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giovedì 18 maggio 2017

Il Nobel Stiglitz: «Contro le diseguaglianze, investite sul Terzo settore» - Marco Dotti

Stiglitz

I dati dell'Istat lo confermano: nel nostro Paese cresce il divario tra (pochi) mega-ricchi e la massa della popolazione, sempre più precaria e sconnessa. Nel nostro presente ci sono povertà assoluta, fine della classe media, diseguaglianze sociali, economiche e di genere. Per cambiare rotta, spiega il Nobel in questa intervista a Vita, «dobbiamo far leva sul no profit»

Oggi, spiega il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, l’Italia è «uno dei paesi con il più alto livello di diseguaglianze al mondo». Per una volta, gli Usa non sono tanto distanti da noi: «classe media spolpata, base della popolazione impoverita e l’1% della stessa popolazione che gode di extra profitti. Con i figli di questo 1% che si ritroveranno ricchi per mera “discendenza” ed erediteranno un vantaggio competitivo che non farà che allungare la catena delle diseguaglianze. Qualcosa non torna, qualcosa non va, forse tutto.

Dal punto di vista teorico, è saltato un modello: quello della “teoria del gocciolamento”, ovvero l’idea che le diseguaglianze – di benessere, salute, reddito e di opportunità sociali – potessero in qualche modo essere mitigate dal fatto che i vantaggi ricevuti dalla popolazione più abbiente, sarebbero ricaduti sulle fasce più basse in termini di offerte di lavoro e via discorrendo. Al contrario, ci spiega Stiglitz, che abbiamo incontrato a margine dell'incontro sulla "jobless society“ organizzato da Adecco e Fondazione Feltrinelli, crescita degli ultimi decenni è andata a chi stava in cima, che si è preso tutto condividendo niente. Il salario minimo di un lavoratore è più basso di 40 anni fa», negli Usa come in Italia.

Professor Stiglitz, lei ha disegnato un quadro a tinte fosche del nostro presente. Ma per il futuro?

Poiché siamo esseri capaci di scelta e capiamo che così le cose non vanno, io sono ottimista: sappiamo scegliere, dobbiamo scegliere, ma dobbiamo anche capire in che direzione orientare questa scelta. Le diseguaglianze non sono inevitabili e la disoccupazione non è un destino. Il lavoro deve però essere luogo dove queste diseguaglianze si affievoliscono e garanzia della mobilità sociale. Se diventa luogo di diseguaglianza e discriminazione, siamo in un nuovo feudalesimo.

Dove orientarla, allora, la nostra scelta?

Dobbiamo contrastare in ogni modo le disuguaglianze. Per farlo, dobbiamo riscrivere le regole del mercato, garantendo una migliore distribuzione del reddito, rafforzando il potere di contrattazione dei lavoratori e riducendo la forbice tra i compensi dei manager e il salario medio dei dipendenti. Oggi, il sistema garantisce l’accumulo di ricchezza finanziaria e disincentiva, di fatto, gli investimenti nell’economia reale, nelle infrastrutture e a supporto delle piccole e medie imprese. Dobbiamo andare in un’altra direzione, sia sul piano delle regole, sia su quello della governance aziendale.

Come può il terzo settore contribuire a questa riconfigurazione dell’economia?

Facendo quello che sa fare e facendolo al meglio. Prendiamo il caso degli Stati Uniti: se osservi le istituzioni americane, se le osservi bene intendo, che cosa noti? Noti che quelle di maggiore successo sono le istituzioni no profit. E tra queste istituzioni, particolare successo hanno le università. Direi che se il terzo settore tiene fede ai propri compiti, il suo successo va a un vantaggio di tutti. Non ci sono istituzioni “for profit” di successo.

Eppure, il corporate storytelling ci dice il contrario...

Lo ha detto lei, è corporate storytelling...

Diciamo pure: menzogne.

Infatti l’unico successo concreto di queste “for profit” sta nello sfruttare persone. Sfruttare persone povere. In questo riescono benissimo. Ma se guardi le università come Harvard, le fondazioni, le associazioni che davvero incidono positivamente sul piano economico e sociale, sono tutte no profit. Quando la gente parla dell’economia di mercato, io dico che non siamo una vera economia di mercato. Non lo siamo negli Stati Uniti, dove l’intero settore dell’educazione, dalla Stanford University in giù, è retto da un sistema no profit. Non lo siete in Italia dove – non devo essere io a insegnarvelo – il terzo settore ha un ruolo preminente. Guai se saltasse.

Non capirlo ha dei costi enormi, non crede?

Infatti, ci dimentichiamo che esistono istituzioni importanti che agiscono not -for-profit e, dimenticandocene, tendiamo a non capire la loro capacità di riconfigurare l’intera economia. Pensiamo al settore sanitario: credo che una delle ragioni per cui il sistema sanitario negli Stati Uniti sta andando così male risieda nel fatto che un tempo avevamo strutture che non operavano in primo luogo per profitto, ospedali religiosi e ospedali di comunità per esempio, e ora invece abbiamo “for profit hospitals”. Avevamo compagnie di assicurazione sanitaria cooperative, ora abbiamo imprese di assicurazione sanitaria “for profit”. Quello che voglio dire è che dobbiamo stare attenti ai piccoli cambiamenti. Sono stati i piccoli cambiamenti che hanno cambiato l’intera cultura di queste organizzazioni.

Un esempio positivo di questo no profit americano?

Penso a un istituto finanziario che si è comportato bene, le unioni di credit che sono no profit …

Anche piano del lavoro, oggi più che mai, il no profit ha molto da dire, soprattutto per produrre cambiamenti positivi nella cultura organizzativa.

Credo, infatti, che questa sia la sfida, non per generare ibridi ma per creare mentalità, cultura. Il modo migliore per qualunque paese per ridurre la disoccupazione giovanile resta comunque intervenire sulla disoccupazione complessiva. L’Italia, ora, ha un problema in più. Non solo è uno dei Paesi al mondo dove le diseguaglianze di reddito sono più marcate...

... e questo è già un bel paradosso, vista la presenza di quel terzo settore di cui parlavamo...Chiediamoci cosa accadrebbe se non ci fosse.

Accennava comunque a un problema in più, per l’Italia, sul piano delle politiche del lavoro...
Il problema è l’eurozona, per come è stata configurata. Intervenire sulla flessibilità non porterà a molto, perché anche nei paesi all’interno dell’eurozona in cui si è tentato di incrementare la flessibilità, l’unico risultato è indebolire ancora di più la tenuta interna dell’economia.

Se diciamo eurozona, diciamo in sostanza Germania...

All’interno dell’euro per i giovani italiani è molto difficile essere pienamente occupati, sarebbe facile per la Germania cambiare le sue politiche, per l’Europa cambiare e quando dico “facile” non mi riferisco alle politiche economiche. Parlo di politica. La diseguaglianza è conseguenza di una scelta del sistema politico. Poiché la Germania ha un peso imponente, lo fa valere. Bisogna riformare le regole dell’eurozona, condividendo il debito e cancellando il fiscal compact, tornando a favorire investimenti pubblici. Senza procedere in questa direzione non si uscirà dal problema della disoccupazione di massa che, secondo la Bce, nell’area euro, è al 18,5%.

Conseguenza di questa politica e della gabbia di ferro dell’eurozona è che, in Italia, oggi 1,6 milioni di persone vive in condizioni di povertà assoluta.

Non solo, se i paesi più virtuosi in tema di reddito, lotta alla disuguaglianza e mobilità sociale sono Norvegia (che è fuori dall’eurozona) e Svezia, l’Italia è ai primi posti al mondo per tasso di diseguaglianza, forbice di reddito e immobilismo sociale. In Italia, come negli Stati Uniti, hai un reddito alto se nasci da famiglie con un reddito alto, come negli Stati Uniti. Per questo, se l’eurozona è una trappola, gli Stati Uniti non sono certo il modello.

Si rischia, anche sulle tematiche del lavoro, di dare come il Barone di Münchhausen
che voleva tirarsi fuori dalla palude tirandosi per i capelli.

Tanto più che, in Italia, è in atto un sotto investimento, anche culturale, sulle politiche della ricerca. I ricercatori non trovano lavoro e fuggono all’estero, coloro che potrebbero dare tanto a questo Paese sono costretti in condizioni di precarietà permanente e subiscono disuguaglianze al limite dell’umiliazione. Ecco, se torniamo al punto da cui siamo partiti: anziché invocare austerity o seguire ricette importate da chissà chi e da chissà dove, cercare di ridisegnare i confini dell’economia spingendo sul terzo settore, sulla sua capacità di agire sul legame sociale non sarebbe cosa da poco. Se non ripartiamo da questa forza motrice, sarà difficile. Se vogliamo riscrivere le regole e ridefinire la forma dell’economia, dobbiamo partire dal lavoro e ricordarci che abbiamo delle alternative alla crisi, all’austerity, alla crescita delle diseguaglianze. Una di queste alternative è imparare dal no profit come si opera un vero cambiamento sociale.

http://www.vita.it/it/article/2017/05/17/il-nobel-stiglitz-contro-le-diseguaglianze-investite-sul-terzo-settore/143398/

mercoledì 17 maggio 2017

Italia: addio classi sociali, crescono disuguaglianze.



La fotografia nel rapporto annuale Istat. Scompaiono borghesia e proletariato. Sette giovani su dieci a casa con i genitori.


L’Istat traccia la nuova mappa socio-economica dello Stivale, suddividendo le famiglie italiane in 9 gruppi sociali. Ma quello che ne esce è un ritratto impietoso. Sette giovani su dieci ancora a casa con i genitori, aumentano le disuguaglianze, Italia prima in Europa per invecchiamento della popolazione. Inoltre, il paese presenta una "perdita dell'identità di classe legata alla precarizzazione e alla frammentazione dei percorsi lavorativi". Così l’Istat nel suo Rapporto annuale 2017, presentato oggi a Montecitorio

Fotografia Italia: “esplodono” le classi sociali
Quello che viene fotografato è un Paese che sta cambiando volto. "La diseguaglianza sociale non è più solo la distanza tra le diverse classi, ma la composizione stessa delle classi". La classe operaia e il ceto medio, osserva l’Istat, "sono sempre state le più radicate nella struttura produttiva del nostro Paese" ma "oggi la prima ha abbandonato il ruolo di spinta all'equità sociale mentre la seconda non è più alla guida del cambiamento e dell'evoluzione sociale". Secondo il rapporto dell’Istat, segmenti della popolazione non possono più essere inquadrati secondo le partizioni classiche. “Giovani con alto titolo di studio sono occupati in modo precario, stranieri di seconda generazione che non hanno il background culturale dei genitori, stranieri di prima generazione cui non viene riconosciuto il titolo di studio conseguito, una fetta sempre più grande di esclusi dal mondo del lavoro dovuta - sottolinea l'Istituto - anche al progressivo invecchiamento della popolazione".
Ecco che nella nuova geografia dell'Istat "la classe operaia", che "ha perso il suo connotato univoco", si ritrova "per quasi la metà dei casi nel gruppo dei 'giovani blue-collar'", composto da molte coppie senza figli, e "per la restante quota nei due gruppi di famiglie a basso reddito, di soli italiani o con stranieri". Anche la piccola borghesia si distribuisce su più gruppi sociali, in particolare "tra le famiglie di impiegati, di operai in pensione e le famiglie tradizionali della provincia". Secondo l'Istituto "la classe media impiegatizia è invece ben rappresentabile nella società italiana, ricadendo per l'83,5% nelle 'famiglie di impiegati'".

Giovani a casa, Neet e anziani
La situazione dei giovani mostra che quasi sette su 10 tra gli under 35 vivono ancora nella famiglia di origine: nel 2016 i ragazzi tra i 15 e i 34 anni che stanno a casa dei genitori sono 8,6 milioni, il 68,1% dei coetanei. Ed è ancora maglia nera in Europa per i Neet, i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano: sono scesi a 2,2 milioni nel 2016, con un'incidenza che passa al 24,3% dal 25,7% dell'anno prima, ma si tratta ancora della quota "più elevata tra i paesi dell'Unione" europea, dove la media si ferma al 14,2%. L'Italia, inoltre, appare come un Paese sempre più vecchio: al 1 gennaio 2017 la quota di individui di 65 anni e più ha raggiunto il 22%, collocando il nostro Paese al livello più alto nell'Unione Europea e "tra quelli a più elevato invecchiamento al mondo". Con questo dato l'Italia supera anche la Germania che per anni si è collocata ai vertici della classifica europea per quota di over-65 sulla popolazione complessiva. Sono in 13,5 milioni gli italiani che hanno più di 65 anni; gli ultraottantenni sono 4,1 milioni.


Presenza femminile nelle aziende
Il rapporto offre anche un quadro sociale sull’occupazione femminile. Nelle grandi imprese italiane solo il 12,2% dei top manager è donna. La presenza femminile è maggiore nelle imprese familiari, dove le donne appartenenti alla famiglia proprietaria vengono inserite più facilmente nel Cda e nel top management. Nel middle management le donne arrivano al 23,1%, indicatore del fatto che salendo nella scala gerarchica aumenta lo svantaggio delle donne. Le maggiori incidenze di top manager donne sono diffuse nelle cooperative attive nei comparti dei servizi alla persona, delle pulizie, e dell'assistenza familiare e sanitaria. Le famiglie di impiegati vedono come persona di riferimento, principale percettore di reddito, una donna in 7 casi su 10. Nonostante la "superiorità di genere" delle donne quanto a livello di istruzione, si legge nel Rapporto annuale dell’Istat, nel 2016 il gap nei tassi di occupazione è ancora forte: 18,4 punti percentuali a sfavore delle donne. La quota di donne che lavorano è più alta nelle famiglie di impiegati, in quelle della classe dirigente e dei giovani blue collar. Il tasso di occupazione femminile passa dal 29,8 con al massimo la licenza media al 73,3% delle laureate.


http://www.sky.it/eveningnews/2017/736/web/homepage.html?lightbox=3&extid=26dddf71a02cf36617643234d957f76aaf746bac2393b6e9