed era costretta a vivere nella clandestinità, nella paura, senza assistenza sanitaria, senza potersi rivolgere ai servizi sociali, né poter iscrivere suo figlio a scuola” Stella era invisibile. Gli avvocati strada rintracciano in Grecia il padre del bambino, ottengono i suoi documenti, regolarizzano la posizione di Stella. “Oggi a lei ed al suo piccolo è stata restituita la dignità e il riconoscimento che per troppo tempo erano stati loro ingiustamente sottratti”. E Stella e il suo bambino non hanno più paura di camminare alla luce del sole.

La storia di Giuseppe non aveva più una residenza ora l’ha ottenuta.

C’è G, lo chiameremo Giuseppe, napoletano. “Arrivò ad Avvocato di strada dopo aver girato tutti servizi della città senza essere riuscito a far rispettare un suo diritto essenziale, quello alla residenza anagrafica. G. che un tempo aveva una casa e un lavoro, aveva camminato tanto, tra uffici freddi e pieni di inutile burocrazia, trovando tutte le porte chiuse. Quando arrivò da noi era veramente esausto e sfiduciato. Aveva perso la speranza e la sua voglia di credere in una società giusta e civile. In breve tempo, grazie al preziosissimo aiuto di una nostra volontaria, G. ottiene la residenza nella via fittizia. Oggi ha nuovamente diritto di voto, accesso alle cure mediche. È tornato a godere di tutti quei diritti fondamentali di cui gode un cittadino italiano residente sul territorio”.

Antonio Mumolo cita una frase “cult” del libro di John Grisham “L’avvocato di strada”: “Prima di tutto sono un essere umano. Poi un avvocato. È possibile essere entrambe le cose”.

http://www.libertaegiustizia.it/2021/11/13/i-mille-avvocati-di-strada-che-restituiscono-dignita-ai-senza-dimora-e-agli-ultimi/

venerdì 13 marzo 2020

Lesbo è il sacchetto dell’umido dell’Europa, c’è il Coronavirus ma non il panico. - Giulio Cavalli

Lesbo è il sacchetto dell’umido dell’Europa, c’è il Coronavirus ma non il panico

Bisognerebbe inventarsi nuove parole per raccontare cosa accade su quella maledetta collina intorno al campo di Moria a Lesbo. Bisognerebbe sanguinare parole nuove che non esistono ancora per scrivere un pezzo che non rimanga impantanato solo nelle pagine di un giornale ma che si imprima a fuoco negli occhi di chi legge. In un campo profughi pensato per 3mila persone oltre 20mila disperati frugano tra le macerie della loro vita per provare a sopravviversi, schiacciati da una fuga che non li ha portati, no, nel luogo che speravano, dalla Turchia, che per fare la voce grossa con l’Europa ha aperto un rubinetto da cui escono uomini, e da un’Europa che finge di non vedere, finge di non sentire e contabilizza le vite umane come un cinico scartoffiomane seduto comodo nel suo ufficio.
Lesbo si arriva sfiniti ma c’è da sfinirsi ancora per i raid punitivi dei gruppi di ultradestra che trattano i migranti come carne da bastone per aizzare la propaganda, a Lesbo il 40% di quelli che vengono burocraticamente denominati come migranti sono ragazzini, minori, molti senza nemmeno un padre e una madre che scoprono il mondo e scoprono la cosiddetta civiltà occidentale leccando i rifiuti, mentre il governo greco ha sospeso tutte le procedure di richiesta d’asilo (contravvenendo una manciata di convenzioni internazionali che di questi tempi risuonano come lettera morta) e studia altri metodi per scoraggiare i nuovi arrivi, come se non bastassero le botte. Interessa poco, vero, ciò che accade a Lesbo perché i disperati e gli ultimi sono scesi nella classifica degli argomenti agitati dalla propaganda eppure l’ultima notizia è un pugnale: anche a Lesbo ora c’è un caso di Coronavirus, una persona di nazionalità greca ora ricoverata.
Ora, in questa storia che richiederebbe un vocabolario nuovo, immaginate cosa accadrebbe (o, cosa accadrà) quando quell’umanità assembrata e infettata dalla disgrazia di essere nata nella parte sbagliata del mondo verrà raggiunta dall’epidemia. Immaginate la virulenza, immaginate la facilità di contagio e soprattutto immaginate le cure. Quanto saremmo capaci di prenderci cura, tra l’altro della malattia che è anche la psicosi del momento, di gente di cui già non abbiamo cura? Cosa diventerebbe il campo di Moria con il Coronavirus che si appiccica ai polmoni di gente che è già devastata?
Forse per riuscire a immaginare cosa accade lì a Lesbo, nel sacchetto dell’umido dell’Europa che non si volta a guardare, si potrebbe raccontare che la notizia del Coronavirus non ha nemmeno acceso il panico tra i migranti. Come si può disperare ancora uno che ha già perso la speranza da un pezzo? «Non ho notizia di situazioni di panico – dice Maurizio Debanne, uno dei portavoce di Medici Senza Frontiere -. Sono persone che hanno perso la speranza su tutto, anche se hanno una capacità di resilienza molto forte». O forse quella che chiamano “resilienza” è una disperazione cronica che non si smuove nemmeno per il virus. Il Coronavirus in fondo sta funzionando anche da termometro sulla nostra capacità di prendersi cura degli ultimi del mondo (siano migranti, carcerati o altri disperati): a Roma l’associazione Baobab chiede alla sindaca Raggi cosa abbia in programma per occuparsi della protezione dei senza fissa dimora che sono in città per «garantire la disponibilità dei servizi essenziali di sopravvivenza per le persone in condizioni di impossibilità di provvedere a se stesse». Come potrebbe finire mette i brividi solo a pensarci.