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lunedì 8 giugno 2020

Fontana, in arte Scajola. - Marco Travaglio

Fontana querela Il Fatto per il caso-camici in Lombardia - Il Paragone
Si dice che anche gli orologi guasti, due volte al giorno, segnano inevitabilmente l’ora esatta. Ma Attilio Fontana, presidente leghista della Regione Lombardia e noto caratterista del cabaret padano, fa eccezione: non riesce ad azzeccarne una neppure per sbaglio. Com’è noto ai lettori del Fatto, che l’ha anticipata ieri, stasera Report trasmetterà un’inchiesta di Giorgio Mottola su una commessa da 513mila euro per camici, copricapi e calzari medicali affidata senza gara dalla Regione alla Dama Spa, azienda di abbigliamento controllata e diretta dal cognato di Fontana, Andrea Dini, e partecipata dalla moglie di Fontana, Roberta Dini. L’affidamento diretto risale al 16 aprile, in piena emergenza Covid, firmato da Filippo Bongiovanni, nominato da Maroni a dg di Aria Spa, la centrale acquisti della Lombardia: “… in considerazione della vostra offerta, con la presente si conferma l’ordine” da mezzo milione. Fatture il 30 aprile, pagamento in 60 giorni (16 giugno).
Tutto resta top secret fino al 19-20 maggio, quando l’inviato di Report, scoperto il mega-conflitto d’interessi (e forse anche l’abuso d’ufficio patrimoniale), comincia a chiedere notizie e documenti al Pirellone. Poi intervista Andrea Dini, cognato di Fontana. Che gli risponde al citofono e nega tutto: “Non è un appalto, è una donazione, chieda pure ad Aria”. Clic. Mottola risuona spiegando di avere le carte che dimostrano l’ordine di fornitura. E Dini cambia versione, ammettendo ciò che non può più negare, ma precisando che tutto è avvenuto a sua insaputa: “Non ero in azienda durante il Covid… chi se ne è occupato ha male interpretato. Ma poi me ne sono accorto e ho subito rettificato tutto perché avevo detto ai miei che doveva essere una donazione”. “Subito” mica tanto: l’affidamento è del 16 aprile e la “rettifica” arriva solo il 22 maggio, quando già l’inviato della Rai è in giro a fare domande. Solo allora Dama inizia a stornare le fatture, cioè a restituire di fatto i soldi pubblici ad Aria. A quel punto Report interpella Fontana, che risponde tramite il portavoce con un altro capolavoro di insaputismo: “Della vicenda il presidente non era a conoscenza. Sapeva che diverse aziende, fra sui Dama, avevano dato disponibilità a collaborare con la Regione per reperire con urgenza Dpi (dispositivi di protezione individuale, ndr)”. Quindi Fontana sa che l’azienda di cognato e moglie può fornire la merce, allora introvabile, e si è offerta di procurarla alla Regione (e meno male, perché a lui non è venuto in mente di chiederla). Ma non raccomanda al cognato, alla moglie e all’agenzia regionale di fare tutto gratis, per non finire in conflitto d’interessi.
Anzi, l’agenzia regionale concorda con gli uomini di suo cognato (che in pieno lockdown in azienda non c’è e chissà dov’è) fatture per mezzo milione. E Fontana non ne sa niente, né come presidente della Regione né come marito né come cognato: Scajola gli fa un baffo. Non sa neppure che sta nascendo un clamoroso equivoco, perché la ditta di famiglia della sua signora vuol fare una mega-donazione alla sua Regione e quelli di Aria hanno capito di doverla pagare. In compenso sa che Armani vuole donare un milione di camici e lo ringrazia in varie conferenze stampa. Ma del gentile omaggio di Dama non dicono nulla né lui (che sostiene di non averlo saputo, almeno fino a ieri pomeriggio), né la società dei suoi parenti che, titolare del marchio di moda Paul&Shark, sarebbe interessata a far conoscere il suo beau geste gratuito.
Chi legge questa favoletta senza senso ne deduce che l’appalto da mezzo milione andava bene a tutti finché Report non l’ha scoperto. Poi s’è tramutato in donazione e le fatture in errore da “rettificare” ex post, in una corsa precipitosa a nascondere le tracce che moltiplica i sospetti anziché dissiparli. Avete mai visto un tizio accusato di rubare che, per dimostrare di non aver rubato, restituisce il maltolto al proprietario? Peggio la toppa del buco. Ma è solo la prima perché ieri Fontana, anziché dimettersi seduta stante come avverrebbe in un paese civile, ha diffidato Rai e Report “dal trasmettere un servizio che non chiarisca in maniera inequivocabile come si sono svolti i fatti e la mia totale estraneità alla vicenda” (cioè che non affidi il servizio direttamente a lui). Ha annunciato querela al Fatto per aver pubblicato “fatti volutamente artefatti per raccontare una realtà che semplicemente non esiste”: cioè l’affidamento per 513mila euro a Dama siglato dall’agenzia della sua Regione e le note di credito emesse oltre un mese dopo dalla ditta di cognato& moglie per stornare le fatture. Poi, in serata su Facebook, ha smentito sia se stesso (affermando di sapere tutto ciò che prima negava di sapere), sia suo cognato: nessun errore da “rettificare”, ma un normale “ordine” per “forniture” di Dpi, partite il 17 aprile e “accompagnate attraverso regolare fattura stante alla base la volontà di donare il materiale alla Lombardia, tanto che prima del pagamento della fattura, è stata emessa nota di credito bloccando di fatto qualunque incasso” (peccato che le note di credito siano arrivate solo il 22 maggio, 36 giorni dopo l’inizio delle consegne, proprio quando Report iniziava a indagare). Ma forse Fontana voleva soltanto anticipare la sua linea di difesa su questa e altre sue mirabolanti imprese degli ultimi mesi: l’incapacità di intendere e volere.

giovedì 4 giugno 2020

I Migliorissimi. - Marco Travaglio

Sala e Calenda, le nuove ossessioni di Renzi - Lettera43
Non bastando quella dell’Innominabile, un’altra catastrofe letteraria sta per abbattersi sulle librerie italiane (e di riflesso sulla foresta amazzonica): quella di Beppe Sala, lubrificata a edicole unificate dai giornaloni. Il Corriere l’ha affidata alla lingua vellutata di Aldo Cazzullo, Repubblica l’ha fatta turibolare da tal Enrico Letta (giovane pubblicista di belle speranze soltanto omonimo dell’ex presidente del Consiglio), La Stampa ne ha pubblicato il brano più pregnante dal titolo “Non dobbiamo più temere di governare” (sottinteso: sono i cittadini a dover temere di essere governati da noi). Ne emerge un Sala di estrema sinistra, che votava già Pci e mai tradì “gli antenati del Pd” (infatti fu scelto in Pirelli come manager dal ramo trotzkista della famiglia, dove alla grisaglia del cumenda preferiva l’eskimo, e poi come city manager e commissario di Expo da Letizia Moratti, celebre reincarnazione di Anna Kuliscioff), insomma il filosofo anzi il teologo di “una sinistra spirituale” (parole sue) che ora “parla a chi continua a cercare in politica la formula magica per unire il sogno con la realtà”, a mezzadria fra Moro, Dossetti e Prodi (parola di Letta jr.).
Nessun accenno, ci mancherebbe, ai buchi e alle retate di Expo2015. Né a quella quisquilia della condanna a 6 mesi per falso in atto pubblico. Né alle vaccate dette e fatte sul Coronavirus, quando invitava i milanesi ad ammassarsi negli apericena, contribuendo alla diffusione del virus, come se non bastassero quegli altri geni di Fontana&Gallera. Altrimenti non potrebbe distribuire patenti di competenza al governo. Che sì, per carità, fa quel che può, ma ora ci vuole un bel rimpasto per “mettere in campo i migliori”, “persone che abbiano una storia alle spalle, che abbiano gestito organizzazioni complesse”. Tipo lui. Chi ha letto qualche libro sa che il governo dei migliori si chiama da parecchi millenni aristocrazia ed è lievemente incompatibile con la democrazia. Ma noi, gente semplice, quando sentiamo “governo dei migliori”, ci domandiamo subito chi sarebbero costoro e chi dovrebbe deciderli. Nel 2011, quando B. ci fece la grazia di defungere politicamente, speravamo di votare. Ma un anziano monarca seduto al Quirinale decise che non fosse il caso di farci scegliere chi dovesse governarci: temeva che scegliessimo i peggiori. E ci pensò lui: dal suo cilindro uscirono Monti, Fornero, Passera e altri migliori che in un anno e mezzo riuscirono a far rimpiangere i peggiori. Tant’è che nel 2013 il M5S passò da 0 al 25,5%, pareggiando col Pd: Re Giorgio dovette farsi rieleggere per ricacciarli indietro e piazzare Letta jr., B., Alfano e altri migliorissimi.
Poi vennero l’Innominabile&famiglia con Verdini incorporato. Che si convinsero di essere talmente migliori da non accorgersi che gli elettori li schifavano come peggiori, almeno finché non lo scoprirono dalle urne del 2018. Lì vinsero i peggiorissimi, che espressero un premier degno di loro: quello che ci ha portati fuori dalla pandemia e gode di vasti consensi (diversamente dal migliore Macron, praticamente estinto), ma è ovviamente inviso ai migliori. Che passano i giorni ad architettare governi dei migliori. Non c’è solo Sala: c’è pure Calenda, cioè la prova vivente del fatto che “democrazia significa governo degli incolti, mentre aristocrazia significa governo dei maleducati” (G. K. Chesterton). L’altra sera quell’anima in pena di Carletto, che vanta più ospitate in tv che voti, parlando del governo scuoteva la capa e il doppio mento con l’aria di chi la sa lunga: eh no, signora mia, così non va, “ci vuole un governo dei migliori”. Via Conte, “troppo trasformista”: meglio uno lineare come Calenda, che stava in Confindustria, in Ferrari, in Italia Futura con Montezemolo, nella Lista Monti, nei governi Renzi e Gentiloni, nel Pd da renziano e poi da antirenziano e ora è in Azione (di cui è fondatore e unico esponente).
E i ministri migliori? Risatina di sufficienza, come a dire: ci ho la fila sotto casa, basta chiedere. Anzitutto Giorgetti, quello che due anni fa aveva già capito tutto della sanità pubblica (“Ma chi ci va più dal medico di base?”). Poi Zaia (che però fa il presidente del Veneto, sta per essere rieletto e non parrebbe proprio interessato). Ma anche Bonaccini (appena rieletto presidente dell’Emilia-Romagna e dunque anche lui ansioso di entrare nel governo Calenda che, ove mai nascesse, crollerebbe in giornata). E altri due nomi che ti vengono in mente appena pensi ai migliori: il meloniano Crosetto, passato da sottosegretario alla Difesa alla presidenza Aiad (aziende del ramo difesa); e la forzista Gelmini che, non paga di aver tentato di abbattere la scuola pubblica riuscendoci solo in parte, sta ancora cercando i neutrini nel tunnel Gran Sasso-Cern. Chi dovrebbe sostenere in Parlamento questo governo dei migliori, né Sala né Calenda lo spiegano, anche perché in Parlamento non siede né l’uno né l’altro. Però ne parlano, col mignolino alzato all’ora del tè. E tutti gli vanno dietro, più per noia che per convinzione. Poi, quando si arriverà al dunque e si vedranno le carte, si scoprirà che i migliori sono dei peggiori che non ne hanno mai azzeccata una e nessuno si filerebbe se non si spacciassero per migliori. Con una sola eccezione, come diceva Montanelli: “L’unica istituzione italiana dove la competenza è premiata e il merito riconosciuto è il bordello”.