Visualizzazione post con etichetta Stiglitz. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Stiglitz. Mostra tutti i post

giovedì 18 maggio 2017

Il Nobel Stiglitz: «Contro le diseguaglianze, investite sul Terzo settore» - Marco Dotti

Stiglitz

I dati dell'Istat lo confermano: nel nostro Paese cresce il divario tra (pochi) mega-ricchi e la massa della popolazione, sempre più precaria e sconnessa. Nel nostro presente ci sono povertà assoluta, fine della classe media, diseguaglianze sociali, economiche e di genere. Per cambiare rotta, spiega il Nobel in questa intervista a Vita, «dobbiamo far leva sul no profit»

Oggi, spiega il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, l’Italia è «uno dei paesi con il più alto livello di diseguaglianze al mondo». Per una volta, gli Usa non sono tanto distanti da noi: «classe media spolpata, base della popolazione impoverita e l’1% della stessa popolazione che gode di extra profitti. Con i figli di questo 1% che si ritroveranno ricchi per mera “discendenza” ed erediteranno un vantaggio competitivo che non farà che allungare la catena delle diseguaglianze. Qualcosa non torna, qualcosa non va, forse tutto.

Dal punto di vista teorico, è saltato un modello: quello della “teoria del gocciolamento”, ovvero l’idea che le diseguaglianze – di benessere, salute, reddito e di opportunità sociali – potessero in qualche modo essere mitigate dal fatto che i vantaggi ricevuti dalla popolazione più abbiente, sarebbero ricaduti sulle fasce più basse in termini di offerte di lavoro e via discorrendo. Al contrario, ci spiega Stiglitz, che abbiamo incontrato a margine dell'incontro sulla "jobless society“ organizzato da Adecco e Fondazione Feltrinelli, crescita degli ultimi decenni è andata a chi stava in cima, che si è preso tutto condividendo niente. Il salario minimo di un lavoratore è più basso di 40 anni fa», negli Usa come in Italia.

Professor Stiglitz, lei ha disegnato un quadro a tinte fosche del nostro presente. Ma per il futuro?

Poiché siamo esseri capaci di scelta e capiamo che così le cose non vanno, io sono ottimista: sappiamo scegliere, dobbiamo scegliere, ma dobbiamo anche capire in che direzione orientare questa scelta. Le diseguaglianze non sono inevitabili e la disoccupazione non è un destino. Il lavoro deve però essere luogo dove queste diseguaglianze si affievoliscono e garanzia della mobilità sociale. Se diventa luogo di diseguaglianza e discriminazione, siamo in un nuovo feudalesimo.

Dove orientarla, allora, la nostra scelta?

Dobbiamo contrastare in ogni modo le disuguaglianze. Per farlo, dobbiamo riscrivere le regole del mercato, garantendo una migliore distribuzione del reddito, rafforzando il potere di contrattazione dei lavoratori e riducendo la forbice tra i compensi dei manager e il salario medio dei dipendenti. Oggi, il sistema garantisce l’accumulo di ricchezza finanziaria e disincentiva, di fatto, gli investimenti nell’economia reale, nelle infrastrutture e a supporto delle piccole e medie imprese. Dobbiamo andare in un’altra direzione, sia sul piano delle regole, sia su quello della governance aziendale.

Come può il terzo settore contribuire a questa riconfigurazione dell’economia?

Facendo quello che sa fare e facendolo al meglio. Prendiamo il caso degli Stati Uniti: se osservi le istituzioni americane, se le osservi bene intendo, che cosa noti? Noti che quelle di maggiore successo sono le istituzioni no profit. E tra queste istituzioni, particolare successo hanno le università. Direi che se il terzo settore tiene fede ai propri compiti, il suo successo va a un vantaggio di tutti. Non ci sono istituzioni “for profit” di successo.

Eppure, il corporate storytelling ci dice il contrario...

Lo ha detto lei, è corporate storytelling...

Diciamo pure: menzogne.

Infatti l’unico successo concreto di queste “for profit” sta nello sfruttare persone. Sfruttare persone povere. In questo riescono benissimo. Ma se guardi le università come Harvard, le fondazioni, le associazioni che davvero incidono positivamente sul piano economico e sociale, sono tutte no profit. Quando la gente parla dell’economia di mercato, io dico che non siamo una vera economia di mercato. Non lo siamo negli Stati Uniti, dove l’intero settore dell’educazione, dalla Stanford University in giù, è retto da un sistema no profit. Non lo siete in Italia dove – non devo essere io a insegnarvelo – il terzo settore ha un ruolo preminente. Guai se saltasse.

Non capirlo ha dei costi enormi, non crede?

Infatti, ci dimentichiamo che esistono istituzioni importanti che agiscono not -for-profit e, dimenticandocene, tendiamo a non capire la loro capacità di riconfigurare l’intera economia. Pensiamo al settore sanitario: credo che una delle ragioni per cui il sistema sanitario negli Stati Uniti sta andando così male risieda nel fatto che un tempo avevamo strutture che non operavano in primo luogo per profitto, ospedali religiosi e ospedali di comunità per esempio, e ora invece abbiamo “for profit hospitals”. Avevamo compagnie di assicurazione sanitaria cooperative, ora abbiamo imprese di assicurazione sanitaria “for profit”. Quello che voglio dire è che dobbiamo stare attenti ai piccoli cambiamenti. Sono stati i piccoli cambiamenti che hanno cambiato l’intera cultura di queste organizzazioni.

Un esempio positivo di questo no profit americano?

Penso a un istituto finanziario che si è comportato bene, le unioni di credit che sono no profit …

Anche piano del lavoro, oggi più che mai, il no profit ha molto da dire, soprattutto per produrre cambiamenti positivi nella cultura organizzativa.

Credo, infatti, che questa sia la sfida, non per generare ibridi ma per creare mentalità, cultura. Il modo migliore per qualunque paese per ridurre la disoccupazione giovanile resta comunque intervenire sulla disoccupazione complessiva. L’Italia, ora, ha un problema in più. Non solo è uno dei Paesi al mondo dove le diseguaglianze di reddito sono più marcate...

... e questo è già un bel paradosso, vista la presenza di quel terzo settore di cui parlavamo...Chiediamoci cosa accadrebbe se non ci fosse.

Accennava comunque a un problema in più, per l’Italia, sul piano delle politiche del lavoro...
Il problema è l’eurozona, per come è stata configurata. Intervenire sulla flessibilità non porterà a molto, perché anche nei paesi all’interno dell’eurozona in cui si è tentato di incrementare la flessibilità, l’unico risultato è indebolire ancora di più la tenuta interna dell’economia.

Se diciamo eurozona, diciamo in sostanza Germania...

All’interno dell’euro per i giovani italiani è molto difficile essere pienamente occupati, sarebbe facile per la Germania cambiare le sue politiche, per l’Europa cambiare e quando dico “facile” non mi riferisco alle politiche economiche. Parlo di politica. La diseguaglianza è conseguenza di una scelta del sistema politico. Poiché la Germania ha un peso imponente, lo fa valere. Bisogna riformare le regole dell’eurozona, condividendo il debito e cancellando il fiscal compact, tornando a favorire investimenti pubblici. Senza procedere in questa direzione non si uscirà dal problema della disoccupazione di massa che, secondo la Bce, nell’area euro, è al 18,5%.

Conseguenza di questa politica e della gabbia di ferro dell’eurozona è che, in Italia, oggi 1,6 milioni di persone vive in condizioni di povertà assoluta.

Non solo, se i paesi più virtuosi in tema di reddito, lotta alla disuguaglianza e mobilità sociale sono Norvegia (che è fuori dall’eurozona) e Svezia, l’Italia è ai primi posti al mondo per tasso di diseguaglianza, forbice di reddito e immobilismo sociale. In Italia, come negli Stati Uniti, hai un reddito alto se nasci da famiglie con un reddito alto, come negli Stati Uniti. Per questo, se l’eurozona è una trappola, gli Stati Uniti non sono certo il modello.

Si rischia, anche sulle tematiche del lavoro, di dare come il Barone di Münchhausen
che voleva tirarsi fuori dalla palude tirandosi per i capelli.

Tanto più che, in Italia, è in atto un sotto investimento, anche culturale, sulle politiche della ricerca. I ricercatori non trovano lavoro e fuggono all’estero, coloro che potrebbero dare tanto a questo Paese sono costretti in condizioni di precarietà permanente e subiscono disuguaglianze al limite dell’umiliazione. Ecco, se torniamo al punto da cui siamo partiti: anziché invocare austerity o seguire ricette importate da chissà chi e da chissà dove, cercare di ridisegnare i confini dell’economia spingendo sul terzo settore, sulla sua capacità di agire sul legame sociale non sarebbe cosa da poco. Se non ripartiamo da questa forza motrice, sarà difficile. Se vogliamo riscrivere le regole e ridefinire la forma dell’economia, dobbiamo partire dal lavoro e ricordarci che abbiamo delle alternative alla crisi, all’austerity, alla crescita delle diseguaglianze. Una di queste alternative è imparare dal no profit come si opera un vero cambiamento sociale.

http://www.vita.it/it/article/2017/05/17/il-nobel-stiglitz-contro-le-diseguaglianze-investite-sul-terzo-settore/143398/

sabato 6 maggio 2017

Stiglitz: “Germania unica beneficiaria dell’euro.” - Alberto Battaglia

Risultati immagini per stiglitz


“L’euro funziona, professor Stiglitz?”. Una domanda a bruciapelo, quella inviata martedì scorso nel salotto di Giovanni Floris su La7, alla quale il noto premio Nobel per l’economia ha offerto una risposta altrettanto netta: “No”. Ovviamente, non è la prima volta che ciò viene affermato da un importante economista né è la prima volta che lo stesso Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia, sottolinea questo concetto. Allo stesso tempo l’intervista ha offerto una sintesi del pensiero del professore della Columbia University di New York,. che ha esplorato con sufficiente semplicità una serie di concetti spesso fraintesi o mistificati.
In particolare, cosa succede ai Paesi europei dopo la loro rinuncia irreversibile (secondo quanto ribadito a più riprese dalla Bce) al dominio del tasso d’interesse e del tasso di cambio? “Si è creata divergenza e stagnazione”, il contrario di quanto l’Europa unita avrebbe dovuto fare, sottolinea Stiglitz, “i più ricchi si sono arricchiti i poveri si sono impoveriti”. A questo punto il pubblico presente in studio accorda un forte applauso a scena aperta, mentre il professore precisa che lo “spartiacque” segnato dall’euro continua sempre più ad accentuare tali dinamiche. Alla richiesta, sempre molto schietta di Floris sul fatto che sia, ad esempio, la Germania ad essersi arricchita, al contrario dell’Italia, Stiglitz conferma quello che, a giudicare dalla sua espressione facciale, gli pare una lapalissiana ovvietà. La Germania è “il grande beneficiario singolo” dell’Eurozona.
Non sorprende che il Nobel, per queste sue posizioni critiche, sia stato spesso citato dai partiti euroscettici, fra cui Lega Nord e Front National. Eppure, Stiglitz tiene a segnare la sua netta distanza da questi movimenti: “Se [voi italiani] mi aveste chiesto prima se entrare nell’euro, vi avrei detto non fatelo. Ora che ci siete dentro dovete capire che ci sarà un costo per tutto questo, che si pagherà con il costo della vita”. Ma il problema non è quello di uscire dall’euro, secondo Stiglitz, ma è la riforma dell’Eurozona nel suo complesso e soprattutto se è possibile ottenere “un assenso della Germania sulle riforme necessarie”.
Stiglitz, che propugna una diversificazione dell’euro in più velocità, ritiene di non aver bisogno che un sano dibattito sul futuro dell’euro raccolga gli avalli di figure come quella di Marine Le Pen. Secondo il professore, il punto di fondo è che “ripensare il ruolo dell’euro” è l’unico modo per non entrare in conflitto con il fine per il quale è stato creato: aumentare la coesione dell’Unione Europea.
Quanto al caso Mps, Stiglitz ha fatto sapere in un intervento tenuto ieri all’Università di Siena che “la Bce ha tenuto una posizione troppo rigida“.

mercoledì 13 gennaio 2016

Joseph Stiglitz: “per il 2016, non possiamo che sperare nella morte del TPP e in nuovi accordi commerciali” -



L’accordo sul clima di Parigi può essere un precursore dello spirito e dell’atteggiamento mentale necessario per sostenere una cooperazione globale autentica.


L’anno scorso è stato memorabile per l’economia globale. Non solo ha avuto dappertutto prestazioni deludenti, ma sono accadute profonde trasformazioni – nel bene e nel male – nel sistema economico globale. Notevole è stato l’accordo raggiunto il mese scorso sul clima a Parigi. 
In sé, l’accordo è abbastanza lontano dall’imporre il limite di 2°Centigradi del riscaldamento globale, riportandolo ai livelli pre-industriali. Ma va fatta un’avvertenza: il mondo si muove, inesorabilmente, verso la green economy. Un giorno non lontano, l’energia fossile sarà largamente un ricordo del passato. Perciò, chiunque investa nel carbone oggi lo fa a suo rischio. Con più investimenti verdi che si faranno avanti, coloro che vi investiranno, speriamo, potranno controbilanciare il potente lobbismo dell’industria del carbone, che cerca di mettere il mondo a rischio per favorire i suoi interessi di breve respiro.
Pertanto, la mossa di uscire dall’economia ad alto tasso di carbone, dove gli interessi di carbone, gas e petrolio dominano spesso, è uno dei cambiamenti più importanti nell’ordine geoeconomico globale. Molti altri cambiamenti sono inevitabili, data la crescente quota cinese di domanda e offerta. La Nuova Banca dello Sviluppo, istituita dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), è stata lanciata durante l’anno, diventando la principale istituzione finanziaria guidata da paesi emergenti. E, nonostante la resistenza di Barack Obama, è stata istituita anche l’Asian Infrastructure Investment Bank, a guida cinese, che ha dato inizio alla sua operatività questo mese. 
Gli Stati Uniti hanno agito con più saggezza quando è stata colpita la moneta cinese. Non ha ostacolato l’ammissione della moneta, renminbi, nel gruppo di monete che costituiscono la riserva monetaria del Fondo Monetario Internazionale. Inoltre, cinque anni dopo che l’amministrazione Obama aderì ai modesti cambiamenti nel diritto di voto dei cinesi e di altri mercati emergenti in seno al Fondo Monetario – un piccolo tributo alle nuove realtà economiche – il Congresso Usa ha approvato in via definitiva le riforme.
Le decisioni più controverse dell’anno scorso riguardano il commercio. Quasi inosservato dopo anni di colloqui frammentari, il Doha Round del WTO – che al principio avrebbe dovuto risolvere quegli squilibri negli accordi sul commercio del passato che favorivano i paesi sviluppati – è stato tranquillamente sepolto
L’ipocrisia americana – che predica il libero commercio ma rifiuta di abbandonare i sussidi per le coltivazioni di cotone e per altre produzioni agricole  - aveva imposto un ostacolo insormontabile ai negoziati di Doha. Invece dei colloqui sul commercio globale, gli Usa e l’Europa hanno montato una strategia del divide et impera, basata sulla sovrapposizione di blocchi commerciali e accordi.
Di conseguenza, a quello che si intendeva come regime di libero mercato globale venne data invece la caratteristica di regime di mercato gestito in modo difforme. Per molte regioni del Pacifico e dell’Atlantico, il mercato sarà governato da accordi, di migliaia di pagine e pieni di regole complicate che contraddicono i principi fondamentali dell’efficienza e del libero flusso delle merci.
Gli Usa hanno concluso negoziati segreti per giungere a quello che possiamo giudicare come il peggior accordo sul commercio varato in decenni, il Trans-Pacific Partnership (TPP), ed ora affrontano una faticosissima battaglia per la ratifica, dal momento che i principali candidati presidenziali democratici e molti repubblicani hanno dichiarato la loro contrarietà. Il problema non è tanto relativo alle norme commerciali dell’accordo, quanto al capitolo “investimenti”, che limita enormemente le regole ambientali, sanitarie e di sicurezza, e alle regole finanziarie, con importanti impatti macroeconomici.
In particolare, il capitolo fornisce agli investitori esteri il diritto di citare in giudizio i governi in tribunali internazionali privati qualora ritenessero che i regolamenti di quei governi fossero incoerenti con in termini del TPP (regolamenti che compongono 6000 pagine dell’accordo). Nel passato, questi tribunali hanno interpretato la necessità degli investitori di ricevere un “trattamento equo e leale” come fondamento per abbattere le nuove regolamentazioni di un governo – anche quando fossero state non discriminatorie e adottate semplicemente per tutelare i cittadini da eventuali inediti e vergognosi danni.
Anche le regole che proteggono il pianeta dalle emissioni di gas a effetto serra sono vulnerabili: con un linguaggio complicatissimo, finiscono per aumentare le cause intentate da potenti aziende contro governi scarsamente finanziati. Le uniche regole che appaiono sicure sono quelle sulle sigarette (le citazioni in giudizio contro Uruguay e Australia per aver obbligato a mettere sulle etichette un modesto avviso sui danni alla salute hanno attirato parecchie attenzioni negative). Ma resta un mucchio di interrogativi sulla possibilità di citazioni in giudizio in una miriade di altre questioni. Inoltre, la norma sulla “nazione più favorita” garantisce che le aziende possano reclamare il miglior trattamento offerto da qualche trattato del paese ospitante. Ciò alimenta una corsa al vertice – esattamente l’opposto di quanto Obama aveva promesso.
Anche il modo in cui Obama ha sostenuto il nuovo accordo sul commercio dimostra quanto la sua amministrazione sia distante dall’economia globale emergente. Ha ripetutamente detto che il TPP avrebbe determinato chi tra l’America e la Cina avrebbe scritto le regole commerciali del XXI secolo. Il modo corretto sarebbe quello di giungervi collettivamente, con l’ascolto di tutte le voci, e in modo trasparente. Obama ha cercato di fare come sempre, ovvero di fare in modo che le regole che governano il mercato globale e gli investimenti globali fossero scritti dalle corporations Usa per le corporations Usa. E ciò dovrebbe essere inaccettabile per chiunque si impegni per i principi democratici.
Coloro che cercano una più stretta integrazione economica hanno una responsabilità specifica quando si ergono a paladini delle riforme della governance globale: se l’autorità sulle politiche interne viene ceduta a organismi sovranazionali, allora ne consegue che l’elaborazione, l’implementazione e l’adozione di regole e regolamenti dev’essere particolarmente sensibile agli interessi democratici. Sfortunatamente, non è quasi mai accaduto nel 2015.
Per il 2016 dovremmo sperare nella sconfitta del TPP e nell’inizio di una nuova era degli accordi commerciali, che non favoriscano i potenti e puniscano i deboli. L’accordo sul clima di Parigi può essere un precursore dello spirito e dell’atteggiamento mentale necessario per sostenere una cooperazione globale autentica.

mercoledì 7 ottobre 2015

STIGLITZ/HERSH: LA FARSA DELL’ACCORDO TTP DI “LIBERO SCAMBIO”. -

TTIP


Mentre i media all’unisono esaltano il più grande accordo di “libero scambio” della storia recente siglato il 5 ottobre tra gli USA e 11 paesi del Pacifico, il premio Nobel Joseph Stiglitz, in un articolo a quattro mani con Adam S. Hersh pubblicato su Project Syndicate, si incarica di diradare il fitto fumo negli occhi  che come sempre tenta di annebbiare e stravolgere una visione più onesta e chiara. Niente a che fare con la concorrenza e il libero commercio, solo un accordo nell’interesse  e per conto  delle grandi multinazionali che ormai da tempo hanno catturato i governi. Prossimamente la grancassa si scatenerà sul  TTIP tra USA ed Unione europea, con grandi titoli trionfalistici e qualche dubbio che non si può negare infilato tra le ultime righe.  
di Joseph Stiglitz e Adam S. Hersh, 2 ottobre 2015
NEW YORK – Mentre i negoziatori e i ministri degli Stati Uniti e degli altri 11 paesi del Pacifico si incontrano ad Atlanta per definire i dettagli dell’accordo senza precedenti noto come Accordo Trans-Pacifico (TPP), un’analisi più seria si rende necessaria. L’accordo più importante della storia sul commercio e gli investimenti non è come sembra.
Si sentirà parlare molto dell’importanza del Tpp per il “libero scambio”. La realtà è che si tratta di un accordo che punta a gestire i rapporti commerciali e di investimento tra i suoi membri – e a farlo per conto e nell’interesse delle più potenti lobby di ciascun paese. Badate bene: è evidente, considerando le principali questioni sulle quali i negoziatori stanno ancora contrattando, che il Tpp non ha niente a che fare con il “libero” scambio.
La Nuova Zelanda ha minacciato di abbandonare l’accordo a causa del modo in cui il Canada e gli Stati Uniti gestiscono il commercio dei prodotti lattiero-caseari. L’Australia non è soddisfatta di come gli Usa e il Messico gestiscono il commercio dello zucchero. E gli Stati Uniti non sono contenti di come il Giappone gestisce il commercio del riso. Questi settori sono sostenuti da una significativa quota di elettori nei loro rispettivi paesi. Ed essi rappresentano solo la punta dell’iceberg del modo in cui il Tpp porta avanti il suo programma, che nella realtà contrasta il libero commercio.
Per cominciare, consideriamo quello che prevede l’accordo per estendere i diritti di proprietà intellettuale delle grandi compagnie farmaceutiche, come è emerso dalle notizie trapelate sul testo oggetto dei negoziati. La ricerca economica dimostra chiaramente che tali diritti di proprietà intellettuale promuovono una ricerca che nella migliore delle ipotesi risulta debole. In realtà è proprio vero il contrario: quando la Corte Suprema ha annullato il brevetto di Myriad sul gene Brca, questo ha portato a una grande innovazione che ha condotto a test migliori e a costi più bassi. In realtà, le disposizioni contenute nel Tpp limiterebbero la libera concorrenza e aumenterebbero i prezzi per i consumatori negli Stati Uniti e in tutto il mondo – un anatema per il libero commercio.
Il Tpp gestirà il commercio nel settore farmaceutico attraverso una varietà di modifiche di norme apparentemente arcane su questioni come “protezione dei brevetti” “esclusività dei dati” e “biologia”. Il risultato è che le società farmaceutiche avrebbero di fatto il permesso di prolungare – a volte quasi indefinitamente – il loro monopolio sui farmaci brevettati, di tenere i generici più economici fuori dal mercato e impedire ai concorrenti “bioequivalenti” di introdurre nuovi farmaci per anni. Questo è il modo in cui il Tpp gestirà il commercio del settore farmaceutico se gli Stati Uniti andranno avanti per la loro strada.
Allo stesso modo, consideriamo come gli Stati Uniti sperano di usare il Tpp per gestire il commercio nell’industria del tabacco. Per decenni, le società statunitensi del tabacco hanno utilizzato meccanismi di aggiudicazione degli investitori esteri creati da accordi simili al Tpp al fine di combattere le normative tese a contenere la piaga sociale del fumo. In base a questi sistemi di regolazione delle controversie tra investitore e Stato (ISDS), gli investitori stranieri acquisiscono nuovi diritti per citare in giudizio i governi nazionali, ricorrendo ad arbitrati privati vincolanti sui regolamenti che a loro avviso diminuiscono la redditività dei loro investimenti.
Gli interessi delle società internazionali promuovono l’IDSD come un sistema necessario per proteggere i diritti di proprietà laddove manca uno Stato di diritto e dei tribunali attendibili. Ma questo argomento non ha senso. Gli Stati Uniti stanno cercando di introdurre lo stesso meccanismo in un mega-accordo dello stesso tipo con l’Unione europea, L’Accordo transatlantico per il commercio e gli investimenti, anche se non ci sono dubbi circa la qualità dei sistemi giuridici e giudiziari europei.
Certamente, gli investitori – a qualsiasi stato appartengano – meritano tutela contro l’espropriazione o le norme discriminatorie. Ma l’ISDS va ben oltre: l’obbligo di risarcire gli investitori per le perdite dei profitti attesi può ed è stato applicato anche laddove le regole non sono discriminatorie e i profitti sono realizzati causando un danno sociale.
La Philip Morris è attualmente in causa contro l’Australia e l’Uruguay (che non è membro del TPP) che richiedono che siano poste delle avvertenze sui pacchetti di sigarette. Il Canada, minacciato di una denuncia simile, ha fatto marcia indietro sull’introduzione di un’etichetta dello stesso tipo pochi anni fa.
Dato il velo di segretezza che circonda i negoziati TPP, non è chiaro se il tabacco verrà escluso da alcuni ambiti dell’ISDS. In entrambi i casi, rimane la questione principale: queste disposizioni rendono difficile ai governi di svolgere le loro funzioni basilari – proteggere la salute e la sicurezza dei propri cittadini, garantire la stabilità economica e salvaguardare l’ambiente.
Immaginate cosa sarebbe successo se tali disposizioni fossero state in vigore quando sono stati scoperti gli effetti letali dell’amianto. Invece di far cessare l’attività e costringere i produttori a risarcire coloro che erano stati danneggiati, sotto la regolamentazione dell’ISDS i governi avrebbero dovuto pagare i produttori per fare in modo che non causassero la morte dei propri cittadini. I contribuenti sarebbero stati colpiti due volte – prima pagando i danni alla salute causati dall’amianto, e poi risarcendo i produttori per la perdita di profitto una volta che il governo fosse intervenuto per regolamentare il prodotto pericoloso.
Non dovrebbe sorprendere nessuno il fatto che gli accordi internazionali dell’America creino un commercio gestito invece che un libero commercio. Questo è ciò che accade quando il processo decisionale è precluso alle parti portatrici di interessi non-commerciali, per non parlare dei rappresentanti eletti dal popolo al Congresso.

martedì 22 settembre 2015

STIGLITZ: LA FED DEVE PREOCCUPARSI DELLA DISUGUAGLIANZA, NON DELL’INFLAZIONE.


La politica di austerità che la Germania promuove è una politica pericolosa. Joseph Stiglitz


Il Guardian riporta l’ultimo articolo di Joe Stiglitz, in cui l’economista Nobel torna a criticare l’asimmetria con cui la Fed persegue i suoi due obiettivi: a fronte dell’eccessiva attenzione riservata alla lotta all’inflazione, mostra minore sensibilità per la disoccupazione reale e la correlata, crescente diseguaglianza negli Stati Uniti. Se la Fed alza i tassi di interesse ogni volta che c’è un segno di crescita dei salari per evitare che salga l’inflazione, la quota salari non recupererà mai quanto è andato perso nella crisi, la ripresa continuerà ad esserci solo per Wall Street e per l’1%, le disuguaglianze cresceranno assieme alla distorsione del sistema finanziario.
di Joseph Stiglitz, lunedì 7 settembre 2015
Alla fine di ogni agosto, i banchieri centrali e i finanzieri di tutto il mondo si incontrano a Jackson Hole, nel Wyoming, per il simposio economico della Federal Reserve degli Stati Uniti. Quest’anno, i partecipanti sono stati accolti da un ampio gruppo di persone per lo più giovani, tra cui molti afro-americani e ispanici.
Il gruppo non era lì tanto per protestare quanto per informare. Volevano far sapere ai decisori politici lì riuniti che le loro decisioni influenzano la gente comune, non solo i finanzieri preoccupati per quello che fa l’inflazione al valore dei loro titoli o per quello che il rialzo dei tassi d’interesse potrebbe fare ai loro portafogli azionari. E le loro magliette verdi erano decorate con il messaggio che per questi americani non c’è stata alcuna ripresa.
Anche ora, sette anni dopo che la crisi finanziaria globale ha innescato la Grande Recessione, la disoccupazione “ufficiale” tra gli Afro-Americani è oltre il 9%. Secondo una più ampia (e più appropriata) definizione, che comprende i dipendenti part-time in cerca di posti di lavoro a tempo pieno e i lavoratori impiegati marginalmente,il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti complessivamente è del 10,3%.
Ma, per gli afro-americani – soprattutto i giovani – il tasso è molto più elevato. Ad esempio, per gli afro-americani di età compresa tra 17 e 20 anni che hanno un diploma di scuola superiore, ma non sono iscritti al college, il tasso di disoccupazione è superiore al 50%. Il “divario occupazionale” – la differenza tra l’occupazione attuale e quella che ci dovrebbe essere – è di tre milioni.
Con così tante persone senza lavoro, la pressione al ribasso sui salari si sta rivelando anche nelle statistiche ufficiali. Finora quest’anno, i salari reali dei lavoratori che non hanno mansioni di controllo sono scesi di quasi lo 0,5%. Questo fa parte di una tendenza a lungo termine che spiega perché i redditi delle famiglie nel mezzo della distribuzione dei salari sono più bassi rispetto a un quarto di secolo fa.
La stagnazione dei salari aiuta anche a spiegare perché le dichiarazioni dei funzionari della Fed secondo le quali l’economia è praticamente tornata alla normalità sono accolte dal dileggio. Forse è vero nei quartieri dove vivono i funzionari. Ma, con il grosso della crescita dei redditi che da quando è iniziata la “ripresa” negli Stati Uniti sta andando all’1% in cima alla piramide dei redditi, non è vero per la maggior parte delle comunità. I giovani a Jackson Hole, che rappresentano un movimento nazionale chiamato, naturalmente, “Fed Up” [stufi, in italiano, NdT], potrebbero confermarlo.
Ci sono forti prove che le economie hanno prestazioni migliori con un mercato del lavoro a piena occupazione e, come ha dimostrato il Fondo Monetario Internazionale (FMI), minore disuguaglianza (e la prima conduce normalmente alla seconda). Naturalmente, i finanzieri e dirigenti aziendali che pagano 1.000 dollari per partecipare alla riunione di Jackson Hole vedono le cose in modo diverso: salari bassi significano alti profitti, e bassi tassi di interesse significano alti prezzi delle azioni.
La Fed ha un duplice mandato – promuovere la piena occupazione e la stabilità dei prezzi. Ha avuto più che successo con il secondo, in parte perché non ha avuto molto successo col primo. Allora, perché i decisori politici prenderanno in considerazione un rialzo dei tassi di interesse nel corso della riunione della Fed a settembre?
L’argomento usuale per l’aumento dei tassi di interesse è quello di raffreddare un’economia in surriscaldamento, in cui le pressioni inflazionistiche sono diventate troppo alte. Ovviamente non è questo il caso oggi. Infatti, data la stagnazione dei salari e il dollaro forte, l’inflazione è ben al di sotto al target della Fed del 2%, per non parlare del tasso del 4% sostenuto da molti economisti (tra cui l’ex capo economista del FMI).
I falchi dell’inflazione sostengono che il drago dell’inflazione deve essere ucciso prima che si veda il bianco dei suoi occhi:  se non agite subito vi brucerà in un anno o due. Ma, nelle attuali circostanze, un’inflazione più alta sarebbe un bene per l’economia. Essenzialmente non c’è alcun rischio che l’economia si surriscaldi così rapidamente che la Fed non possa intervenire in tempo per prevenire eccessiva inflazione. Qualunque sia il tasso di disoccupazione a cui le pressioni inflazionistiche diventano significative – una questione chiave per i decisori politici – sappiamo che è di gran lunga inferiore al tasso di oggi.
Se la Fed si concentra eccessivamente sull’inflazione, peggiora la disuguaglianza, che a sua volta peggiora le prestazioni economiche complessive. I salari vacillano durante le recessioni; se la Fed alza i tassi di interesse ogni volta che c’è un segno di crescita dei salari, la quota salari diminuirà – non recupererà mai quanto è andato perso nella crisi.
L’argomento per aumentare i tassi di interesse non si concentra sul benessere dei lavoratori, ma su quello dei finanzieri. La preoccupazione è che in un ambiente a basso tasso di interesse, l’irrazionale “ricerca di rendimento” degli investitori alimenta le distorsioni del settore finanziario. In un’economia ben funzionante, ci si sarebbe aspettato che il basso costo del capitale fosse la base di una crescita sana. Negli Stati Uniti, i lavoratori sono invitati a sacrificare i propri mezzi di sussistenza e il proprio benessere per proteggere i finanzieri benestanti dalle conseguenze della propria imprudenza.
La Fed dovrebbe contemporaneamente stimolare l’economia e domare i mercati finanziari. Una buona regolamentazione non significa solo evitare che il settore bancario danneggi il resto di noi (anche se la Fed non ha fatto un ottimo lavoro in questo senso prima della crisi). Significa anche l’adozione e l’applicazione di regole che limitino il flusso di fondi verso la speculazione e incoraggino il settore finanziario a svolgere il ruolo costruttivo che dovrebbe avere nella nostra economia, fornendo capitali per fondare nuove imprese e consentire alle aziende di successo di espandersi.
Spesso sento una grande simpatia per i funzionari della Fed, perché devono effettuare manovre molto pericolose in un contesto di notevole incertezza. 
Ma la manovra in questo caso non è affatto pericolosa. Al contrario, è talmente vicina ad una stupidaggine per quanto può esserla una decisione del genere: adesso non è il momento di dare una stretta al credito e rallentare l’economia.
http://vocidallestero.it/2015/09/19/stiglitz-la-fed-deve-preoccuparsi-della-disuguaglianza-non-dellinflazione/

lunedì 13 luglio 2015

Grecia, gli economisti Usa contro l'austerità. Da Joseph Stiglitz a Paul Krugman: "Ha già fallito".

AUSTERITY

Poco più di 48 ore e il futuro della Grecia e dell’Europa arriveranno a una svolta storica. E 48 ore dopo il responso di domenica sera, proprio secondo Tsipras in un colloquio con la tv Antena, "si troverà un accordo". "Non bisogna trasmettere ai cittadini allarmismo. Avremo un accordo 48 ore dopo il referendum. Questo accordo può essere il cattivo accordo che ci hanno proposto o uno migliore".
Il referendum convocato dal primo ministro greco Alexis Tsipras per sottoporre ai propri cittadini il piano di proposte messo a punto dai creditori si è presto trasformato in una consultazione più ampia. Un voto per dire per dire no, queste almeno le intenzioni del governo ellenico, a una ricetta che negli ultimi anni ha finito per mettere la Grecia in ginocchio, con il Pil caduto del 25% dall’inizio della crisi: quella dell’austerity.
L’edizione Usa di Huffington Post ha raccolto alcune tra le voci più critiche, tra gli economisti, che si sono espresse contro questa impostazione, che avrebbe contribuito ad aggravare, anziché risolvere, le difficoltà del Paese.
“È sorprendente che la troika abbia rifiutato di assumersi la responsabilità per questo o ammesso quanto siano state pessime le sue previsioni e i modelli da essa adottati”,ha spiegato al World Post il premio Nobel Jospeh Stiglitz. “Ma è ancora più sorprendente che i leader europei non abbiano ancora capito la lezione. La troika sta ancora chiedendo che che la Grecia realizzi un avanzo primario di bilancio (al netto degli interessi) del 3,5% del PIL entro il 2018”.
Per il docente di Harvard Ken Rogoff, che invece dell’austerity è quasi considerato uno dei massimi sostenitori, imporre ulteriori misure in questo senso alla Grecia sarebbe inutile se è il governo in prima istanza a non essere determinato a volerle implementare. “Perché le riforme abbiano effetto, il governo greco e il suo elettorato devono prima di tutto crederci”, ha scritto per Project syndacate. Rogoff ha sottolineato come non tutte i programmi di riforme strutturali sono sbagliati, ma nel caso della Grecia potrebbero non essere la migliore risposta.
“In un mondo ideale, offrire un aiuto finanziario in cambio di riforme potrebbe aiutare chi vuole trasformare il Paese in uno stato europeo moderno. Ma vista la difficoltà che la Grecia ha incontrato sinora nel fare i cambiamenti necessari per raggiungere l’obiettivo fissato - ha spiegato - potrebbe essere giunta l’ora di rivedere del tutto questo tipo di approccio alla crisi. Invece di un programma che garantisce dei prestiti ai paesi, potrebbe avere più senso elargire aiuti umanitari indipendentemente dal fatto che la Grecia rimanga o meno un membro dell’Eurozona".
Altri economisti hanno sottolineato come la Grecia sia rimasta intrappolata in un circolo vizioso per via del proprio debito. Le risorse prestate alla Grecia sono servite per rimborsare i creditori privati, piuttosto che il governo greco. “Il salvataggio messo in atto per il settore bancario è stato decisamente qualcosa di più di un normale salvataggio di istituzioni finanziarie di Paesi dell’Europa continentale che erano eccessivamente esposte con la Grecia”, ha spiegato Vicky Price consigliere e analista per il Centre for Economics and Business Research al World Post. “Il punto è che quel debito è stato scaricato in gran parte sui greci”.
Molti analisti hanno invece rilevato come il leader di Syriza Alexis Tsipras sia stato eletto proprio per combattere le proposte dei creditori e di questo gli stessi avrebbero dovuto tenere conto. “La Troika ha utilizzato una sorta di metodo Corelone alla rovescia - ha scritto il premio Nobel Paul Krugman – hanno fatto a Tsipras un’offerta che non poteva accettare”. Per questo – ha continuato Krugman, “l’ultimatum era, in effetti, una mossa per sostituire il governo greco. E anche se non si è dei sostenitori di Syriza, questo dovrebbe essere inquietante per chiunque creda negli ideale europei.

giovedì 11 giugno 2015

STIGLITZ – EUROPA: ULTIMO ATTO?


Su Social Europe  un articolo di Joseph Stiglitz commenta i negoziati tra la Grecia e i paesi creditori. Questi ultimi continuano a insistere su un programma che si è dimostrato clamorosamente distruttivo per la Grecia,  e  il premio Nobel si chiede se, per il bene dell’Europa e del mondo, i leader europei ce la faranno ad arrivare a comprendere quel minimo di economia che possa permettere loro di salvare il progetto europeo. A questo punto, però, se il progetto dell’euro è stato sin dall’inizio un attacco sferrato al mondo del lavoro, allo stato sociale e alla democrazia,  e una guerra economica e finanziaria volta a ridurre a colonie i paesi periferici,   i leader europei in realtà sono perfettamente coerenti rispetto ai loro obiettivi non dichiarati… (CARMENTHESISTER)
Joseph Stiglitz, June 8, 2015
I leader dell’Unione Europea continuano a portare avanti la politica del muro contro muro con il governo greco. La Grecia è venuta incontro alle richieste dei suoi creditori molto più che a mezza strada. Tuttavia la Germania e gli altri creditori continuano a chiedere che il Paese firmi un programma che si è dimostrato fallimentare, e che solo pochi economisti hanno mai ritenuto che potesse o dovesse essere attuato.
Il cambiamento della situazione di bilancio greca, da un ampio disavanzo primario a un surplus, è stato quasi senza precedenti, ma la richiesta che il Paese raggiungesse un avanzo primario del 4,5% del Pil era irragionevole. Sfortunatamente, al tempo in cui la “troika” – la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale – ha per la prima volta inserito la sua richiesta irresponsabile nel programma di finanziamento internazionale per la Grecia, le autorità del Paese non avevano altra possibilità che accettare.
La follia di continuare a perseguire tale programma adesso è particolarmente grave, considerato il calo del 25% del Pil che la Grecia ha dovuto subire dall’inizio della crisi. La troika ha valutato male gli effetti macroeconomici del programma che ha imposto. In base alle sue previsioni, essa riteneva che, tagliando i salari e accettando altre misure di austerity, le esportazioni greche sarebbero aumentate e l’economia sarebbe presto tornata a crescere. Essa inoltre credeva che la prima ristrutturazione del debito avrebbe portato alla sua sostenibilità.
Le previsioni della troika si sono rivelate sbagliate, e gli errori si sono ripetuti. E non di poco, ma di molto. Gli elettori della Grecia avevano ragione a chiedere un cambiamento, e il loro governo ha ragione a rifiutare di firmare un programma profondamente sbagliato.
Detto questo, c’è la possibilità di un accordo: la Grecia ha manifestato la sua disponibilità a impegnarsi in continue riforme e ha accettato l’aiuto dell’Europa nell’attuare alcune di quelle riforme. Una dose di realismo da parte dei creditori della Grecia – su quello che è effettivamente realizzabile, e sulle conseguenze macroeconomiche delle diverse riforme fiscali e strutturali– potrebbe fornire le basi di un accordo, che sarebbe positivo non solo per la Grecia, ma per tutta l’Europa.
Alcuni in Europa, specialmente in Germania, sembrano non dare importanza a una possibile uscita della Grecia dall’Eurozona. Il mercato, affermano, ha già “scontato il prezzo” di una rottura. Alcuni hanno anche suggerito che per l’Unione monetaria sarebbe un fatto positivo.
Io ritengo che tali punti di vista sottostimino in maniera significativa sia i rischi attuali che quelli futuri. Un simile livello di leggerezza era presente negli Stati Uniti prima del collasso di Lehman Brothers, a settembre 2008. La fragilità delle banche americane era nota da tempo – almeno dalla bancarotta di Bear Stearns a marzo. Tuttavia, data la mancanza di trasparenza (dovuta in parte alla debole regolamentazione), sia i mercati che i policymaker non sono stati in grado di valutare bene le interdipendenze tra le istituzioni finanziarie.
In realtà, il sistema finanziario mondiale risente ancora degli effetti del collasso della Lehman. E le banche restano poco trasparenti, e quindi a rischio. Non sappiamo ancora la portata totale dei legami tra le istituzioni finanziarie, compresi quelli che provengono dai derivati e dai credit default swap.
In Europa, possiamo già assistere ad alcune delle conseguenze di una regolamentazione inadeguata e del progetto imperfetto della stessa Eurozona. Sappiamo che la struttura dell’Eurozona favorisce la divergenza, non la convergenza: dal momento che i capitali e le persone qualificate abbandonano le economie colpite dalla crisi, tali paesi diventano meno capaci di ripagare i loro debiti. Poiché i mercati comprendono che una pericolosa spirale al ribasso è strutturalmente insita nell’euro, le conseguenze della prossima crisi saranno molto serie. E un’altra crisi è inevitabile: è nella vera natura del capitalismo.
L’astuzia del Presidente della Bce Mario Draghi, che nel 2012 aveva dichiarato che le autorità monetarie avrebbero fatto “tutto il necessario” per preservare l’euro, finora ha funzionato. Tuttavia la consapevolezza che l’euro non è un impegno vincolante tra i suoi membri renderà molto meno probabile che il trucco funzioni ancora. I rendimenti sui bond subirebbero un’impennata, e nessuna rassicurazione da parte della Bce e dei leader europei sarebbe sufficiente ad abbassarli da livelli stratosferici, poiché il mondo ora sa che le autorità non faranno “tutto il necessario”. Come mostra l’esempio della Grecia, esse faranno solo quello che una politica poco lungimirante richiede.
La conseguenza più importante, temo, è la debolezza della solidarietà europea. L’euro avrebbe dovuto rafforzarla. Invece l’ha indebolita.
Non è nell’interesse dell’Europa – o del mondo – avere un paese alla periferia dell’Europa che viene lasciato solo dai suoi vicini, specialmente adesso, che l’instabilità politica è già così evidente. Il vicino Medio Oriente è in fermento; l’Occidente sta tentando di contenere una Russia nuovamente aggressiva; e la Cina, che era già la maggiore fonte di risparmio del mondo, il maggior paese per scambi commerciali e in complesso la maggiore economia (in termini di parità di potere di acquisto), sta facendo i conti con le nuove realtà strategiche ed economiche dell’Occidente. Non è tempo per l’Europa di dividersi.
Quando hanno creato l’euro, i leader europei si consideravano dei visionari. Pensavano di guardare oltre le necessità a breve termine che solitamente preoccupano i leader politici.
Sfortunatamente, la loro conoscenza dell’economia non è all’altezza della loro ambizione; e la politica in questa fase non ha consentito la creazione di un quadro istituzionale che potrebbe permettere all’euro di funzionare come previsto. Anche se si riteneva che la moneta unica avrebbe portato a una prosperità senza precedenti, è difficile scorgere in tutta l’Eurozona nel periodo pre-crisi un significativo effetto positivo. Da allora in poi, gli effetti negativi sono stati ingenti.
Il futuro dell’Europa e dell’euro ora dipende dalla capacità dei leader politici europei di mettere insieme un minimo di conoscenza economica con una certa lungimiranza e un certo interesse per la solidarietà europea. Probabilmente nelle prossime settimane cominceremo a conoscere la risposta a questo quesito esistenziale.

lunedì 15 ottobre 2012

Stiglitz: Di che cosa avremmo bisogno per uscire dalla crisi. - Joseph E. Stiglitz



Lo scorso settembre, sulle due rive dell’Atlantico, le banche centrali hanno messo in campo alcune misure straordinarie: mentre negli Usa la Federal Reserve ha varato il “QE3” (la terza dose del quantitative easing), la Bce ha annunciato che acquisterà i buoni del tesoro dei Paesi membri dell’Eurozona in difficoltà, in quantità illimitata. I mercati hanno reagito con euforia: negli Usa il valore delle azioni ha raggiunto livelli da post-recessione. Tuttavia, tra gli esponenti politici, soprattutto di destra, c’è chi teme che le recenti misure monetarie possano comportare in futuro effetti inflattivi, o incoraggiare i governi ad allentare i freni della spesa.

Ma di fatto, sia l’euforia degli ottimisti sia i timori dei critici sono infondati. In tempi di capacità produttiva fortemente sottoutilizzata, e a fronte di prospettive deprimenti per l’immediato futuro, il rischio di un’impennata dell’inflazione è minimo.
Nelle iniziative della Fed e della Bce, tuttavia, si possono leggere tre messaggi che avrebbero dovuto portare a una tregua sui mercati. Innanzitutto, il riconoscimento che le azioni precedenti non hanno avuto gli effetti desiderati; di fatto le maggiori banche centrali, che sono le principali responsabili della crisi, hanno capacità assai limitate di rimediare agli errori commessi. In secondo luogo, se la Fed ha annunciato che intende mantenere i tassi di interesse a livelli straordinariamente bassi fino alla fine del primo semestre del 2015, evidentemente non si aspetta una ripresa in tempi brevi. Ciò dovrebbe suonare come un avvertimento per l’Europa, la cui economia è oggi assai più debole di quella americana.

Infine, la Fed e la Bce ci dicono che non saranno i mercati da soli a far tornare la piena occupazione in tempi brevi. Servono stimoli. E questa è anche una risposta a chi, in Europa e in America, chiede l’esatto contrario: un crescendo di austerità.
Ma gli stimoli che servono, sulle due rive dell’Atlantico, sono di tipo fiscale. La politica monetaria si è dimostrata inefficace, ed è quindi improbabile che, continuando su questa strada, e rincarando la dose, si possa portare l’economia a una crescita sostenibile.

Nei modelli economici tradizionali l’aumento della liquidità facilita il credito, soprattutto per gli investitori e talora anche per i consumatori, incrementando di conseguenza la domanda e l’occupazione. Ma consideriamo un caso come quello della Spagna, dove masse di denaro sono fuggite dal sistema bancario e continuano a fuggire, nel momento stesso in cui in Europa si favoleggia di un sistema bancario comune. Non sarà dunque col semplice aumento della liquidità, in parallelo con le attuali politiche di austerità, che si otterrà la ripresa dell’economia spagnola.

Dal canto loro, gli Stati Uniti non hanno dato alcun sostegno alle banche minori, che pure hanno un ruolo fondamentale nel finanziamento delle piccole e medie imprese. Non solo sotto la presidenza di George W. Bush, ma anche sotto quella di Obama, il governo federale ha sborsato centinaia di miliardi di dollari per sostenere le megabanche, lasciando fallire centinaia di piccoli istituti di credito, nonostante la loro importanza cruciale per l’economia.

Ma la stretta creditizia non si allenterebbe neppure se le banche fossero in condizioni di salute migliori. Certo, qualche effetto marginale non è da escludere: se il “QE3” provocherà piccole variazioni dei tassi d’interesse, potremo assistere a un lieve aumento degli investimenti. Un temporaneo rialzo delle azioni potrà forse indurre i più benestanti a consumare di più; e qualche proprietario di immobili sarà in grado di rifinanziare il proprio mutuo e potrà contare, grazie alla diminuzione dei ratei, su una maggiore capacità di spesa.
Ma chi dispone di più denaro sa bene quanto siano effimeri gli effetti delle misure temporanee sul valore delle azioni; e quindi non è propenso a scialare.

In circostanze diverse, l’abbassamento del tasso di cambio conseguente alla riduzione dei tassi d’interesse andrebbe a tutto vantaggio degli Stati Uniti, poiché a pagare le spese di una svalutazione competitiva sarebbero i partner commerciali dell’America. Ma a fronte del rallentamento generale dell’economia, e dato che anche in Europa la tendenza è di ridurre i tassi di interesse, i guadagni sarebbero in ogni caso modesti.

Se in Europa il potenziale positivo degli interventi monetari è maggiore, c’è tuttavia anche qui lo stesso rischio di peggiorare le cose. Per placare le ansie sull’eccessiva prodigalità dei governi, il programma della Bce vincola l’acquisto dei titoli di Stato a una serie di condizioni. Ma se si tratterà di ulteriori misure di austerità non accompagnate da significativi alla crescita, l’effetto sarà probabilmente identico a quello di un salasso: il paziente rischierà di morire prima di poter ricevere un buon ricostituente. Oltre tutto, nel timore di perdere la loro sovranità economica, i governi saranno riluttanti a ricorrere agli aiuti della Bce, che può concederli solo su richiesta.

C’è poi un altro rischio per l’Europa: se la Bce si preoccupa troppo dell’inflazione, mentre dal canto suo la Fed si sforza di stimolare l’economia Usa, i differenziali dei tassi d’interesse contribuiranno a rafforzare l’euro, a tutto danno della competitività dell’Europa e delle sue prospettive di sviluppo.

Sia per l’Europa che per l’America, il pericolo oggi è che i politici e i mercati facciano affidamento sulla politica monetaria per rivitalizzare l’economia; mentre purtroppo, al punto in cui siamo, il suo principale effetto è quello di distrarre l’attenzione dalle misure che servirebbero realmente a stimolare la crescita, quali una politica fiscale espansionistica e una serie di riforme del settore finanziario per incentivare il credito.

L’attuale tendenza recessiva, che dura ormai da cinque anni, non sembra destinata a cambiare in tempi brevi. Questo, in due parole, è il messaggio contenuto nelle misure della Fed e della Bce. I leader politici dovrebbero prenderne atto: prima lo faranno e meglio sarà.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/stiglitz-di-che-cosa-avremmo-bisogno-per-uscire-dalla-crisi/