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domenica 21 settembre 2014

Marco Travaglio: “Tiziano act. 10 aziende in trent’anni e un solo assunto: Matteo”

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano: “ziotom@governo.it”

Cari fans, come ho detto nel videomessaggio di venerdì ai sindacati, noi non siamo interessati a uno scontro ideologico sul passato, perché non ci preoccupiamo della Thatcher, ma di Marta e di Giuseppe. L’articolo 18 garantisce lavoro a chi già ce l’ha e non a chi non ce l’ha, creando cittadini di serie A e cittadini di serie B. Per colmare questa diseguaglianza inaccettabile, noi potremmo fare qualcosa per garantire il lavoro anche a chi non ce l’ha, ma sarebbe banale. Perciò preferiamo battere la strada più originale e innovativa: garantire a chi ha un lavoro la certezza di perderlo quanto prima, anche senza giusta causa. Del resto, chi siamo noi per giudicare sulla giustezza di un licenziamento? Mica possiamo costringere un datore di lavoro a tenersi un lavoratore che gli sta sul hazzo. Se gli sta sul hazzo, come giusta causa mi pare sufficiente.
Conosco molti imprenditori che assumerebbero un sacco di giovani, se sapessero di poterli licenziare ancor prima di assumerli. Io, per esempio, a mio padre stavo parecchio sul hazzo. Infatti, dopo una vita da co.co.co., mi assunse come dirigente un minuto prima che mi candidassi alla Provincia di Firenze: tanto si sapeva che sarei stato eletto, mi sarei levato dai hoglioni e i contributi li avrebbe pagati la Provincia, mica lui. Una forma di contratto a tutele crescenti ante litteram: appena cresci, entri in politica a carico dei contribuenti. Ecco, cari Marta e Giuseppe: prendete esempio da Tiziano e Matteo. La finalità sociale dell’impresa, checché ne dica la Costituzione che non a caso stiamo riformando in versione 2.0 per farne una Selfieconstitution, praticamente una SmartCard, è questa: assumere e subito licenziare più lavoratori possibili. A fine anno, chi ne avrà assunti e licenziati di più vincerà una cena con la Boschi. Il secondo classificato, con la Picierno. Il terzo, con la Pinotti. L’ultimo con Orfini, così impara.
Basta con le vecchie dispute ideologiche, i totem e i tabù. E non mi riferisco solo all’articolo 18. Ma anche al mito dello stipendio: chi l’ha detto che chi lavora debba essere pagato? È una bella pretesa! Ma come, io mi sacrifico per darti un lavoro e tu, esoso, dopo un mese vieni subito a battere cassa? Bella riconoscenza. Non avete idea di quanti giovani assumerebbero le aziende senza il fastidio di stipendiarli. Perciò, dopo il Jobs Act, stiamo approntando lo Spartacus Act per ripristinare il lavoro obbligatorio e gratuito. Ora qualche sindacalista gufo, ancorato agli schemi del passato, parlerà di schiavismo: noi preferiamo “servizio civile a costo zero”. Conosco imprenditori, tipo mio padre, che dovendo distribuire giornali per le strade davano un lavoro da strilloni a un sacco di precari ed extracomunitari più o meno clandestini, provenienti da paesi che hanno superato da tempo i miti del posto fisso, del contratto e dello stipendio. Non per nulla, in 30 anni ha avuto 10 società e un solo dipendente: io.
Cari sindacati, dov’eravate mentre noi sperimentavamo su strada (fra Santa Maria Novella e Palazzo Vecchio) questa nuova forma di flessibilità? Chi intendesse delegittimarla con formule obsolete, tipo “lavoro nero”, si rassegni: dopo il Jobs Act e lo Spartacus Act, il governo ha pronto il superemendamento KuntaKinte, come sempre aperto ai vostri suggerimenti: scriveteci a zio  tom@governo.it  . Dopodiché – come ci chiede l’Europa, che non deve darci ordini perché noi li anticipiamo – passeremo a sfatare il più ideologico e pernicioso dei tabù che frenano la crescita e bloccano la ripresa: la pensione. No, non sarà la solita riforma per ritoccare questo o quel dettaglio, ma una scelta molto più radicale: l’azzeramento. Se già quella di essere pagati quando si lavora è una pretesa che non possiamo più permetterci, figurarsi quella di essere pagati quando si smette di lavorare. Troppo comodo (…)

domenica 19 gennaio 2014

Germania, “settimana corta ma stesso stipendio per chi ha figli piccoli”. - Andrea D'Addio

Bambini

Per facilitare le nascite, il ministro tedesco della Famiglia Manuela Schwesig, pensa a 32 ore lavorative dopo il congedo parentale. Alla compensazione della retribuzione erogata dal datore di lavoro pensa lo Stato.

“Una settimana lavorativa di 32 ore per entrambi i genitori finché i figli sono piccoli senza che ci siano ripercussioni sul salario”. E’ questo il progetto che il neo ministro tedesco della famiglia, la socialdemocratica Manuela Schwesig, ha rivelato durante un’intervista concessa al quotidiano BildMentre l’Italia apre alla portabilità del cognome materno, la Germania si interroga su come facilitare le nascite. Il tasso di natalità è fermo all’8,4 ogni mille abitanti, il peggiore tra tutti i paesi dell’Unione Europea. Nonostante l’immigrazione in crescita (+10% nel 2013), secondo le previsioni nel 2025 i tedeschi avranno una forza lavoro minore di 6,7 milioni di individui. Un dato preoccupante che per laSchewsig potrebbe essere parzialmente risolto con un provvedimento che non solo alleggerisce le ore di lavoro dei genitori, ma lo fa senza compromettere gli equilibri di coppia. “Quando è solo uno dei due partner a sacrificare la propria carriera il rischio è che saltino gli equilibri interni alla famiglia”, spiega.
Dal punto di vista fiscale già oggi l’indennità da congedo parentale prevede per un anno l’erogazione del 67% dello stipendio netto percepito fino a quel momento dal genitore per un massimo di 1.800 euro mensili. La proposta delle 32 ore lavorative toccherebbe quindi la fase successiva ai primi congedi, coprendo un’età del bambino che la Schwesig non ha chiarito. L’eventuale minore retribuzione riconosciuta al genitore dal datore di lavoro sarebbe compensata da un alleggerimento del carico fiscale. Meno lavoro, ma anche meno tasse quindi, con lo Stato pronto a finanziare il tutto pescando da quei 23 miliardi di euro previsti per sostenere gli investimenti da qui al 2017. La proposta è stata finora accolta dalla dal ministro del Lavoro Andrea Nahles (anche lei in quota Spd), ma bocciata dagli altri esponenti del governo, Merkel in testa. “Mi chiedo da dove arriveranno i soldi”, si è chiesto perplesso il parlamentare cristiano-democratico Michael Fuchs.
L’uscita della Schwesig però non è stata casuale, i temi di un’intervista con un ministro si concordano per tempo e, così, seppur non in questi termini, sicuramente qualcosa verrà fatto per andare incontro alle esigenze dei genitori, a partire dalla creazione di nuovi asili nido come già promesso dalla Merkel lo scorso agosto. Secondo una statistica del Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung il 60% dei genitori con figlio piccolo vorrebbe passare più tempo in famiglia, ma solo il 14% ci riesce. Un problema che sembra toccare personalmente anche i politici tedeschi.
E così se il segretario dell’Spd, nonché vicecancelliere, Sigmar Gabriel ha spiegato che non potrà partecipare alle riunioni di governo del mercoledì perché “anche mia moglie ha bisogno di tempo per il suo lavoro e quello è il mio giorno per andare a prendere Marie al Kindergarten”, l’ex membro dell’executive board della Bce, Jörg Asmussen ha deciso di dimettersi dalla carica che ricopriva a Bruxelles e di tornare a lavorare a Berlino con un ruolo istituzionale alto, ma comunque di minor prestigio (sottosegretario al Lavoro), “per prendersi cura dei miei due giovani figli”. Facile pensare che dietro al tutto ci sia la voglia di guadagnare le simpatie dell’elettorato, ma a elezioni appena terminate si può davvero sempre pensare male?

mercoledì 4 settembre 2013

Lavoro, il dramma dei disoccupati. I nostri lettori raccontano la crisi.- Stefano Feltri e Francesco Ridolfi

Lavoro, il dramma dei disoccupati. I nostri lettori raccontano la crisi


C'è chi sogna l'estero, chi torna a casa dei genitori, chi cade in depressione, chi chiede aiuto alle associazioni caritatevoli. Alla continua ricerca di un impiego, giovani e meno giovani devono rinunciare all'idea di costruire una famiglia. Le storie raccolte dal fattoquotidiano.it.

Lontano dalla politica, dai ribaltoni, dalle polemiche sulla decadenza di Silvio Berlusconi, c’è ancora la crisi. Dei giovani, ma non solo. Ormai l’insistenza sul dato sulla disoccupazione giovanile, che a luglio è arrivata al 39,5 per cento, suscita una specie di fastidio. Soprattutto perché è noto che quel dato, rilevato dall’Istat, riguarda i ragazzi tra i 15 e i 24 anni anni. “Ma perché continuate a parlare di loro? Il vero disagio comincia dopo, quando ti cresce l’angoscia perché vedi i 30 anni che arrivano o li hai già superati”, scrivono i lettori rispondendo alla richiesta del fattoquotidiano.it di raccontare le storie che si nascondono dietro le statistiche sul lavoro.
Colloqui inutili. Per esempio Giuseppe racconta: “28 anni di Taranto, non trovavo nulla oltre al call center outbound da 450 euro al mese, l’Ilva non assume più. Mi sono trasferito in Emilia Romagna da due mesi, ho fatto dieci colloqui in svariati settori (supermercati, vigilanza, assistenza clienti, Caf, negozi di abbigliamento). Per ogni colloquio si son presentate almeno 20 persone a posto. Sono ancora disoccupato”. Gli risponde subito Jonico: “Anch’io sono tarantino e anch’io vivo in Emilia da quattro anni. Ci sono arrivato con una laurea in giurisprudenza e qualche anno di lavoro negli studi legali come praticante. Ho lasciato perché non ce la facevo più ad essere sfruttato per quattro soldi e perché confrontandomi con colleghi anche abilitati la solfa è sempre quella tranne qualche felice eccezione. Ormai anche chi è abilitato viene pagato una miseria, sempre se lo pagano. L’Emilia Romagna da qualche anno sente la crisi maledettamente e ogni giorno è sempre peggio. Ho fatto un corso professionale sperando di essere assunto da qualche parte. Nulla. Io sto considerando l’estero”.
La depressione. Parte un dibattito, tra Giuseppe e Jonico, su quale sia il Paese migliore per un tarantino che vuole emigrare all’estero. Jonico non ce la fa più: “Sono afflitto da continue emicranie muscolo-tensive. Assumo costantemente antidolorifici, quindi ho le transaminasi alte, nonché, la pressione minima alta. Alterno stati d’ansia, a stati di nervosismo, a stati di depressione. Ci sono delle volte che fatico a respirare”. Perché le sue giornate funzionano così: “Le passo tra leggere un libro, guardare un film, navigare per blog d’informazione, tenere in ordine la casa, cucinare, il tutto condito da un sottofondo di notevole depressione. Non ho alcun rapporto con i miei coetanei che lavorano. Mi sento un difetto sociale”.
Quelli che restano. Chi può cerca la via della fuga all’estero. Poi ci sono quelli che restano, come Valerio Principe: “Ho 30 anni a settembre, vivo da solo, in un appartamento a Roma lasciatomi dalla mia bisnonna e pagato (luce, gas, acqua) da una mamma insegnante elementare. Tutte le nuove generazioni della mia famiglia stanno vivendo sulle spalle delle ricchezze, o per meglio dire degli investimenti immobiliare, che i nostri nonni hanno fatto negli anni del Dopoguerra con tanta fatica, dedizione e sacrificio. Noi siamo tutti laureati, molto più colti, al contrario dei nonni, ma tutti senza un posto in questa società. Siamo diventati parassiti della famiglia”.
Stessa storia per Lallo Lilli: “Ho 28 anni, una laurea in Giurisprudenza e un dottorato di ricerca. Risultato? Mio padre, sant’uomo, continua a passarmi i soldi per mettere la benzina nella mia scassatissima Fiat Punto”. Un lettore milanese che si firma Shadowrunners ha 30 anni e si sfoga così: “Inoccupato. Artista, regista, documentarista. Fare cultura in Italia è impossibile. Non ci sono sostegni, non c’è meritocrazia. Non parlo per me. Magari non sono così bravo, parlo per tanti ragazzi di cui vedo lavori che vengono ignorati. Non parlo perché il nostro primo lungometraggio ha avuto successo in una dozzina di festival internazionali vincendo premi trasversali e nessun riscontro in patria. Fare cultura in Italia è impossibile se non si hanno i 300 euro dei genitori pensionati e un tetto sotto cui stare, è impossibile pensare di creare una famiglia. É un disastro parlare coi coetanei che lavorano in settori diversi, che non capiscono il perché dell’attaccamento a un mondo così. Noi combattiamo coi nostri lavori. Siamo giovani, ci proviamo. Se riusciremo a cambiare qualcosa ben venga. Se non verremo ascoltati ci chiederemo se sia colpa nostra o di un popolo codardo”.
Ritorno dai genitori. Luigi Turbazzi confessa, con nome e cognome, una di quelle storie che di solito restano nell’anonimato. “Classe 1970 quindi non più giovane: in cerca di occupazione da più di un anno con bambina e moglie a carico. Si va avanti con l’aiuto delle associazioni religiose: pasta scatole di fagioli ecc. ecc. Ogni tanto mi pagano le bollette e via con la speranza nel cuore che le cose possano migliorare un giorno”. Anche quella di Stefano Marzeddu, 47 anni, è una storia difficile da raccontare: “Classe 1966, laureato, disoccupato dal 2009, quando la mia azienda è stata venduta e siamo stati tutti licenziati. Avevo un contratto a tempo indeterminato. Anche se il lavoro non mi piaceva e l’azienda era penosa, me lo tenevo stretto. Poi tre anni di mobilità, nei quali ho cercato di investire i soldi per migliorare le mie competenze e andare all’estero. Perché ogni volta che superi le frontiere, ti accorgi che quella è l’Europa vera. Quando torni in Italia sembra di tornare indietro nel tempo. Vivo sulle spalle dei miei genitori, faccio piccoli lavoretti per computer, e se va bene, guadagno 250 euro al mese. In pratica, a 47 anni, vivo con i miei genitori, niente vacanze, niente divertimenti, niente più sogni nel cassetto, niente ambizioni, si vive alla giornata in un paese morto e sepolto, senza prospettive e incivile dalle fondamenta, nel quale servirebbe una rifondazione culturale. Per fortuna che i miei, che hanno vissuto tutta un’altra vita, sono pensionati che stanno bene. Ma io non mi sento più una persona, solo un’appendice dei miei genitori”.
In queste e in decine di altre storie raccolte in poche ore dal fattoquotidiano.it non c’è neppure più l’appello alla politica, l’attesa che qualcuno, da Roma, risolva i problemi. Con una magia berlusconiana o con qualche ammortizzatore sociale più caro alla sinistra. C’è soltanto il desiderio di condividere, di sapere che non si è soli ad affrontare un presente che ha tradito le promesse. Che non è il futuro promesso a chi è nato negli anni Settanta e Ottanta.

lunedì 26 novembre 2012

“In California ho creato il social network per trovare lavoro in Italia”. - Paola Guarnieri


“In California ho creato il social network per trovare lavoro in Italia”


Jacopo Chirici, 27 anni, ha vissuto tra Svezia e Usa. Poi, attraverso la Startup School in Silicon Valley ha creato Rysto, impresa online che aiuta camerieri e gestori di alberghi e ristoranti a incontrarsi per rispondere alle rispettive esigenze. Ed è tornato.

Per sei anni ha fatto di tutto per restare fuori dall’Italia. Finchè ha trovato una buona ragione per tornare. Jacopo Chirici, 27 anni, una laurea in Economia all’Università di Firenze, ha vissuto a lungo tra la Svezia e gli Stati Uniti, accumulando esperienze di studio e di lavoro molto diverse. “Il mio percorso internazionale è partito con l’Erasmus, sei mesi in Svezia, a Goteborg. Mi sono trovato talmente bene che una volta rientrato in Italia ho fatto le valigie, compilato una domanda per un master in Innovation management nella stessa università e sono ripartito. Mentre ero a Goteborg sono stato ammesso ad un Mba alla University of North Florida dove ho trascorso un anno e mezzo”.
Finita l’esperienza negli Stati Uniti Jacopo rientra in Svezia e si lancia in una nuova avventura. “Da studente avevo iniziato a fare il cameriere nei fine settimana, per mantenermi. Al termine del master il proprietario del locale mi ha chiesto di diventare suo socio e prendere la gestione del ristorante. Ho accettato e piano piano, col mio lavoro di cameriere, ho ripagato le quote per concludere l’accordo. È stata dura perché per mesi le mie giornate iniziavano e finivano dentro al ristorante e tutto quello che guadagnavo lo investivo in quel progetto”. Dopo essersi messo alla prova come piccolo imprenditore Jacopo decide di declinare quest’esperienza in un settore più vicino al suo percorso di studi. Partecipa alla Startup School organizzata dalla fondazione Mind the Bridgenella Silicon Valley. “In California ho incontrato tanti ragazzi che erano partiti come me in cerca di fortuna. Ho conosciuto Massimo Fabrizio che è diventato socio nel mio nuovo progetto. In realtà è stato lui ad avere l’idea, ma la mia conoscenza nel settore del project management e l’esperienza in quello della ristorazione sono state fondamentali. Così è nato Rysto”.
Rysto è una startup che aiuta camerieri e gestori di alberghi e ristoranti a incontrarsi per rispondere alle rispettive esigenze. Un social network geolocalizzato che consente ai primi di trovare lavoro, agli altri di reperire facilmente personale anche all’ultimo momento. È questo il motivo che convince Jacopo a rientrare in Italia, per sviluppare la piattaforma insieme ad altri ragazzi. “I miei soci fondatori sono italiani, la startup è italiana e ne siamo fieri. Vogliamo testare il prodotto qui e poi portarlo all’estero, principalmente Stati Uniti e Inghilterra che sono mercati più attivi”. Come in ogni social network anche chi entra in Rysto si crea un suo profilo e può dare la sua disponibilità. Così il lavoratore si costruisce un livello di esperienza incrementato dalle referenze che lasciano i gestori sul sito. Partito lo scorso settembre, Rysto ha già raccolto 2600 iscritti. La maggior parte hanno dai 25 ai 35 anni e non fanno altri lavori. “La vera sorpresa è stata ricevere delle iscrizioni da parte di persone di 40 o 50 anni. Sono poche ma ci sono, alcuni hanno già un’occupazione e lo fanno per arrotondare”. A giudicare dai risultati e dall’interesse degli investitori, la piattaforma arriva al momento giusto, complici forse la crisi e la disoccupazione in aumento. “A volte mi sveglio la notte con il pensiero del lavoro da fare, ho l’impressione di essere entrato in una realtà più grande di me. Da una parte fa paura, dall’altra è affascinante perché ogni giorno imparo cose nuove. Però devi chinare la testa, studiare, imparare e accettare i tuoi limiti”.