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giovedì 8 giugno 2023

“I giovani non hanno più voglia di lavorare”. Quella storia (falsa) che i giornali scrivono da più di 60 anni. -

 

(di Charlotte Matteini – ilfattoquotidiano.it) – I giovani non hanno più voglia di lavorare. E’ ormai una delle affermazioni che ciclicamente impatta sul dibattito pubblico. Non passa giorno che sui media non sia presente un imprenditore che punta il dito contro questi presunti giovani che non vogliono più fare i camerieri, i cuochi, gli operai, gli artigiani, i commessi, gli scaffalisti e chi più ne ha più ne metta. Una tesi smentita da un recente rapporto Eures che racconta come fra gli under 35 domini il lavoro precario nel 67% dei casi e con retribuzioni decisamente più basse della media, meno di mille euro al mese per circa il 40% del campione. Non solo: secondo lo studio del think tank britannico Resolution Foundation, se i figli della generazione X (1966 -1980) hanno raggiunto i 30 anni con un reddito più alto del 30% rispetto ai baby boomers (1946-1965), per le generazioni successive il trend è totalmente invertito. Gli under 35 sono più poveri dei predecessori in media in ogni Paese Europeo. E in Italia questo gap è decisamente più marcato che altrove.

Lo studio di Fairie – Nonostante ogni studio a disposizione descriva una situazione drammatica per le nuove generazioni, la litania contro i giovani sfaticati sembra non avere fine, ma soprattutto sembra che fino a qualche hanno fa gli ex giovani, cioè i figli del baby boom o della generazione X, abbiano passato la loro vita a lavorare a qualsiasi condizione per il puro piacere di farlo, senza mai rifiutarsi. Ilfattoquotidiano.it ha dunque deciso di replicare l’esperimento del ricercatore Paul Fairie, che nell’estate 2022 pubblicò un lungo thread su Twitter raccontando “la breve storia del nessuno vuole più lavorare” attraverso gli screenshot di vecchi articoli giornalistici pubblicati nel corso dei decenni dalla stampa anglosassone. In questo caso la ricerca riguarda gli archivi storici de la Stampa e la Repubblica e il risultato non è diverso da quello di Fairie: già più di 60 anni fa i quotidiani accusavano le giovani generazioni di non aver alcuna predisposizione al duro lavoro. A quelle giovani generazioni appartengono i nostri nonni, i nostri zii, i nostri genitori.

“Nessuno vuole fare il cuoco” – L’8 settembre 1959, La Stampa pubblica un articolo intitolato “Pochi giovani vogliono apprendere l’oscura e raffinata arte del cuoco”, nel quale viene raccontato che i ragazzi in ambito alberghiero preferiscono fare i barman o i portieri d’albergo mentre gli aspiranti cuochi sono ormai una minoranza, nonostante sia un mestiere di estremo prestigio e con potenzialità di carriera non indifferenti. Facciamo un salto avanti fino al 29 ottobre 1977, sempre La Stampa lancia l’allarme: “In Italia sono 196 giovani disposti a lavorare in campagna”. Nell’articolo si racconta che su più di quarantaseimila posti disponibili, in tutto il Paese ci sarebbero solamente 196 giovani disposti a lavorare nei campi e che i mungitori, che possono guadagnare fino a 500mila lire il mese, arrivano dalla Jugoslavia. “A volte dicono di voler lavorare in campagna, poi si scopre che intendevano un lavoro da impiegato in qualche organizzazione agricola. Altri sono attratti da ragioni ideali, ma non immaginano le difficoltà, e al primo ostacolo scappano”, si legge.

“Garantiscono la scolarizzazione di massa” – Sempre nel 1977, viene pubblicato l’articolo: “I giovani premono per il posto ma in settori saturi”. “Non è vero che non ci sia offerta di lavoro da parte del sistema produttivo, ma è un tipo d’offerta che non s’incontra con la domanda, oggi costituita in massima parte da diplomati e laureati”, dichiarava all’epoca Renato Buoncristiani, vicepresidente di Confindustria. “Da anni vado dicendo che occorre una preparazione scolastica più adeguata alla vita. Invece si è garantita la scolarizzazione di massa, ma priva di prospettive, non programmata. Senza tanta demagogia, c’è un momento nella scuola in cui si dovrebbe imporre la selezione”, rilanciava il segretario nazionale della Cisl Luigi Macario.

“Rifiutano i lavori offerti” – Passiamo al 4 novembre 1978, sempre La Stampa si domanda: “Perché molti giovani rispondono negativamente alle offerte di lavoro dell’Ufficio di collocamento?”. “A Roma ci sono quasi 63 mila giovani senza occupazione: eppure di fronte a 296 posti messi a disposizione dal Comune hanno risposto soltanto in 67”, racconta il quotidiano, ponendo l’accento sulle ragioni dei rifiuti: non è una questione di mancanza di voglia di lavorare, il problema sono le condizioni proposte. “Occorre modificare la concezione assistenziale della legge sull’occupazione giovanile. E vanno riviste anche le penali per chi rinuncia all’incarico perché attualmente se uno rifiuta il lavoro che gli viene offerto, tutto ritorna normale e a breve distanza di tempo può presentarsi un’occasione migliore, un posto più sicuro e redditizio”, spiegava il direttore generale dell’ufficio del lavoro Bartolomeo.

“Non vogliono fare sacrifici” – Surreale l’approfondimento pubblicato nel maggio del 1980: “Giovani, belli e mendicanti. I nuovi miserabili che al lavoro preferiscono l’elemosina”. “Rifiutano i sacrifici, restringono i consumi, si avvolgono in un malinteso egocentrismo”, scriveva la cronista Lidia Ravera nell’articolo dedicato ai giovani che avevano scelto di vivere da senzatetto. “Lavorare non è una cosa da persone. Guarda: lavorare ammazza. Fai una cosa di cui non ti frega niente, che non ti fa star bene. E in cambio di cosa?”. “Di soldi”. “E’ una cosa da stronzi, fare in cambio di soldi”. “Allora gli operai sono stronzi”. “No, nun è che so’ stronzi. E’ che so’ poveracci. Non sanno vivere. Operaista non lo sono mai stata, ma reprimo a stento la voglia di pigliare a calci il mio giovane interlocutore”, chiosava Ravera.

La fabbrica dei disoccupati – Passiamo al 1983, con l’articolo: “La fabbrica dei giovani disoccupati”. Nell’articolo un lungo j’accuse contro i giovani da parte degli imprenditori: “Adagiarsi nella routine è uno del difetti del nostro Paese: i giovani che hanno trovato un posto vogliono essere certi che a una certa ora si va a casa, che il weekend è sempre e comunque sacro e Inviolabile”. Dichiarazioni pressoché identiche a quelle rilanciate dalla stampa odierna ogni qualvolta viene data voce alle lamentele dell’imprenditore di turno. “Purtroppo, spesso ci si trova di fronte a due categorie di giovani: una di spocchiosi, quelli cioè che sono convinti di aver appreso tutto sui banchi dell’università: un’altra di disillusi e rinunciatari a causa del lungo peregrinare olla ricerca del primo impiego”, conclude l’articolo.

La soluzione? Rivedere i sussidi – Ma facciamo un balzo in avanti e passiamo al 1994. Anche in questo periodo uno dei principali allarmi rilanciati dai quotidiani nazionali è quello relativo alla disoccupazione di giovani e donne. La soluzione? Rivedere i sussidi. “Un triste primato: troppi disoccupati tra giovani e donne”, titola La Repubblica. I governi devono intervenire riformando, in senso restrittivo, il sistema dei sussidi di disoccupazione, che in alcuni casi svolgono il ruolo di disincentivo al lavoro”, dichiarava l’Ocse, aggiungendo che sarebbe stato necessario rivedere la “durata dei sussidi, l’importo e le condizioni che portano alla concessione dell’aiuto”. Anche in questo caso, numerose sono le analogie con la battaglia per l’abolizione del reddito di cittadinanza. Nel 2002 da Roma parte l’allarme dei ristoratori che non riescono più a trovare cuochi. Si legge su La Stampa: “Cuochi, meno male che ci sono gli immigrati” e proseguendo riporta le dichiarazioni di Giuseppe Sinigaglia, Direttore della scuola alberghiera Enalc e Presidente nazionale dell’Associazione maitre d’hotel di ristoranti e alberghi: “Roma non ha bisogno solo di colf e badanti extracomunitarie, ma anche di addetti alla ristorazione per mantenere viva la tradizione che. diversamente, rischia di morire. E’ ormai dagli anni Settanta che la gran parte degli allievi che hanno frequentato corsi di ristorazione non riesce a inserirsi nel mondo del lavoro per motivi diversi che riguardano sia il livello di scolarizzazione che le complessità insite nel mercato del lavoro. Così mancano cuochi e, paradosso, proprio in Italia patria della cucina, gli operatori sono costretti a ricorrere ai cuochi giovani facendoli venire dall’estero”.

“Non vogliono lasciare casa” – Sempre nel 2002, esce il ritratto dei giovani romani in età da lavoro: “Vuole un “posto fisso”, è attaccato alle proprie abitudini, alla famiglia e agli amici, ha oltre 26 anni e cerca un lavoro. E’ il profilo del giovane di Roma e provincia. Conosce il computer e l’inglese, ma non vuole lavorare all’estero”, sosteneva il rapporto elaborato da Euraction. Nel maggio 2002 esce un rapporto Censis che dipinge in maniera ben poco gradevole i giovani degli anni 2000, ovvero gli attuali 40enni e dintorni: “I giovani italiani hanno sempre meno voglia di lavorare. Non è un pregiudizio ma il risultato di un accurato studio del Censis. Il patologico immobilismo dei giovani nei confronti del lavoro si celano fenomeni diversi intrecciati fra loro. Ad esempio la paura per una condizione strutturale d’ incertezza. Ma anche l’adagiarsi sul salvagente famigliare. In ogni caso la disponibilità a lasciare la cuccia calda del proprio circondario è molta bassa”, si legge su Repubblica.

Infine, per terminare questo breve excursus storico, concludiamo con le lamentele del preside di un istituto salesiano, diffuse da Repubblica nel 2003: “Non è un problema solo di mercato, ma di mentalità dei giovani che, in molti casi, non sanno accontentarsi del primo impiego per poi guardarsi attorno”, dichiarava Paolo Zuccarato, preside dell’ Edoardo Agnelli, storico istituto torinese. “Chi non ha un diploma, ha poche possibilità. L’importante è però entrare, accettare anche se non corrisponde subito alle proprie aspirazioni, magari come orario o salario. Dopo si fa sempre in tempo a cambiare”, concludeva.

https://infosannio.com/2023/06/08/i-giovani-non-hanno-piu-voglia-di-lavorare-quella-storia-falsa-che-i-giornali-scrivono-da-piu-di-60-anni/

domenica 6 febbraio 2022

La sacrosanta protesta dei giovani. - Antonio Padellaro

 

“È doveroso ascoltare la voce degli studenti che avvertono tutte le difficoltà del loro domani”.

Sergio Mattarella

Meno male che si mobilitano, che scendono in piazza, che protestano vien voglia di dire leggendo le diagnosi sul “malessere dei ragazzi”, sulla loro apatia, rassegnazione. Sul “loro stato di salute psichica causato non direttamente dal virus ma dalla cattiva gestione della pandemia che ha compromesso la credibilità di genitori e istituzioni come modello” (la psicologa Stefania Andreoli). Molto si è scritto sugli scontri tra le bande giovanili che si affrontano con forme di estrema violenza. Non solo nelle periferie degradate, e altri luoghi comuni, ma dappertutto: centri storici, quartieri alto borghesi, borghi sperduti e località alla moda. Del resto, perché sorprendersi se trascorsi due anni di restrizioni, proibizioni, sanzioni abbiamo di fronte un contenitore adolescenziale super-compresso la cui energia vitale andrebbe liberata e non repressa. Come ha fatto la polizia del governo dei Migliori manganellando a più non posso nelle manifestazioni (Torino) contro il progetto scuola-lavoro, dopo la morte in fabbrica dello studente Lorenzo Parelli. Eh sì, “la voce degli studenti” andrebbe ascoltata e non soltanto quando vengono sollevate questioni per così dire “corporative”, come le prove di maturità o i programmi ministeriali. Prestare orecchio, spesso distrattamente, ai rumori che provengono da un mondo sconosciuto per poi lasciare tutto come prima?

Quella giovanile dovrebbe essere da anni la “questione nazionale”, e su di essa avrebbero dovuto dirci qualcosa di serio, di fattuale i ministri che lavorano sui temi sensibili della Next Generation Eu: dalla Pubblica istruzione, alla Innovazione, alla Transizione ecologica, alle Politiche giovanili. Per caso, qualcuno li ha sentiti? In quell’Araba Fenice chiamato Pnrr (che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa) c’è scritto che le misure rivolte ai giovani ammontano a 15,55 miliardi di euro, pari all’8,1% sul totale. Un fiume di denaro dagli sbocchi al momento sconosciuti. Nessuno ne sa nulla, a cominciare dai destinatari. Che però se parlano si beccano una manganellata. Mentre chi parla di loro si merita l’applauso.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/06/la-sacrosanta-protesta-dei-giovani/6483517/?utm_content=marcotravaglio&utm_medium=social&utm_campaign=Echobox2021&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR0fvS8qCep2iJrrQQqzk9Dpe2cAd_5YU6MiFWYgSRJLQ30_VDzP6wV9adE#Echobox=1644143802

sabato 29 maggio 2021

Prima casa, zero imposte ai giovani che acquistano: ecco i requisiti. - Angela Busani

 

Tributi eliminati, età, Isee, sanzioni: quali sono gli aspetti da tenere in considerazione per poter acquistare la prima casa con le agevolazioni previste dal decreto Sostegni-bis.

La compravendita della “prima casa” e il mutuo stipulato per finanziarla sono esenti da imposizione se sono stipulati tra il 26 maggio 2021 e il 30 giugno 2022 da persone con meno di 36enni il cui Isee sia non superiore a euro 40mila annui. Lo dispone l’articolo 64, commi 6-8, del Dl 73/21 (Sostegni-bis).
Vediamo in sintesi quali sono i tributi eliminati e quali sono i requisiti per ottenere l’agevolazione.

1. I tributi eliminati.

Nelle compravendite non imponibili a Iva la norma azzera le imposte di registro, ipotecaria e catastale (restano l’imposta di bollo, le tasse ipotecarie e i tributi speciali catastali, per totali 320 euro). Nelle compravendite imponibili a Iva, le imposte di registro, ipotecaria e catastale dovrebbero essere azzerate (per il vero, il comma 7 non lo dice, ma lo si potrebbe desumere con una lettura combinata dei commi 6 e 7) mentre restano, anche qui, il bollo, le tasse ipotecarie e i tributi catastali (320 euro). L’Iva deve essere pagata al venditore, ma l’acquirente matura un credito d’imposta (non rimborsabile) da spendere:

● per pagare imposte di registro, ipotecaria, catastale, sulle successioni e donazioni dovute su atti e denunce presentati dopo la data di acquisizione del credito;

● per pagare l’Irpef dovuta in base alla dichiarazione dei redditi da presentare successivamente alla data dell’acquisto;

● per compensare somme dovute a titolo di ritenute d’acconto, di contributi previdenziali o assistenziali o di premi per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e sulle malattie professionali.

Nei mutui, la norma azzera l’imposta sostitutiva e le imposte di registro, ipotecaria e di bollo.

2. Il requisito dell’età

La legge, usando un gergo più commerciale che giuridico e, inoltre, difficilmente interpretabile, concede il beneficio ai «soggetti che non hanno ancora compiuto trentasei anni di età nell’anno in cui l’atto è rogitato».

Pare di capire che la norma sia stata scritta (e debba leggersi) con lo scopo di applicarsi al soggetto che non abbia compiuto 36 anni nel giorno del contratto.
Anche se una lettura testuale porta a ritenere che chi stipula nel 2021 deve compiere 36 anni dal 2022 in avanti e chi stipula nel 2022 li debba compiere dal 2023 in avanti.
Così, se Tizio stipula in giugno 2021 e compie 36 anni nel dicembre 2021 non avrebbe l’agevolazione, mentre ce l’avrebbe chi stipula in dicembre 2021 e compie 36 anni nel gennaio 2022.

3. L’Isee

Il requisito dell’Isee inferiore a 40mila euro è previsto nel comma 6 (compravendite non imponibili a Iva) e nel comma 8 (contratti di mutuo), mentre non è previsto nel comma 7 (compravendite imponibili a Iva): ma si tratta di una evidente imperfezione del legislatore perché il beneficio sarebbe sfruttabile anche da chi abbia un Isee milionario. L’agevolazione dovrebbe essere applicabile anche all’acquisto compiuto da due persone comprese in due diversi Isee, i quali siano ciascuno di importo inferiore a 40mila euro, ma insieme di importo superiore.

4. Assenza requisiti

Appare abbastanza ovvio che se uno degli acquirenti ha i requisiti e altro acquirente ne sia privo, il beneficio si applica alla sola parte di valore imponibile riferibile all’acquirente dotato dei requisiti richiesti.

5. Le pertinenze

La legge parla di “prime case” e non menziona le pertinenze (cantine, soffitte, autorimesse). Anche qui appare abbastanza ovvio ritenere che la sorte della pertinenza segua quella del bene principale al cui servizio la pertinenza è posta, e ciò sia per la regola generale di cui all’articolo 818 del Codice civile sia per la ragione che il beneficio prima casa agevola espressamente la compravendita delle pertinenze dell’abitazione.

6. Il contratto preliminare

La norma concerne «gli atti traslativi a titolo oneroso» (e, quindi, compravendite, assegnazioni a soci, permute, dazioni in pagamento, transazioni, rendite vitalizie) ma non concerne i contratti preliminari: per questi ultimi restano dovute l’imposta di registro (3% per gli acconti e 0,50% per le caparre confirmatorie), l’imposta ipotecaria 200 euro, l’imposta di bollo (155 euro) e la tassa ipotecaria (35 euro).

7. Le sanzioni

Chi chiede l’agevolazione senza averne diritto subisce il recupero della tassazione ordinaria aumentata del 30%.

IlSole24Ore - Illustrazione di Giorgio De Marinis

sabato 22 maggio 2021

Mutuo prima casa giovani: come ottenere le agevolazioni e chi può accedervi. - Andrea Carli

 

I punti chiave


Un sostegno per chi non ha ancora 36 anni e, senza quel minimo di certezze che un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato o forme di impiego autonomo possono dare, vede l’accensione di un mutuo per acquistare casa un’operazione ai limiti del possibile.

Aiuti acquisto prima casa per under-36.

Come preannunciato dal presidente del Consiglio Mario Draghi in occasione della presentazione del Piano di ripresa e resilienza al parlamento, nel pacchetto delle misure entrate nel decreto Sostegni bis approvato dal Consiglio dei ministri (il testo definitivo non è stato ancora pubblicato in Gazzetta ufficiale) e finanziate con i 40 miliardi di scostamento di bilancio, entrano anche gli aiuti per consentire agli under-36 (in precedenza la soglia era 35 anni) titolari di un rapporto di lavoro atipico di acquistare la prima casa.

Garanzia dello Stato fino all’80% del mutuo.

Questi giovani potranno accedere al Fondo di garanzia per la prima casa. La percentuale di copertura della garanzia passa dal 50 all’80% dei finanziamenti richiesti per l’accensione di un mutuo.

Domande fino al 30 giugno 2022.

Le domande per accedere alla garanzia dello Stato potranno essere presentate fino al 30 giugno 2022 dagli under 36 con un Isee sotto i 40mila euro.

Prima casa, stop imposte di registro fino al 30 giugno 2022.

Fino al 30 giugno dell’anno prossimo gli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di “prime case” di abitazione, a eccezione di quelle di categoria catastale A1, A8 e A9, e gli atti traslativi o costitutivi della nuda proprietà, dell’usufrutto, dell'uso e dell'abitazione relativi alle stesse sono esenti dall'imposta di registro e dalle imposte ipotecaria e castale se stipulati a favore di soggetti che non hanno ancora compiuto trentasei anni di età nell'anno in cui l'atto è rogitato e che hanno un valore dell'indicatore della situazione economica equivalente non superiore a 30mila euro annui.

Credito di imposta sull’Iva corrisposta per l’acquisto.

Per questi atti relativi a cessioni soggette a Iva è attribuito agli acquirenti che non hanno ancora compiuto trentasei anni di età nell'anno in cui l’atto è stipulato un credito d’imposta di ammontare pari all’imposta sul valore aggiunto corrisposta in relazione all'acquisto. Il credito d’imposta può essere portato in diminuzione dalle imposte di registro, ipotecaria, catastale, sulle successioni e donazioni dovute sugli atti e sulle denunce presentati dopo la data di acquisizione del credito, o può essere utilizzato in diminuzione delle imposte sui redditi delle persone fisiche dovute in base alla dichiarazione da presentare successivamente alla data dell'acquisto. Il credito din imposta può altresì essere utilizzato in compensazione (Dlgs 241/97). Il credito d'imposta in ogni caso non dà luogo a rimborsi.

Esenzione dell’imposta sostitutiva su bollo e ipoteche.

Il decreto Sostegni bis prevede infine che i finanziamenti erogati per l'acquisto, la costruzione e la ristrutturazione di immobili ad uso abitativo per i quali ricorrono le condizioni e i requisiti dal decreto e sempreché la sussistenza degli stessi risulti da dichiarazione della parte mutuataria resa nell'atto di finanziamento o allegata allo stesso siano esenti dall'imposta sostitutiva delle imposte di registro, di bollo, ipotecarie e catastali e delle tasse sulle concessioni governative (l’imposta è dello 0,25 per cento).

IlSole24Ore

mercoledì 19 maggio 2021

Mutuo casa giovani: fino a 9mila euro di risparmio su tasse e spese. - Michela Finizio

 

Esenzioni, crediti d’imposta, riduzione dei costi notarili e garanzia più elevata sui mutui: questo il mix di misure contenute nella bozza del decreto Sostegni-bis.

I punti chiave


Sono oltre 3 milioni i giovani tra i 25 e i 35 anni che vivono ancora in famiglia con i genitori, circa la metà del totale contro il 30,5% della media europea. Se si favorisse la loro autonomia abitativa tanto da raggiungere gli standard europei, a cercare casa nei prossimi mesi potrebbero essere circa un milione e 95mila giovani.

È questa la platea a cui si rivolge il mix di misure contenute nella bozza del decreto Sostegni-bis allo studio del Governo, un pacchetto di incentivi all’acquisto della prima casa che, fino al 31 dicembre 2022, prevede:

- l’esenzione dalle imposte di registro, ipotecaria e catastale sugli atti di compravendita, nuda proprietà e usufrutto di case di abitazione (purché non di lusso) a favore di under 36;

- l’esenzione dell’imposta sostitutiva sull’atto di mutuo;

- il riconoscimento di un credito d’imposta come ristoro in caso di Iva pagata sul valore della casa che potrà essere utilizzato in compensazione, nella successiva dichiarazione Irpef o ai fini dell’imposta di registro nei successivi atti di donazione o successione.

Per una giovane coppia, ad esempio, in caso di acquisto di un bilocale da 180mila euro in città tramite mutuo all’80% (si veda la simulazione nella grafica), l’insieme di misure si potrebbe tradurre in un risparmio di circa 2.800 euro se a vendere la casa è un privato: verrebbe cancellata l’imposta di registro che per la prima casa è pari al 2% sul valore catastale dell’immobile (che è 115,5 volte la rendita catastale); così come le imposte ipotecaria e catastali (50 euro ciascuna) e quella sostitutiva (0,25% dell’importo finanziato).

La misura diventa ancor più rilevante se a vendere la casa è un’impresa, ad esempio se si acquista direttamente dal costruttore: lo “sconto” sull’Iva farebbe lievitare il risparmio per gli under 36 fino a 9mila euro. Anche se non si tratta di una vera esenzione Iva, essendoci limiti imposti a livello Ue, ma l’importo di fatto verrebbe “rimborsato” tramite credito d’imposta in un secondo momento.

L’ESEMPIO/1

Le spese legate all'acquisto dell'abitazione (prima casa) da parte di un giovane under 36


L’ESEMPIO/2

Le spese legate all'acquisto dell'abitazione (prima casa) da parte di un giovane under 36


Gli onorari notarili.

Nella bozza del decreto Sostegni-bis è citato anche un dimezzamento degli onorari notarili sulla stipula di questi atti, ma bisognerà vedere la versione finale del testo. «Se si identificano gli onorari notarili con quelli repertoriali - afferma Valentina Rubertelli, presidente del Consiglio Nazionale del Notariato - l’impatto sul costo finale sarebbe scarso, ma di rimando sarebbero preoccupanti le ricadute sulla tenuta degli archivi notarili e della cassa previdenziale del Notariato. Se, invece, l’intento è quello di incidere sui compensi effettivi, essendo stati aboliti i minimi tariffari sin dal 2006, occorrerebbe reintrodurre dei parametri equi in rapporto ai quali ragionare di “calmieramento”».

Oltre alle spese del notaio, resterebbero in carico al giovane acquirente anche gli eventuali costi dell’agenzia immobiliare e quelli dell’istruttoria di mutuo da parte della banca. Cifre che, comunque, tornando all’esempio del bilocale acquistato in città, prevedono circa 10mila euro di spese connesse alla compravendita.

L’accesso al mutuo.

A fare la vera differenza, poi, sarebbe la possibilità di accedere a un mutuo al 100% che consenta di non dover versare il 20% del capitale: per abbattere questa barriera il Governo prevede il rifinanziamento con 55 milioni di euro del Fondo mutui prima casa gestito da Consap che concede una garanzia statale (una sorta di fidejussione) per favorire l’accesso al mutuo nei casi in cui il rapporto rata-reddito del richiedente non è sufficiente e per di più ad un tasso calmierato; è inoltre allo studio l’ipotesi di allargare lo strumento a tutti i giovani under 36, e non solo alle giovani coppie o a coloro che hanno un lavoro atipico come previsto oggi, magari innalzando la garanzia statale dall’attuale 50% dell’importo di mutuo al 70-80%, nell’ottica di “spingere” le 217 banche aderenti all’iniziativa a concedere mutui al 100 per cento.

«Registriamo un forte ritorno di interesse da parte delle famiglie sull’investimento sulla casa», commenta Stefano Magnolfi, executive Director di Crif real estate services. Le richieste di mutuo sono in crescita e, in questo scenario, aumenta il peso degli under 35 che nel primo quadrimestre 2021 sono arrivati a coprire il 29,3% delle istruttorie. «Le misure in arrivo potranno dare un ulteriore impulso al mercato», conclude Magnolfi.

Il fondo prima casa.

Lo strumento
Garanzia pubblica del 50% sull’acquisto della prima casa per un valore massimo di 25mila euro (e non di lusso). Previsto per alcune categorie (tra cui giovani coppie e under 35 con lavoro atipico) un tasso calmierato. Resta facoltà della banca decidere sulla concessione del mutuo e sul ricorso alla garanzia del Fondo.

I numeri.
Le risorse stanziate nel Fondo ammontano a 829,6 milioni di euro. Al 30 aprile 2021 sono state ammesse 222.647 richieste e concesse garanzie per circa 670 milioni, di cui 7,2 milioni effettivamente escusse e 20,3 milioni che risultano sospese o in sofferenza. La dotazione residua è di 155,6 milioni di euro.

IlSole24Ore

domenica 23 agosto 2020

La verità, vi prego, sui “ggiovani”. - Antonio Padellaro

Ecce bombo - Wikipedia
“Ma ecco laggiù un bel tavolo di giovani, corriamo a intervistarli, guadagniamo il loro tavolo, chi prende la parola? Voce: Vito sa fare molto bene il giovane. Giornalista: dicci Vito. Sì, noi stiamo bene insieme, non siamo più gelosi, non siamo più egoisti, adesso per esempio andiamo a prendere un nostro amico e poi tutti insieme andiamo a Ostia a vedere l’alba, ahahahahah”.
“Ecce Bombo”, 1978
Sul podio delle Frasi Strafatte dell’estate 2020 il problema “dei Giovani” trionfa con tre nomination. Speciale Covid: “I giovani non vanno criminalizzati”. L’intramontabile: “Stiamo rubando il futuro ai giovani”. Migliore colonna sonora: Daniela Santanché che danza festosa (“Il ballo del mattone”? “Sapore di mare”?) a difesa del diritto dei “giovani” a divertirsi e contro il governo “liberticida”. Naturalmente, tutto questo agitarsi a loro favore, gonfio di retorica, assai poco interessa ai “ggiovani”, che non leggono i giornali, non guardano i talk e soprattutto ignorano chi sia la Santanché. Quando vengono microfonati mentre sbarcano da qualche traghetto virale per cogliere emozioni in qualche frase smozzicata (ansia? preoccupazione? paura?) da montare poi nei tg serali, sembrano sempre sul punto di sghignazzare in faccia alla telecamera, esattamente come quarantadue anni fa nel film di Nanni Moretti. Indifferenza cordialmente contraccambiata dalla politica del voto di scambio, abbastanza restia a impegnarsi a favore di un ceto anagrafico generico (cosa hanno in comune un diciottenne e un trentenne?), comunque minoritario e incline all’astensionismo in un Paese dove le elezioni si vincono con i vecchi. Illuminante, venerdì sera, la presenza a “In Onda” di una ragazza tunisina di seconda generazione, dall’italiano perfetto, molto più italiana di tanti italiani, ma senza diritto alla cittadinanza italiana poiché non percepisce un reddito annuale di almeno diecimila euro. È il demenziale “comma 22” dell’integrazione per cui se non hai un contratto di lavoro, con relativa soglia di guadagno prevista dalle norme vigenti, non puoi ottenere la cittadinanza, ma se non hai la cittadinanza chi diavolo ti offre un lavoro che non sia in nero e sottopagato? Ebbene, davanti a questo caso di lampante discriminazione giovanile (il famoso futuro scippato) la candidata leghista alla presidenza della Toscana, Susanna Ceccardi ha farfugliato qualcosa confondendo la legge sulla cittadinanza del 1992 con la Bossi-Fini del 2002 che disciplina l’immigrazione, soprattutto quella clandestina. Oltre a essere confusa con chi sbarca dai barconi, la “giovane” Insaf Dimassi ha dovuto subire anche le battute spiritose del direttore di “Libero”, Piero Senaldi. Il quale, ma quale cittadinanza, la esortava piuttosto a scappare dall’Italia. Mancava solo che le dicesse di consolarsi, prima di imbarcarsi a Fiumicino, andando a Ostia a vedere sorgere l’alba.

domenica 22 marzo 2020

La giovinezza resta nei nostri cuori.

Nessuna descrizione della foto disponibile.

Questa foto, con la trasposizione riprodotta, mi è personalmente cara, perché riproduce ciò che penso, ciò che sento, ciò che provo.
Con il passare del tempo, fuori, esteriormente, cambiamo aspetto, ma nel nostro intimo restiamo i bambini e i giovani che eravamo.
Certo, non possiamo più salire le scalea due gradini per volta, ma possiamo sempre sognare di farlo, non possiamo più ballare il rockandroll, ma possiamo sempre sognare di ballarlo, basta chiudere gli occhi e ascoltare la musica.
Cetta

domenica 3 febbraio 2019

Perchè i giovani fanno fatica a trovare lavoro in Italia. - Alberto Magnani

Il lavoro c’è, ma le aziende non scovano « profili adatti». La formazione conta, ma gli studenti si ostinano a disertare le discipline tecniche-scientifiche. O ancora: le posizioni di lavoro ci sono, e stabili, ma i «bamboccioni» si rifiutano di accettare retribuzioni di ingresso inferiori alle proprie aspettative. È il repertorio di ordinanza che si legge sul cosiddetto mismatch, il divario tra le richieste del mercato del lavoro e le competenze offerte dalle nuove generazioni.
A inizio gennaio, il bollettino Excelsior realizzato da Anpal e Unioncamere ha registrato che il 31% delle aziende riscontra «difficoltà di reperimento» per 1,2 milioni di contratti programmati nei primi tre mesi del 2019, con un fabbisogno insoddisfatto di figure tecniche, scientifiche e ingegneristiche. Un dato che fa effetto, se si considera che il tasso di disoccupazione giovanile resta - saldamente - superiore al 30%.
L’equazione suggerita, fra le righe, è che i giovani non riescono ad adattarsi al mercato perché non godono delle qualifiche adatte o disdegnano retribuzioni diverse dalle quelle pretese. Ma è tutto così semplice? Non proprio, almeno per quanto riguarda le competenze. Secondo dati Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, in Italia circa il 40% dei lavoratori non sono compatibili con le qualifiche del loro impiego. Ma la sorpresa è che la quota di sottoqualificati (20%) è praticamente identica a quella dei sovra-qualificati (19%): lavoratori giovani, e meno giovani, con talenti che non riescono a essere assorbiti o valorizzati dal sistema delle imprese italiane. Per un professionista al di sotto delle attese dei datori di lavoro, ce n’è uno che si scontra su un sistema incapace di premiarlo.
High skilled, vade retro.
Il primo handicap deriva dal fatto che la richiesta di profili «high skilled», ad alto tasso di qualifiche, è meno fitta di quanto si potrebbe attendere. Per farsene un’idea basta osservare più a fondo gli stessi dati Excelsior. Il report sottolinea che le difficoltà di reperimento sono cresciute di 6 punti percentuali (dal 25% di gennaio 2018 al 31% di gennaio 2019), aggravandosi nella carenza di professioni specializzate e figure tecniche. Fra gli introvabili assoluti, si legge nell’indagine, spuntano gli specialisti di area scientifica e i tecnici in campo ingegneristico: i famosi profili di area Stem (science, technology, engineering, maths) che latitano dalle nostre scuole superiori e università. Quando si controlla però il totale di posizioni aperte nell’uno e nell’altro campo, emerge che le imprese hanno intenzione di attivare 4.690 contratti per gli specialisti di area scientifica e 7.720 per ingegneri e professioni assimilate: in totale si parla di 12.410 profili, il 2% dei 441.660 che dovrebbero essere contrattualizzati a gennaio.
Viceversa, tre categorie come personale non qualificato per le pulizie (30.870), addetti alle vendite (32.230), addetti alla ristorazione (38.780) incidono sul 23% delle posizioni ambite, quasi un caso su quattro. La domanda di tecnici non è, insomma, stringente come dovrebbe trasparire dagli annunci. Soprattutto se si considera che la materia prima non manca, a dispetto dei vari allarmi sul deficit di risorse Stem. Un report del Centro studi del Consiglio nazionale ingegneri ha registrato solo nel 2016 un totale di 44.336 laureati in ingegneria (20.007 di secondo livello, 24.329 di primo), in rialzo del 2,8% rispetto ai 43.137 del 2015. Se bastassero i numeri nudi e crudi, ci troveremmo di fronte al paradosso di un settore che fatica a trovare meno di 8mila candidati a fronte di una media di laureati annui pari a quasi sei volte. 
Il vero mismatch tra domanda e offerta.
La prima tesi è che le nostre imprese siano inadatte a sfruttare il potenziale dell’offerta di lavoro, soprattutto fra neolaureati e candidati giovani. «In Italia scontiamo una struttura produttiva e una domanda di lavoro poco qualificata, a fronte di un'offerta di lavoro molto qualificata. È questo il vero mismatch», spiega al Sole 24 Ore Giovanna Fullin, docente di sociologia dei processi economici e del lavoro alla Bicocca di Milano. Le cause del divario? Sul basso livello degli impieghi offerti incide, prima di tutto, la dimensione media delle nostre imprese e il loro scarso slancio innovativo. Secondo dati Istat, in Italia si contavano 4.390.911 imprese nel 2016. Quelle di taglia micro, con un numero di dipendenti inferiore al 10, risultano 4.180.870: il 95,2% del totale, contro le appena 3.787 imprese di grande dimensione. Lo 0,08% del totale.
«Si tratta di società che, tendenzialmente, non hanno interesse ad assumere candidati di altro profilo - dice Fullin - Da qui anche i bassissimi valori degli investimenti nazionali in R&D, la ricerca e sviluppo. Un settore che garantirebbe la crescita dell’0ccupazione di qualità». Senza contare un altro gap, ma nel settore pubblico: la diminuzione di offerte di impiego nella Pa, che all’estero viene considerata uno tra i bacini privilegiati per un’occupazione di livello medio-alto. «All’estero la domanda di lavoro qualificata arriva soprattutto dalla Pa - dice - Qui, invece, le opportunità di lavoro anche nel pubblico impiego non hanno fatto altro che contrarsi».
Anelli (Bocconi): alcune lauree ’servono’ più di altre. Però...
Eppure, al tempo stesso, ci sono numeri che vanno in direzione contraria. Al di là delle statistiche Excelsior, e delle varie rilevazioni sui fabbisogni delle nostre imprese, è innegabile che alcuni corsi di laurea offrano ritorni più immediati dal punto di vista lavorativo. E si tratta quasi sempre di discipline di ambito tecnico-scientifico. Secondo dati Alma Laurea riferiti al 2017, il tasso di occupazione a cinque anni dal titolo dei laureati magistrali in ingegneria è pari al 90,1%, mentre la quota di disoccupati si ferma al 2,7% del totale. Nel gruppo letterario, a condizioni analoghe, il tasso di occupazione scende al 74,7%, mentre il tasso di disoccupazione lievita fino al 12,3%. Massimo Anelli, professore associato all’Università Bocconi, spiega che è «difficile non vedere» una correlazione fra scelta universitaria, prospettive di carriera e retribuzioni. In una sua indagine, Anelli ha provato a confrontare l’offerta di laureati fra Italia e Germania.
Risultato: «In Italia abbiamo la metà dei laureati in ingegneria, la metà dei laureati in economia, un quinto dei laureati in informatica - dice Anelli al Sole 24 Ore - E al tempo stesso più del doppio di laureati in scienze umanistiche e scienze sociale. E a 20 anni dal titolo, un laureato in economia può arrivare a guadagnare il 120% in più di un collega delle scienze umane». Certo, aggiunge Anelli, «si tratta di settori dove la ’trasferibilità’ delle competenze è molto elevata - dice - Quindi le nostre aziende fanno fatica a competere con le concorrenti internazionali e ad attrarre talenti: se un ingegnere può scegliere fra lavorare per 30mila euro lordi in una impresa italiana o per 60mila all’estero, dove andrà?».
Il problema: servono tecnici, ma di medio livello
L’effetto è straniante. Come spiega Fabio Manca, economista Ocse, «da un lato abbiamo una quota importante di lavoratori sovraqualificati - dice al Sole 24 Ore - Ma dall’altro resistono delle sacche di competenze che faticano ad essere trovate». Come è possibile? Forse, la chiave di lettura sta nel mezzo. Il nostro sistema economico può aver bisogno nell’immediato di tecnici, ma con un grado di qualifiche meno elevato di quello offerto dai nostri laureati (e dai laureati in generale). Secondo dati citati da Manca, oltre l’80% delle nostre piccole e medie imprese concentra la sua produzione su un unico bene, mentre le grandi imprese tendono nella quasi totalità dei casi alla diversificazione. Con un tessuto economico dominato da imprese medie, piccole e micro, è logico che la domanda di profili tecnici si riferisca a figure «con competenze tecniche, ma non necessariamente elevate come quelle di una laurea - spiega Manca - Ad esempio, basterebbero quelle di un istituto». E qui la palla torna, inevitabilmente, alla vecchia questione della transizione scuola-lavoro: il legame insussistente fra formazione e sistema delle imprese.
Due mondi che non dialogano e si guardano con sospetto, malgrado i vari tentativi di istituire - a parole - un sistema simile al meccanismo duale tedesco: il modello che permette agli studenti delle scuole tecnico-professionali di dividersi fra ore in aula e tirocini in azienda. Manca cita l’esperimento italiano dell’alternanza scuola-lavoro, voluta dall’allora governo Renzi con la legge 107 del 2015 e consistente nel far svolgere un certo numero di ore in azienda agli studenti di licei (200 ore) e, soprattutto, istituti tecnici e professionali. Il tentativo ha dato qualche risultato (secondo dati Almalaurea aumenta del 40,6% le chance di impiego) ma ha rilevato le sue fragilità applicative. «In Italia il rapporto scuola-lavoro non esiste, e quando esiste è conflittuale - dice Manca - La Buona scuola (la riforma che ha istituito il meccanismo dell’alternanza scuola-lavoro, ndr) aveva qualche buona intuizione, ma come spesso succede l’attuazione ha lasciato a desiderare. Ad esempio si è arrivato troppo presti sui licei e non si è dato abbastanza sostegno ai dirigenti scolastici». L’attuale governo Lega-Cinque stelle ha dimezzato il monte orario previsto dal programma.
Il nodo delle retribuzioni
L’unico aspetto che mette d’accordo (quasi) tutti è, anche, quello più evidente: le retribuzioni. Il mercato italiano soffre di un divario salariale rispetto agli altri paesi europei, incentivando quella «trasferibilità» dei lavoratori evocata da Anelli. Il gap tra gli stipendi offerti in Italia e all’estero è tanto discusso da sembrare un luogo comune. Non lo è. Gli ultimi dati Istat sul costo del lavoro mostrano un dato abbastanza scomodo per chi teorizza il «vittimismo» degli under 30 alla ricerca di un impiego compatibile con le proprie ambizioni. La retribuzione lorda oraria in Italia si attesta a 19,92 euro, sotto a una media Ue che si aggira fra i 20 e i 25 euro lordi l’ora, con picchi sopra i 25 euro in Germania e oltre i 35 euro in Danimarca. Non il biglietto da visita più accattivante, quando si entra in un mercato del lavoro.
Anche perché, come ha già scritto il Sole 24 Ore, la curva delle retribuzioni italiane tende a premiare quasi esclusivamente il fattore della seniority: lo stipendio si alza solo in base all’anzianità aziendale, raggiungendo i suoi massimi dopo i 50 anni e non nella fase di picco della produttività (in genere indicata fra i 30 e i 40 anni). Una visione “anagrafica” delle retribuzioni che sfavorisce la gratificazione economica dei lavoratori più giovani, tarpandone le ambizioni o la crescita effettiva in azienda. I numeri esorbitanti degli espatri derivano anche da qui, soprattutto se si affrontano le motivazioni che hanno indotto al trasferimento. Nel 2018 si sono registrati un totale di oltre 128mila cambi di residenza, con una quota del 37,4% del totale di età compresa fra i 18 e i 34 anni. Un’indagine Istat ha evidenziato che, sempre l’anno scorso, un totale di 28mila laureati ha lasciato il Paese, in rialzo del 4% rispetto al 2016. Il primo fattore di fuga sono le «condizioni negative del mercato del lavoro».

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