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giovedì 14 novembre 2019

Le città che possono insegnare a Venezia come difendersi dall'acqua. - Veronique Viriglio

difesa acqua alta olanda russia londra
Oosterscheldekering - barriera di sbarramento - Olanda

L'Olanda, la Russia, la Gran Bretagna e gli Usa possono ispirare la futura difesa della città lagunare attraverso modelli virtuosi e funzionanti. 

Dighe, polder, dune, sbarramenti: sono tanti gli impianti in servizio nel mondo per proteggere città e intere regioni da un eventuale innalzamento del livello delle acque, che in questi giorni infligge danni incalcolabili a Venezia: dall'Olanda, modello in questo settore, alla Gran Bretagna passando per Russia e Stati Uniti.

Olanda.
Con un territorio per il 40% sotto il livello del mare, senza i suoi 18 mila chilometri di dighe, dune e sbarramenti l'Olanda sarebbe solo una grande palude e non la quinta economia dell'Eurozona. Da decenni non solo si sta proteggendo da un potenziale innalzamento del livello delle acque del Mare del Nord ma sta anche esportando le sue soluzioni in tutto il mondo, con 7 miliardi di fatturato annuo.

Nei Paesi Bassi, dopo la grande inondazione della Zelanda nel 1953, è stato realizzato il mega progetto del Piano Delta, andato avanti tra il 1954 e il 1997. Si tratta del più grande sistema al mondo di protezione dal mare a tutela della zona densamente popolata della foce del Reno, della Mosa e della Schelda. Il Piano Delta è costituito da 13 opere idrauliche diverse e innovative: 3 chiuse, 6 dighe e 4 barriere anti mareggiata. Sono tutt'ora una grande attrattiva e caratteristica dell'Olanda, oltre a collegare tra loro in maniera innovativa le isole.

Uno degli impianti più noti è la grande diga di sbarramento Oosterscheldekering, la barriera della Schelda orientale, situata nella provincia occidentale dello Zeeland, costruita tra il 1976 e il 1986, che protegge Amsterdam. Il progetto costò l'equivalente di 2,5 miliardi di euro, vale a dire circa due terzi del costo dell'intero Piano Delta.

La diga anti mareggiata, lunga 9 chilometri - la più estesa nel Paese - è formata da 65 piloni e 62 paratie scorrevoli alte dai 6 ai 12 metri, che si alzano verso l'alto e il basso, azionate dalla J.W. Topshuis, che si trova sull'isola di Neeltje Jans. Le paratie vengono chiuse in media una volta all'anno quando si prevede un innalzamento del livello dell'acqua di tre metri rispetto al NAP, ovvero il "Livello Normale di Amsterdam", utilizzato da secoli in Olanda come punto di riferimento per tutte le misurazioni del livello del suolo.
In 75 minuti le paratie vengono chiuse completamente, proteggendo quindi il paese da eventuali inondazioni dal Mare del Nord. Il progetto iniziale prevedeva la costruzione di una diga chiusa ma poi, grazie alla collaborazione di ambientalisti, pescatori e ostricoltori, e' stato modificato in una diga semi aperta per evitare la scomparsa della flora e fauna marina.
I marinai possono ancora raggiungere il mare aperto attraverso la barriera passando per la chiusa Roompotsluis, quindi andare a pescare le aragoste della Schelda orientale oltre a pesce prelibato mentre vengono sempre coltivate le ostriche della Zelanda. Inoltre la barriera collega anche le isole di Schouwen-Duiveland e Noord-Beveland nella provincia dello Zeeland. L'intera area, importante attrazione turistica, è stata dichiarata parco nazionale con il nome di "Parco nazionale della Schelda orientale".

A proteggere dalle inondazioni costiere Rotterdam e il suo porto è la barriera della Meslant (Maeslantkering) nella provincia Zuid-Holland, localizzata all'imboccatura del Nieuwe Waterweg nel Mare del Nord, realizzata tra il 1991 e il 1997, opera conclusiva del Piano Delta. E' costituita da due paratoie rotanti in acciaio alte 22 metri e lunghe ciascuna 210 metri, azionate da un sistema automatico che si attiva all'innalzamento del livello delle acque. Vengono chiuse annualmente per verificarne il funzionamento e l'intero processo necessita di circa quattro ore, due per la chiusura e due per l'apertura.

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La diga di Maeslantkering

L'8 novembre 2007 le paratoie furono chiuse per affrontare l'emergenza derivata dalla tempesta "Tilo", causa di onde alte a 3 metri di altezza. Negli ultimi anni la città di Rotterdam sta affrontando il problema dell'innalzamento del livello del mare con soluzioni innovative e green: un giardino pensile che può diventare uno Smart Roof per prevedere le precipitazioni e conservare l'acqua piovana e una fattoria galleggiante di 35 mucche che forniscono alla gente del posto la loro pinta di latte fresco al giorno.

Gran Bretagna.
Il Tamigi è traversato da una barriera, la Thames Barrier, alta come un edificio di sei piani che chiude i portelloni quando il mare minaccia di allagare l'entroterra. Situata a Woolwich Reach, a sud dell'abitato di Londra, il suo scopo è quello di prevenire eccezionali ondate di alta marea. La struttura di regolazione del flusso del fiume omonimo e' stata costruita tra il 1974 e il 1984 ed è costata circa 623 milioni di euro.

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Thames Barrier.

È costituita da nove piloni di calcestruzzo e due spalle sulle rive del fiume, suddividendo la larghezza del fiume in quattro canali larghi 60 metri, due più piccoli da 30 metri, tutti navigabili, ed altri quattro larghi 30 metri non navigabili. Comprende paratie costruite in acciaio che ruotano su se stesse per chiudere i varchi in caso di necessità. Sono vuote all'interno e possono essere riempite d'acqua in caso di necessità, divenendo operative e chiuse in soli 15 minuti dalla loro messa in funzione.

Prima del 1990, il sistema era entrato in funzione da una a due volte l'anno in media. Dal 1990 il numero delle chiusure è aumentato a quattro per anno e nel 2003 vennero chiuse per ben 14 maree consecutive. Le barriere vennero chiuse due volte il 9 novembre 2007 per far fronte ad una tempesta sul mare del Nord simile a quella del 1953. Nell'inverno 2013-2014 le paratie sono state chiuse per ben 28 volte, stabilendo un record.

Russia.
Nel 2011 a San Pietroburgo è stata inaugurata una diga colossale per proteggere la città dalle piene del fiume Neva, separandolo dal resto del Golfo di Finlandia. Il dispositivo lungo 25 chilometri, più imponente opera pubblica costruita in Russia negli ultimi anni, costata l'equivalente di 2,7 miliardi di euro, può resistere a piene di oltre 5 metri.

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Diga di San Pietroburgo

La sua costruzione è cominciata nel 1971 e dopo alcuni anni di fermo, negli anni 90 e 2000, il cantiere è stato riaperto dal presidente Vladimir Putin, originario di San Pietroburgo, con l'aiuto di esperti olandesi e grazie al sostegno della Banca europea per gli investimenti. Concepita dal britannico Halcrow Group, la diga è lunga 25,4 km e alta 8 metri.

L'opera di protezione con argini estesi su 23 km è sormontata da un'autostrada a sei corsie e comprende opere idrauliche oltre a due passaggi navigabili da grandi imbarcazione e sei passaggi larghi 300 metri che lasciano transitare l'acqua liberamente. In caso di allerta sportelli e valvole vengono chiusi per formare una barriera totalmente ermetica. La diga è oggetto di critiche da parte degli ambientalisti.

Stati Uniti.
Il 23 agosto 2005 l'uragano Katrina ha sommerso l'80% della città di New Orleans: gli argini dei numerosi canali che la attraversano non hanno retto. In difesa di New Orleans è stato costruito un nuovo anello di dighe, barriere, chiuse e pompe collegate tra loro, lungo 560 chilometri. La città della Louisiana è all'80% sotto il livello del mare.  


https://www.agi.it/estero/difesa_acqua_alta_olanda_russia_londra-6544471/news/2019-11-14/?fbclid=IwAR282egZerBjauuB_uP2sHEIRotympt_HA2w-8Eim9eYHAvMaNzjD4cAFTc

mercoledì 14 febbraio 2018

Ecco perché in Sicilia l’acqua delle dighe finisce in mare! - Mario Pagliaro

Ecco perché in Sicilia l’acqua delle dighe finisce in mare!

In questo articolo illustriamo il perché la Sicilia, pur avendo a disposizione 41 dighe, si ritrova senz’acqua. Tutto quello che si dovrebbe fare per scongiurare l’emergenza idrica. L’integrazione tra dighe e produzione di energia ‘pulita’. Come i Consorzi di Bonifica potrebbero abbattere i costi evitando di tartassare gli agricoltori con canoni idrici esosi. 
La questione dei dissalatori.  

La Sicilia vive una seria crisi idrica dovuta alla prolungata carenza di piogge e a storici ritardi infrastrutturali e gestionali. Che adesso, però, vanno colmati rapidamente e bene con una nuova programmazione regionale: tanto lungimirante quanto concretamente efficace.

Anno 2016: si svuota la grande diga Rosamarina di Caccamo, circa 100 milioni di metri cubi di capienza. Vengono progressivamente gettati a mare 40 milioni di metri cubi in linea ‘con una prescrizione ministeriale’ che la Regione esegue proponendosi di identificare “i punti di percolamento anomali” per poi “inviare i dati al Ministero e concordare il percorso da intraprendere”.

Quaranta milioni di metri cubi d’acqua sono 40 miliardi di litri: pari a 210 giorni di consumi domestici dei residenti della città metropolitana di Palermo, 1 milione e 266mila persone nel 2016, assumendo un consumo medio domestico pari a 150 litri al giorno per abitante (Rapporto Ecosistema Urbano 2017, Legambiente)

Lo stesso, nella splendida diga ad arco di gravità di Caccamo alimentata in gran parte dal fiume San Leonardo, era accaduto nel Marzo 2012 “per evitare esondazioni del fiume San Leonardo a seguito del nubifragio”. E poi ancora nel Marzo 2013 e nel Marzo 2015.

Idem in provincia di Caltanissetta lo scorso Novembre: le forti piogge portano il livello dell’acqua accumulata nelle dighe Comunelli (tra Gela e Butera) e Disueri al livello di guardia per cui “per motivi di sicurezza sono state avviate manovre di alleggerimento mediante lo scarico a mare dell’acqua in eccesso”.

Quale sia il motivo per cui in Sicilia si svuotino le dighe buttando l’acqua a mare lo spiegava nel 2002 l’allora presidente della Regione siciliana audito dalle Commissioni Agricoltura e Territorio del Senato riunite per un’indagine conoscitiva sulla situazione dell’approvvigionamento idrico con particolare riferimento agli usi agricoli delle acque e all’emergenza idrica nei centri urbani in Sicilia.

In Sicilia, spiegava il presidente della Regione, per il 60 per cento degli invasi non è mai stato realizzato il collaudo tecnico – ovvero un insieme di prove tecniche condotte da ingegneri specializzati attraverso specifiche prove di carico. “Non è questa la sede”, tagliava corto, “per cercare di risalire alle responsabilità, sempre difficili da ricostruire in una vicenda tanto complessa… Senza collaudi, la capacità di invasamento di queste strutture diminuisce almeno del 30 per cento, perché il Servizio nazionale dighe non autorizza l’invasamento secondo la capacità massima”.

“I collaudi”, aggiungeva, “purtroppo non si fanno. Lo so che è difficile crederlo, ma per il collaudo delle dighe la legge prevede lo svuotamento degli invasi, prima di effettuare le prove di carico. Quest’anno alcuni invasi risultano vuoti, per cui qualche collaudo probabilmente si farà”.

Inoltre, spiegava ancora l’allora presidente della Regione più grande d’Italia, la capacità degli invasi siciliani è ulteriormente ridotta a causa del progressive accumulo sul fondale dei detriti trasportati dalle acque piovane attraverso i canali di scolo:

“L’accumulo di detriti riduce almeno del 25 per cento la capacità complessiva degli invasi siciliani”.

E infatti, il maggiore quotidiano regionale riportava lo scorso Novembre come la diga Comunelli risultasse “da anni interrata per il 90% della sua capacità e l’arrivo delle piene potrebbe portare l’acqua a superare lo sbarramento artificiale, tracimando a valle in maniera incontrollata. Da qui la decisione di aprire sin da ora gli scarichi, come si fa da tempo. Stessa decisione per la diga Disueri che necessiterebbe di interventi di manutenzione e di consolidamento della struttura portante che presenta lesioni pericolose”.

Le dighe in Sicilia – La Sicilia ospita un numero sorprendente di dighe in esercizio – ben 41 – la cui capacità sfiora gli 1,13 miliardi di metri cubi (fonte: F. Greco, Servizio 4 “Gestione Infrastrutture per le Acque”, Dipartimento dell’Acqua e dei Rifiuti, Regione Siciliana, Situazione attuale e prospettive di intervento per la manutenzione delle dighe in Sicilia, 2017).

Con l’eccezione della provincial di Messina, tutte le province della Sicilia ospitano dighe e relativi bacini artificiali. Molte, ad esempio l’Ancipa a Troina e il lago Arancio a Sambuca, sono anche centrali idroelettriche.

Solo il 51% del volume complessivo di queste acque (578 milioni di metri cubi) è gestito direttamente dalla Regione; le altre, da società private che le hanno avute in concessione dalla Regione. Il 28% delle acque gestite direttamente dalla Regione – ben 161 milioni di metri cubi – però non è autorizzato.

Ciò significa che la Regione nelle dighe che gestisce direttamente può raccogliere un massimo di 417 milioni di metri cubi d’acqua. Ed ecco spiegato perché è costretta ad aprire le paratie e disperdere l’acqua, nel caso in cui l’acqua in una certa diga superi il volume autorizzato.

A prescrivere la massima capienza di una diga in Sicilia come nel resto d’Italia è l’ex Servizio nazionale dighe, oggi divenuto una specifica Direzione generale del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.

La mappa (che potete visionare nella foto sotto)mostra come restino ancora da completare le dighe Blufi e Pietrarossa, cui si è aggiunta – al posto dell’Ancipa oggi regolarmente in esercizio – la diga Cannamasca al confine fra le province di Agrigento e Caltanissetta.



Il cemento, poi, con il tempo deperisce, specie quello di cinquanta anni fa, ovvero prima che venissero migliorati dai chimici gli additivi multifunzionali per cementi e calcestruzzi. E così, praticamente, tutte le dighe siciliane hanno bisogno di interventi per risolvere le criticità che determinano i bassi volume autorizzati.

In una presentazione tenuta lo scorso anno al seminario sulle dighe in Sicilia organizzato dall’Associazione idrotecnica italiana in collaborazione con l’Ordine degli ingegneri di Palermo, il dirigente del Servizio “Gestione infrastrutture per le acque” della Regione spiegava come sia necessario intervenire per migliorare la tenuta idraulica; ripristinare la piena funzionalità degli organi di scarico e delle opere funzionali (ad esempio, le vasche di dissipazione o le case di guardia); e infine per stabilizzare sponde e pendii prossimi alla diga.

Ad esempio, per stabilizzare la sponda in sinistra della diga Disueri occorrerà rivestire a sponda con un pacchetto impermeabilizzante in geomembrana per arrestare la rapida dissoluzione dei gessi abbondanti nelle rocce del Nisseno.

Attuare con urgenza gli interventi sulle dighe esistenti già identificati dalla Regione consentirà di recuperare la piena capacità degli invasi, aumentando di molto la disponibilità di acqua per gli usi civili ed agricoli.

Per uscire poi in via definitiva dal continuo ripetersi delle crisi idriche in Sicilia, la Regione dovrà innanzitutto invertire il recente approccio gestionale, e poi realizzare altri 3 interventi.

Dai tagli agli investimenti – La prima cosa da fare è invertire le politiche gestionali, sostituendo ai tagli realizzati nel corso degli ultimi anni un forte aumento degli investimenti.

Nel 2010, la Regione allocava 9,5 milioni di euro per la gestione di 17 dighe. Nel 2016, con 24 dighe da gestire, le risorse in bilancio erano pari a 3,1 milioni. In altre parole, i fondi disponibili in bilancio per gestire le dighe sono diminuiti del 78% in 7 anni, raggiungendo la cifra di 130mila euro per diga.

Analogamente, il personale della Regione nella struttura organizzativa addetta alle dighe, spiegava ancora il dirigente del Servizio nel suo intervento seminariale, solo nel 2017 ha perso 7 delle 176 unità di personale a causa dell’elevata età media lavorativa che ha portato al pensionamento di alcuni dipendenti.

Occorre quindi aumentare in modo significativo le risorse in bilancio per il Servizio, e rinforzarne lo staff con giovani ingegneri, architetti ed esperti di sostenibilità dello sviluppo, in modo da farne gli attori della nuova programmazione e gestione della risorsa idrica in Sicilia.

Completare le dighe in sospeso e migliorare le condotte mettendole in rete – Nel 2002 al Senato, il presidente pro tempore del governo regionale spiegava come ci fossero 3 invasi di completare: il Blufi, sulle Madonie, i cui lavori erano fermi da 10 anni; l’Ancipa, nell’Ennese; e Pietrarossa, nella zona di Caltagirone, che era allora “quasi totalmente completato, ma con i lavori fermi da oltre 7 anni perché nella fase di ultimazione dei lavori si sono ritrovati i resti di una villa romana”.

La sola diga Blufi, quasi al centro della Sicilia, permetterebbe di canalizzare l’acqua sia ad Est che ad Ovest. Circa metà della diga è già stata realizzata; mentre il potabilizzatore e l’acquedotto a valle sono già pressoché completi. Analogamente, completare i lavori della diga Pietrarossa offrirà alle imprese agricole del vasto territorio di Caltagirone la possibilità di incrementare qualità e quantità delle produzioni agricole locali.

La distribuzione geografica delle piogge in Sicilia presenta forti differenze zonali per cui occorre continuare a mettere in rete fra di loro gli invasi, come già avviene ad esempio con il Lago Arancio di Sambuca che è collegato alle dighe Poma e ‘Mario Francese’ (Garcia); oppure con i collegamenti tra i grandi acquedotti interconnessi fra diverse province che portano l’acqua del lago Ancipa usando le condotte Madonie Ovest per trasportare grandi volumi d’acqua verso territori carenti.

Occorre ripristinare subito le condotte degli acquedotti malfunzionanti. Ad esempio, finanziando al più presto il ripristino integrale dell’acquedotto Nuovo Scillato che, alla fine degli anni Ottanta, iniziò a portare a Palermo e a molti Comuni costieri della provincia le acque della formidabile sorgente Scillato che affiorano a quota 376 metri, a monte di Scillato, con una portata variabile tra 600 e 900 litri al secondo.

Come avviene in molte zone della sismica Sicilia, le tubazioni in acciaio dell’acquedotto iniziarono a danneggiarsi a causa dei continui movimenti franosi indotti da un sisma. Le continue rotture fra il 2009 e del 2013 portarono nel 2013 all’interruzione del servizio.

Nel 2017, con un investimento contenuto (quasi 1,6 milioni di euro), l’azienda pubblica del servizio idrico del capolouogo siciliano (AMAP) ha fatto realizzare la riparazione delle tubazioni comprese fra due contrade utilizzando l’innovativa tecnologia dell’hose lining in cui non è più necessario rimuovere le vecchie tubazioni: ma si utilizzano quelle esistenti inserendovi una tubazione polimerica flessibile costituita da fibre di Kevlar, un polimero che resiste alla trazione 5 volte più dell’acciaio, comprese fra due strati di polietilene leggero.

In questo modo è stato possible ripristinare il collegamento idrico che adesso porta nuovamente a Palermo e ai Comuni costieri alcune centinaia di litri d’acqua al secondo fino ad allora dispersi.

Recupero delle acque depurate – La seconda grande innovazione da portare a termine consiste nel realizzare le opere necessarie al riuso delle acque reflue depurate che, spiegavano i funzionari regionali nell’audizione del 2002 al Senato, “consentirebbero di recuperare per usi irrigui, nel breve periodo, ben 122.092.938 di metri cubi di acqua all’anno” liberando un’enorme quantità di acqua per uso idropotabile.

In attuazione di quanto previsto dal Decreto legislativo n. 152 del 1999 (“Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento”), la Regione già nei primi anni 2000 aveva individuato 32 interventi finalizzati, al costo di 99 milioni di euro, a realizzare le infrastrutture di collegamento tra i depuratori e le vasche di accumulo, a loro volta già collegate con le aree attrezzate per l’irrigazione.

Promozione della raccolta distribuita delle acque piovane – Il terzo intervento che la Regione deve intraprendere è quello di promuovere concretamente e ovunque nel territorio regionale, a partire dalle isole e dalle città, l’adozione diffusa dei sistemi di recupero dell’acqua piovana con cui intercettare l’acqua piovana subito dopo la sua caduta, in prossimità di dove viene poi consumata.

I sistemi hanno un costo molto contenuto, ed allocando una piccola parte delle enormi risorse comunitarie dedicate allo sviluppo sostenibile sarà possibile co-finanziarne l’acquisto da parte di famiglie, aziende ed amministrazioni pubbliche.

I serbatoi dove contenere l’acqua raccolta – invece che sui tetti come avviene in numerosi centri abitati della Sicilia – si spostano alla base degli edifici dove vengono progressivamente riempiti con l’acqua piovana. Utilizzando l’acqua piovana raccolta per tutti gli usi domestici non potabili, una famiglia può facilmente coprire il 50 per cento del proprio fabbisogno idrico. E notevolissimi vantaggi possono conseguire pure le aziende, partendo dagli hotel e dalle altre strutture ricettive.

Solarizzare i bacini – Infine, l’altra cosa da fare è coprire parte degli invasi artificiali gestiti dai Consorzi di bonifica con i sistemi fotovoltaici galleggianti come avviene ad esempio in numerosi bacini del Consorzio di bonifica “Valle del Liri” nel comprensorio di Cassino nel Lazio (foto sotto).



La tecnologia, ormai usata in tutto il mondo – dalla Cina al Regno Unito – è stata inventata proprio in Italia dove le centrali solari galleggianti sulle acque dei Consorzi di bonifica sono già una cinquantina.

In questo modo, si abbattono i costi elevati della bolletta elettrica sostenuti dai Consorzi di bonifica e dagli agricoltori che ricevono dai bacini l’acqua irrigua necessaria alle coltivazioni. E si dimezza, in corrispondenza della superficie coperta dai pannelli solari, anche la quantità di acqua perduta per evaporazione durante la prolungata stagione calda.

Dissalatori? – Nel corso degli ultimi dieci anni Israele (chi scrive si è formato scientificamente in Israele e collabora attivamente con numerosi scienziati israeliani) ha risolto i suoi cronici problemi idrici realizzando enormi dissalatori basati sulla tecnologia ad osmosi inversa, fra cui quello di Sorek, a sud di Tel Aviv, che con i suoi 627mila metri cubi di acqua prodotti ogni giorno è, attualmente, il più grande al mondo.

Ma Israele è un Paese quasi interamente pianeggiante con precipitazioni medie intorno ai 550 mm annui, e un’ampia zona desertica al suo interno (il deserto del Negev).

La Sicilia, che persino nel siccitoso 2016 ha superato i 630 mm di pioggia, ospita enormi catene montuose dove sono conservate straordinarie risorse idriche: come ben sanno le molte aziende che ne imbottigliano una piccola parte prelevandola dalle fonti dell’Etna, dei Nebrodi, o delle Madonie.

I dissalatori hanno senso economico, sociale ed ambientale in zone desertiche, semidesertiche e nelle isole, dove a fronte dei moderni di livello di consumo idrico, e ai picchi dovuti alle presenze turistiche estive, la risorsa raccolta con le piogge è insufficiente. E infatti, da Pantelleria a Lampedusa a Linosa, i vecchi dissalatori sono stati da poco sostituiti da quelli ad osmosi inversa, con un taglio dei consumi elettrici di circa due terzi.

Realizzare dissalatori di grandi dimensioni come quelli con cui Israele oggi produce poco meno del 50 per cento del proprio fabbisogno idrico richiederebbe investimenti molto elevati mentre quelli di esercizio sono calati a tal punto che in Israele producono acqua potabile dall’acqua di mare al costo di 50 centesimi di euro per metro cubo.

Investendo adesso sulle dighe e sulle loro interconnessioni; sul miglioramento delle reti idriche esistenti basato su tecnologie innovative come l’’hose lining e il relining applicate a tutte le tubazioni che in Sicilia sprecano l’incredibile percentuale del 52% dell’acqua che vi è immessa (il doppio di quanto se ne spreca in Piemonte e il triplo della Lombardia, “Giornata mondiale dell’acqua: le statistiche dell’Istat”, 2017); e sulla generazione distribuita basata sui sistemi di raccolta dell’acqua piovana, la Sicilia risolverà in pochi anni i suoi problemi idrici in via definitiva.