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martedì 3 dicembre 2013

Vauro e Dario Fo - botta e risposta



QUESTA È LA LETTERA CHE Vauro HA SCRITTO A Dario Fo che POI risponde...!!!!!

Caro Dario,

ma che ci facevi su quel palco?
"Dobbiamo vincere e vinceremo". Che brutte parole. Sì, certo, c'era anche la parola "rivoluzione" che ti piace e piace anche a me. Però non è rivoluzione strillare che tutti sono morti, cadaveri. E se lo è non mi piace. Non mi piacciono i portatori di verità assolute ed indiscutibili, non mi piace chi non ha dubbi e non mi piacciono nemmeno le piazze quando non sanno che ripetere le parole del capo. Ecco sì, le parole del capo. Condivido rabbia e sdegno ma non posso condividere parole macabre e di macabra memoria.

Tu credo mi possa comprendere perché sai meglio di me quanto le parole siano anche contenuto. Allora scusami Dario per quello che ti chiedo. Ti chiedo di scendere da quel palco Compagno Dario. Scendi per favore.

Con l'affetto e la stima di sempre,
Vauro




Caro Vauro,

le parole più brutte le ho sentite pronunciare da chi si spaccia per uomo di sinistra, gente come Renzi, D'Alema, Bersani ecc... le piazze, gli "spacciatori" di sinistra non le riempono più nemmeno pagando, figuriamoci in una giornata di tramontana gelida a Genova. Caro Vauro, apri gli occhi e respira a pieni polmoni, stiamo già vincendo e i giornali e i media lo dimostrano con le loro campagne demigratorie quotidiane... per quello che riguarda invece la Rivoluzione, è già iniziata ma forse per accorgersene dovresti svegliarti e guardare OLTRE! Ti chiedo di scendere da quel carro, sta affondando nel fango dell'ipocrisia, la falce e il martello sono lontani ricordi, la bandiera non è più nemmeno rossa e mai più trionferà. Scendi per favore.

Con Stima e affetto di sempre.
Dario


https://www.facebook.com/photo.php?fbid=269947809819477&set=a.150173721796887.35014.150159821798277&type=1&theater

domenica 28 ottobre 2012

Quelle mail e la testimonianza di Tatò. Così i giudici hanno deciso la condanna. - Luigi Ferrarella


Nella sentenza si ricorda che è stato accertato fino alla Cassazione che le società offshore erano del Cavaliere.

MILANO - Una mail, almeno 4 lettere, minimo 4 testimoni: non è in base al teorema del «non poteva non sapere», ma, all'osso, in base a questi elementi che i giudici d'Avossa-Guadagnino-Lupo traggono in primo grado la «piena prova, orale e documentale, che Silvio Berlusconi abbia direttamente gestito» l'«ideazione» dal 1985, la «direzione», e poi anche da premier nel 1994 la «regia» di una «scientifica e sistematica evasione fiscale di portata eccezionale» attraverso «l'artificiosa lievitazione dei prezzi» dei diritti tv, prima nei frazionati passaggi infragruppo tra offshore solo apparentemente estranee a Fininvest/Mediaset, e poi tramite fittizi intermediari come il produttore americano Frank Agrama. Un'attività che l'ex premier ha «ramificato in infiniti paradisi fiscali con miriadi di società satelliti e conti», e «dalla quale ha conseguito un'immensa disponibilità economica all'estero, in danno non solo dello Stato, ma anche di Mediaset e, in termini di concorrenza sleale, delle altre società del settore».
La mail del contabile Fox
Il 12 dicembre 1994 un contabile della casa cinematografica «Twenty Century Fox», Douglas Schwalbe, scrive una mail al suo capo Mark Kaner per riferirgli quanto un addetto all'ufficio acquisti di Reteitalia e Mediaset, Alessandro Pugnetti, «mi ha spiegato con la speranza che tutto rimanesse tra me e lui». E cioè che l'approvvigionamento dei diritti tv è costruito in quel modo «perché non si vuole che Reteitalia faccia utili o faccia figurare utili», nel senso che «i profitti vengono tenuti in Svizzera, i profitti non sono proprio parte delle reti televisive italiane», che anzi «sono state ideate per perdere soldi», cioè appunto per evidenziare maggiori costi e dunque pagare meno tasse. «In due parole - esemplifica il contabile - l'impero di Berlusconi funziona come un elaborato shell game con la finalità di evadere le tasse italiane», dove shell game è «un gioco che consiste nel prendere tre gusci di noci vuoti e nascondere sotto uno di essi il nocciolo di una ciliegia, chi gioca deve indovinare dove il nocciolo è stato nascosto».
Le conferme dentro Fininvest
Schwalbe e Kaner al processo confermano il contesto della mail, e Pugnetti, premettendo che le majors premevano per avere spiegazioni su ritardi nei pagamenti, aggiunge: «Io affrontai questo problema con Carlo Bernasconi», scomparso responsabile Fininvest degli acquisti di diritti tv, «gli spiegai che avrei dovuto parlare con la Fox, gli esposi quello che avevo capito di questi meccanismi e lui mi confermò. Mi disse: "Sì, è così, vai e spiegaglielo", con riservatezza, perché comunque sono meccanismi aziendali».
Ulteriore conferma il Tribunale trova nell'addetta alla gestione contratti di Reteitalia e Mediaset, Silvia Cavanna. «Andavo da Bernasconi, il quale mi dava la dritta: "Allora questo mese, questo trimestre, dobbiamo arrivare in termini di costo a 5 milioni di dollari, a 20 milioni, eccetera". Però il costo dei diritti era di meno, sensibilmente di meno». E perciò in questa fase a Cavanna arrivava l'indicazione di gonfiare i costi d'acquisto, con l'espressione «picchia giù con i prezzi» rivoltale «da Bernasconi - sottolinea il Tribunale - solitamente dopo incontri ad Arcore con Berlusconi».
Tatò e il tabù impenetrabile
Del resto Franco Tatò, amministratore delegato Fininvest 1993-1994 chiamato per tagliare i costi, ha deposto che invece quella dei diritti tv «era un'area di attività assolutamente chiusa e impenetrabile» (aggettivo poi ridimensionato), ma soprattutto «gestita a più alto livello da Bernasconi che dava conto della sua attività direttamente a Berlusconi e non riferiva al consiglio di amministrazione». Aggiungono i giudici che «lo stesso ha dichiarato il responsabile amministrativo Gianfranco Tronconi», mentre «nessuno ha riferito che tra Bernasconi e Berlusconi vi fosse un altro soggetto con poteri decisionali nei diritti tv, neppure dopo la quotazione in Borsa e la discesa in campo di Berlusconi».
I camion di carte sparite
Che fossero di Berlusconi le società offshore in apparenza fuori dal perimetro ufficiale del suo gruppo è ormai «accertato in maniera definitiva dalla Cassazione nella sentenza Mills del 2010». Se mai, non tutto è ricostruibile perché «a seguito delle prime perquisizioni», ricorda Cavanna, «15 anni di carte» da Lugano «furono fatte sparire in Lussemburgo, credo con camion».
Lettera-confessione di Agrama
Per il Tribunale è «anomalo» indice della frode il «ricarico del 200%» nelle società del produttore Frank Agrama da cui il Biscione nel 1994-1998 acquista diritti per 199,5 milioni, sui quali la maggiorazione di costi fittizi è 135 milioni. Agrama era un intermediario non fittizio, ma vero e autonomo rispetto a Mediaset, ribatte oggi la difesa di Berlusconi. Ma è proprio Agrama, non oggi ma in quella che il Tribunale definisce la «lettera-confessione» del 29 ottobre 2003 all'allora presidente Fininvest Aldo Bonomo, a scrivere il contrario, e cioè di aver lavorato per le società del Biscione «come loro rappresentante».
Berlusconi's companies
Di «cliente Berlusconi» scrivono anche dentro Paramount il 3 marzo 1992. E il 21 dicembre 1993 è un capo di Paramount, Bruce Gordon, ad accreditare in una lettera al collega Lucas «la totale sovrapponibilità tra Agrama e Berlusconi, posto che - osservano i giudici - non vi è distinzione né tra le società né tra le persone, né tra le cifre». E in un'altra lettera del 7 ottobre 1997 due contabili di Paramount, Taylor e Schlaffer, parlano di crediti verso le società di Agrama chiamandole «Berlusconi's companies», cioè le società di Berlusconi, di cui Agrama per il Tribunale è dunque «mero mandatario».
Confalonieri sapeva ma non faceva
Neppure per Confalonieri viene usato il «non poteva non sapere». Anzi, per i giudici è «fortemente plausibile» che il presidente Mediaset «sapesse» della frode e, «violando i suoi doveri, nulla abbia fatto» per arginarla. Ma nessun teste e nessun documento del processo lo mostrano operativo sui diritti tv, sicché la carica e la (pur plausibile) ipotesi non possono da sole fondare una condanna.

lunedì 10 settembre 2012

'Caro direttore...', quando la politica bypassa e scrive ai giornali.



Roma - (Adnkronos) - Ultimi casi le lettere al 'Corsera' di Severino e Gelmini.Morcellini all'Adnkronos: ''Fenomeno in crescita, segna fallimento intermediazione giornalistica''. Appello di Padellaro: ''Non pubblicatele più''. Siddi: ''Patologia se supinamente accettate''. De Bortoli: ''Politici hanno paura delle domande scomode''. Sallusti: ''Non hanno più nulla da dire''. Pionati: ''Lettere comode perché non ci sono domande''.

Roma, 10 set. (Adnkronos) - "Caro direttore", ovvero quando governo e politica si rivolgono direttamente ai media senza passare dalle redazioni. Un ''fenomeno in crescita'', ultimi casi le lettere di questi giorni al 'Corsera' del ministro della Giustizia Paola Severino e dell'ex ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini, prima ancora ad esempio la missiva di Silvio Berlusconi al Foglio il 16 settembre dello scorso anno o le lettere del premier Mario Monti al Corriere (30 marzo scorso) e a Repubblica (11 giugno). Un fenomeno, dice all'Adnkronos il massmediologo MARIO MORCELLINI, preside della facoltà di Scienze della comunicazione alla Sapienza di Roma, ''che probabilmente dilagherà nei prossimi anni, e che segna il fallimento dell'intermediazione giornalistica, ormai sorpassata dai nuovi media e dalla generale sfiducia in ogni tipo di istituzione".
"E' una tendenza notevole in atto, quella dei politici che si rivolgono direttamente ai giornali con lettere al direttore -dice Morcellini in una conversazione con l'Adnkronos-. E, brutalmente, devo dire che hanno ragione: gli elementi di insoddisfazione per la rappresentazione giornalistica sono crescenti. Credo sia giunto il momento per i giornalisti di prendere, a turno, un anno sabbatico e immergersi nella realtà".
In sintesi, l'insoddisfazione segnalata da Morcellini è imputabile a due differenti "macrosettori" le cui sinergie stanno assestando un colpo forse letale agli informatori di professione: "anzitutto -elenca Morcellini- l'aumento dei saperi distribuiti socialmente rende più semplice comunicare; in breve, l'uso del web. Mentre prima di questo i giornalisti erano praticamente gli unici a portare informazioni a una vasta generalità di persone". Questo cambiamento, sospetta Morcellini, "non è ancora stato registrato profondamente dalla categoria".
Secondo macrosettore, forse quello più umiliante per la categoria: "in troppi casi, si pensi soprattutto alla comunicazione di notizie sulla salute e ancora di più a quella politica, il giornalismo italiano ha perso troppe occasioni: ha sbagliato spesso e non ha mai fatto autocritica". I due elementi stanno quindi "facendo crescere in fretta un fenomeno, che gli stessi politici hanno ben compreso: il fai da te dell'informazione", sia in ingresso sia - e questa è la novità - in uscita.
Si profila un "futuro fosco per la categoria - prevede Morcellini - se non c'è un ripensamento radicale non se ne esce. Il giornalismo italiano non ha fatto i conti con l'incattivimento palese del pubblico e con la perdita di credibilità di tutte le istituzioni, stampa compresa".
Morcellini mette però in guardia dalla controindicazione: "il rischio vero è che prevalga l'individualismo comunicativo, e la conseguente riduzione della capacità di relazionarsi socialmente e quindi anche politicamente: per qualche tempo può essere salutare, alla lunga è un danno serio".
Soluzioni? "Credo anzitutto che sia il caso per la categoria di considerare l'utilizzo dell'anno sabbatico e vedere la realtà senza la rete di sicurezza del mestiere; poi, di ridurre drasticamente la cronaca nera. Infine - conclude - quando si commette un errore occorre rettificarlo con la stessa identica visibilità dello 'strillo' con cui è stato pubblicato: il giornalista deve rinunciare all'arroganza dell'ultima parola".
Il direttore del 'Corriere della Sera', FERRUCCIO DE BORTOLI, dichiara all'Adnkronos: "Quello delle lettere al direttore da parte dei politici è un fenomeno sicuramente in crescita, e secondo me è una scorciatoia che certe volte i politici amano per sorpassare le professionalità dei giornalisti. In realtà segnala la paura di alcuni di loro nel confrontarsi con domande serie e scomode''.
A proposito del dilagare del fenomeno, il direttore de 'Il Fatto Quotidiano', ANTONIO PADELLARO, osserva: ''Queste lettere sono lunghe, noiose e non si capiscono. Secondo me chi le scrive provoca un danno a se stesso. Trovo che sia spazio rubato alle notizie vere e sarebbe bello fare un accordo tra tutti i giornali e decidere di non pubblicarle più".
"Continuare a pubblicare lettere del genere - aggiunge Padellaro - non interessa a nessuno perché non le legge nessuno, non ho il minimo dubbio, le leggono soltanto gli addetti degli addetti ai lavori...". Il direttore del 'Fatto Quotidiano' fa l'esempio della lettera inviata dal premier portoghese ai cittadini "con la quale li informa che bisogna tagliare del 7% gli stipendi pubblici. Ovviamente è stato subissato di insulti, ma almeno ha scritto una lettera con la quale comunica una notizia. Noi invece leggiamo certe lettere che parlano di bipolarismo, tripolarismo, roba che non interessa a nessuno", conclude.
Secondo il direttore de 'Il Giornale', ALESSANDRO SALLUSTI, il dilagare delle lettere al direttore da parte dei politici "è un fallimento dell'intermediazione giornalistica, e la colpa va divisa equamente tra i politici italiani che non hanno più nulla da dire, e i giornalisti che spesso non sono in grado di far dire loro qualcosa di interessante".
"Ormai - spiega Sallusti - l'intervista, come strumento giornalistico, è depotenziata perché i politici sfuggono alle domande vere e i giornalisti non riescono a tirare fuori una notizia vera e si vergognano di fare interviste insignificanti. Non le vogliono fare. Del resto - aggiunge - mentre in televisione l'intervista senza risposta è efficace, perché mostra fisicamente l'imbarazzo del politico che si rifiuta di rispondere, sulla carta non ha senso".
Sallusti rivela che capitano spesso "dei politici che ci chiedono di essere intervistati, ma per le solite banalità ininfluenti sia per il prestigio del giornale che per il lettore. Le lettere diventano così una scorciatoria, e spesso vengono pubblicate dai direttori solo per rispetto nei confronti della figura istituzionale che le scrive. Ma tecnicamente, giornalisticamente - conclude il direttore de 'Il Giornale' - non fanno notizia".
FRANCO SIDDI, segretario della Federazione Nazionale Stampa Italiana, osserva: "La politica che scrive al direttore di un giornale non è una anomalia in sé se lo fa in circostanze di rilevanza. E' invece un fenomeno che rischia di diventare patologia se le lettere vengono accettate e pubblicate supinamente sotto un malinteso fenomeno di diritto di replica, e se si tratta, come spesso succede, di situazioni di promozione individuale o di scorciatoie".
"Il giornalismo moderno - prosegue Siddi - dovrà sicuramente fare degli aggiustamenti, essere più severo, non dare rilievo al chiacchiericco, ma non va in crisi con le lettere al direttore se i giornali sapranno mantenere la riserva critica e la capacità di informazione dei cittadini. Il surrogato della lettera al direttore - conclude il segretario della Fnsi - rimane sempre un surrogato, anche per il lettore".
"L'analisi di Morcellini è praticamente perfetta, i giornalisti devono rinnovarsi per forza di cose", sottolinea ANDREA SARUBBI, deputato del Pd e fondatore dell'hastag su Twitter #opencamera, una sorta di 'velina' parlamentare del terzo millennio da lui lanciata nel luglio del 2011 e oggi utilizzata da praticamente tutti i suoi colleghi in Parlamento per comunicare e far sapere che succede nel cosiddetto palazzo. Sarubbi, classe 1971, sottolinea come "il giornalismo di oggi abbia perso molto della voglia di far capire le cose alle persone, oggi preferisce seguire le mode, i personaggi che danno 'audience'".
Insomma nel mondo dell'informazione classica "c'è un deficit sia di informazioni sia di analisi. Si seguono filoni preconfezionati, e questo accade già da qualche anno". Nel frattempo l'Italia è cambiata rapidamente, anche grazie ai nuovi media, e "nel momento in cui si aprono molti canali di comunicazione, alla portata di tutti, il giornalista ha un solo dovere: dimostrare di essere il migliore nell'informazione. Quindi basta con le interviste 'sdraiate', a noi lettori servono le interviste con il coltello tra i denti".
Quanto alle lettere al direttore, "quelle sono riservate ai big, noi 'piccoli' abbiamo il web, che però ha regole molto diverse, il giro dei social network è un'altra cosa rispetto al tradizionale. Ma funziona benissimo...".
Per FRANCESCO PIONATI, segretario di Alleanza di Centro e in passato volto noto del giornalismo televisivo come notista politico del Tg1, il fenomeno ''non deve stupire. Non è il segno di una perdita di importanza dell'intermediazione giornalistica, è soltanto una questione di opportunità''.
''Con le lettere al direttore -rileva Pionati- il politico diffonde il proprio messaggio su un determinato argomento senza intermediazioni. E poi -osserva- per il politico sono comode, dal momento che non ci sono domande''.
MARIO ADINOLFI, deputato-blogger del Pd, commenta così con l'Adnkronos la nuova consuetudine: ''Accade che i giornalisti non abituati al mondo della rete, cioè al salto dell'intermediazione, stanno deprimendo il loro ruolo. Molti colleghi stanno subendo questa ondata del web senza capire che si tratta di una grande opportunità, con potenzialità enormi per un commento critico. Del resto siamo nel ventunesimo secolo, le cose cambiano...''.
''Sta a noi giornalisti salvare il mestiere e non farlo morire, sfruttando le potenzialità della rete - avverte Adinolfi -. Non pubblicherei nuda la lettera inviata al giornale, ma, come si faceva una volta per le smentite, la darei alle stampe con un articolo di accompagno che dà al cittadino, fruitore del giornale, e al giornalista un motivo per leggere ogni argomento in maniera più critica e conscia. Accompagnerei le lettere ai giornali e i tweet con un articolo che offre una lettura più approfondita''.
Adinolfi dice di essere ''rimasto molto colpito dal fatto che l'uso di twitter e facebook abbia saltato del tutto il meccanismo delle agenzie di stampa. Ormai twitter è diventato una sorta di agenzia monodirezionale, così il deputato non ha più bisogno dell'ufficio stampa, né delle agenzie che riprendono le sue parole. Ci troviamo di fronte ad una autorappresentazione della comunicazione, che rende la lettera uno strumento fondamentale. Oggi -avverte- si fa davvero un abuso di queste lettere: lo ripeto, basterebbe accompagnarle ad un articolo di spiega e approfondimento''.
Per MICHELE SORICE, docente di comunicazione politica alla Luiss, la crescita esponenziale di 'lettere al direttore' "è sicuramente un modo di evitare il confronto e le domande scomode, per paura dei rischi che può creare un dibattito aperto e franco, ma non è la morte dei giornali, anzi è proprio il riconoscimento del ruolo e dell'importanza che le grandi testate hanno ancora oggi".
"Con le loro lettere - sostiene Sorice - i politici testimoniano proprio il fatto che i giornali restano ancora, in epoca di blog, tweet e social forum, il luogo privilegiato deputato alla costruzione della sfera pubblica. E nonostante i quotidiani siano letti da una minoranza della popolazione, restano la legittima cornice per parlare ai lettori, potenziali elettori", aggiunge.
"Certo - ammette - la lettera al direttore non ha nulla a che vedere con ciò che insegniamo nei nostri corsi ai futuri cronisti ovvero il giornalista come 'cane da guardia dell'informazione' o 'strumento di garanzia e controllo della politica", ironizza. "Si tratta sicuramente di un uso strumentale dei giornali, sfruttati come cassa di risonanza - conclude Sorice - ma è altrettanto vero che il media-giornale non perde la sua centralità agli occhi del politico che continua a sceglierlo come vetrina privilegiata".
GIANCARLO MAZZUCA, deputato Pdl già direttore de 'Il Resto del Carlino', afferma: "Ho riscontrato anch'io che molti politici tendono ultimamente a preferire la lettera all'intervista. La spiegazione potrebbe consistere nel fatto che un contributo del genere riduce il rischio delle domande, consente di andare al punto che preme a chi la scrive, presta meno il fianco a titoli non in linea con ciò che si vuol far passare come messaggio".
"Personalmente, ritengo preferibile l'intervista - prosegue - perché lo stile e il criterio giornalistico rendono la comunicazione più leggibile, al contrario dell'approccio freddo e un po' burocratico di una missiva che non espone al contraddittorio. Certo, c'è sempre il rischio della domanda scomoda, ma per un politico - conclude - credo che l'intervista sia lo strumento più giusto. Specie se rilasciata ad un giornalista capace e stimolante".

http://www.adnkronos.com/IGN/News/Cronaca/Caro-direttore-quando-la-politica-bypassa-e-scrive-ai-giornali_313680773616.html