Visualizzazione post con etichetta paleontologia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta paleontologia. Mostra tutti i post

mercoledì 30 ottobre 2019

Questa testa di lupo ha almeno 30mila anni. - giugno 2019


 (Albert Protopopov)

È stata trovata quasi intatta nel permafrost in Siberia, e potrebbe offrirci molti indizi per scoprire cose sugli antenati dei lupi e dei cani dei giorni d'oggi.


La scoperta in Siberia della testa quasi totalmente intatta di un lupo vissuto almeno 30mila anni fa è stata da poco annunciata presso il Miraikan (Museo nazionale della scienza emergente e dell’innovazione) a Tokyo, in Giappone, nell’occasione dell’apertura di una mostra dedicata ai mammut e ad altri animali vissuti migliaia di anni fa. Lo studio del reperto, che comprende parti ben conservate dei tessuti molli compreso il cervello, potrebbe offrire nuove informazioni sulla storia evolutiva dei lupi e la loro successiva addomesticazione, che portò infine ai cani che conosciamo oggi.

La testa era stata scoperta nel 2018 nella zona di Abyjskij nella Russia siberiana orientale. Era rimasta per decine di migliaia di anni protetta nel permafrost, la parte del suolo che rimane perennemente ghiacciata. Un abitante della zona aveva notato qualcosa di strano nel terreno, in un punto dove il permafrost stava cedendo a causa delle temperature estive più alte del solito. I dettagli principali della scoperta, su cui ci sono alcune informazioni discordanti, sono stati forniti dal Siberian Times e stanno ora incuriosendo molto i ricercatori, anche in seguito all’annuncio fatto a Tokyo.

Finora non era mai stata ritrovata una testa così ben conservata appartenente a una specie antica di lupo. I ricercatori stimano che l’animale fosse morto quando aveva tra i 2 e i 4 anni, in circostanze ancora da chiarire. La testa è notevolmente più grande rispetto a quella dei lupi odierni: raggiunge una lunghezza di 40 centimetri circa, contro quella degli attuali lupi di 23-28 centimetri.

(Albert Protopopov)

Nel complesso, la testa è ben conservata: oltre al pelo, si sono preservati il naso, buona parte della pelle e le fauci. Anche il cervello si è conservato relativamente bene e una sua analisi potrebbe offrire qualche dettaglio in più sulle caratteristiche degli antenati dei cani odierni. I tessuti nelle cavità nasali potranno essere analizzati alla ricerca di informazioni sul modo in cui funzionava il fiuto di questi animali, per confrontarlo con quello dei lupi e dei cani moderni.

Molti giornali hanno dato la notizia sul ritrovamento parlando di una testa di lupo “risalente a 40mila anni fa”, ma la datazione non è ancora così certa e gli stessi ricercatori invitano a essere più cauti. Il sito Gizmodo ha consultato un paio di paleontologi coinvolti nei primi studi del reperto, ottenendo da loro una datazione di 30mila anni, in contraddizione con quella fornita sulla maggior parte dei siti e dei giornali che si sono finora occupati della notizia.

Il lupo visse nel tardo Pleistocene, il periodo compreso tra 2,6 milioni e 11.700 anni fa. Più nel particolare, percorreva i territori della Siberia nel Pleistocene superiore, più o meno nell’ultimo grande periodo glaciale. La sua fine, tra i 20mila e i 10mila anni fa, coincise con l’estinzione di diverse specie che si erano adattate a vivere in un clima molto freddo. La scomparsa degli antichi lupi fu determinata dal cambiamento del clima, ma probabilmente anche dalle attività degli esseri umani che sottrassero loro le prede con cui sopravvivevano.

La testa del lupo ricostruita al computer grazie a una tomografia assiale computerizzata (Albert Protopopov, Naoki Suzuki)

La testa potrebbe essere appartenuta a un esemplare di un gruppo di lupi di Beringia, che vivevano lungo la striscia di terra che un tempo metteva in comunicazione la Siberia con il Nordamerica. Questi lupi si spostavano in ampie porzioni di territorio, ma solo un’analisi del DNA del reperto potrà confermare la sua eventuale appartenenza a questo gruppo. L’analisi sarà condotta dal Museo di storia naturale svedese nei prossimi mesi. Un confronto con i lupi moderni dovrebbe fornire qualche indicazione sulle altre caratteristiche del lupo e sui suoi eventuali gradi di parentela con le specie che conosciamo oggi.

https://www.ilpost.it/2019/06/14/testa-lupo-siberia/

venerdì 25 agosto 2017

Rinvenuto il primo Lessinia durello un pesce fossile di 50 milioni di anni. - Viviana Monastero

Rinvenuto il primo  Lessinia durello  un pesce fossile di 50 milioni di anni
L'immagine mostra il fossile di Lessinia durello, conservato al Museo Civico di Storia Naturale di Verona. 

Scoperto nel giacimento fossilifero di Bolca (Verona), uno dei siti paleontologici più importanti al mondo, Lessinia durello, un nuovo genere e una nuova specie di pesce vissuto circa 50 milioni di anni fa.

Una nuova specie
Fotografia per gentile concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo – Soprintendenza per i beni archeologici del Veneto; riproduzione vietata.

Finora la sua esistenza non era stata mai documentata in nessuna parte del mondo. Il fossile di Lessinia durello – che prende il nome dai Monti Lessini e dal vino locale, il Durello - è stato rinvenuto nella Pesciara di Bolca, un giacimento fossilifero situato a circa due chilometri da Bolca, località in provincia di Verona. Si tratta di una nuova specie di pesce che viveva nell'Oceano della Tetide – il mare temperato caldo che si estendeva dal Nord Africa alle Filippine e al Giappone, separando l'Africa settentrionale dall' Europa e dall'Asia - circa 50 milioni di anni fa, nel periodo geologico dell'Eocene medio.

Il fossile è stato studiato da Roberto Zorzin, geologo del Museo Civico di Storia Naturale di Verona, e da Alexandre F. Bannikov, dell'Istituto paleontologico Borisyak dell'Accademia Russa delle Scienze di Mosca.

"Questo pesce viveva in un mare temperato caldo, in vicinanza di una scogliera", spiega Zorzin. "Il clima, la vegetazione e la fauna erano quelli tipici dei mari tropicali".

Lo studio su Lessinia durello è in pubblicazione nella rivista Studi e Ricerche sui Giacimenti Terziari di Bolca, volume XV.


http://www.nationalgeographic.it/scienza/2013/12/11/foto/rinvenuto_il_primo_lessinia_durello_un_pesce_fossile_di_50_mila_anni_fa-1927431/1/#media

Scoperto un cranio di scimmia di 13 milioni di anni fa. - Michael Greshko

primati,fossili,kenya,paleontologia
Estratto da uno strato di roccia, il piccolo cranio risulta lievemente schiacciato rispetto alle sue dimensioni naturali. Fotografia per gentile concessione di Isaiah Nengo, Leakey Foundation

Il fossile, venuto alla luce in Kenya, si è conservato in maniera eccezionale: è stato attribuito a Nyanzapithecus alesi, una nuova specie di scimmia antropomorfa.


Più di 13 milioni di anni fa, nell'attuale Kenya settentrionale, un cucciolo di scimmia antropomorfa morì in una lussureggiante foresta e il suo corpo fu ricoperto dalle ceneri di un'eruzione vulcanica che si verificò nelle vicinanze.

Milioni di anni dopo, gli scienziati hanno rinvenuto il suo cranio - che fra quelli dello stesso tipo finora ritrovati è quello che si è conservato nel modo migliore - avendo così l'incredibile opportunità di iniziare a conoscere le prime fasi dell'evoluzione delle scimmie antropomorfe.

"Per anni siamo stati alla ricerca di fossili di scimmie antropomorfe, è la prima volta che ritroviamo un cranio completo", spiega Isaiah Nengo, antropologo del De Anza College di Cupertino, autore della scoperta, in parte finanziata da una borsa di studio della National Geographic Society.

Grosso modo della dimensione di un limone, il cranio appartiene a una nuova specie di antica scimmia antropomorfa, Nyanzapithecus alesi. Alcune delle sue caratteristiche sono simili a quelle delle attuali scimmie che vivono nel Vecchio Mondo, mentre il volto ricorda in modo sorprendente gli odierni cuccioli di gibbone.

Inoltre, come spiega il team di ricerca in uno studio pubblicato su Nature, la scoperta di N. alesi permetterà di approfondire lo studio del cervello delle antiche scimmie. Con una capacità di circa 103 millilitri, la cavità cranica di N. alesi era grande più del doppio rispetto a quella che caratterizzava altre scimmie del tempo che vivevano nel Vecchio Mondo.

E la scatola cranica rimasta intatta, che ha conservato tracce della superficie esterna del cervello, contiene anche i denti permanenti non erotti del cucciolo di scimmia.

Pausa sigaretta fortunata

Dopo essersi differenziati dagli antenati delle scimmie che vivevano nel Vecchio Mondo fra 25 e 28 milioni di anni fa, le scimmie antropomorfe si diversificarono verso la metà del Miocene. Tuttavia, molte di quelle linee di discendenza scomparvero circa 7 milioni di anni fa in seguito a un improvviso cambiamento climatico. Le grandi scimmie attuali e gli esseri umani discendono da una delle linee di discendenza delle scimmie antropomorfe del Miocene.

Tuttavia, i particolari di questa storia evolutiva sono rimasti oscuri, in parte perché le antiche scimmie antropomorfe vivevano nelle foreste pluviali, che raramente offrono condizioni favorevoli alla fossilizzazione. Fino al ritrovamento di N. alesi: prima di allora, era stato rinvenuto solo un altro cranio di scimmia antropomorfa del Miocene con la scatola cranica - o neurocranio - intatta.

"Spesso, quando non rinveniamo il cranio, troviamo le mascelle, il viso e talvolta l'inizio dell'osso frontale", afferma Brenda Benefit, antropologa dell'Università statale del Nuovo Messico, che ha revisionato lo studio prima della pubblicazione. "È davvero molto raro ritrovare un neurocranio intatto".

La scoperta di N. alesi è avvenuta grazie a una buona dose di determinazione e a un incredibile colpo di fortuna. I Leakey, famiglia di eminenti paleoantropologi, avevano precedentemente effettuato degli scavi nel sito di Napudet, nel nord del Kenya. Quando Nengo, nel 2013, ne ha preso la direzione, in pochi nutrivano grandi speranze nel ritrovamento di reperti significativi.

Ma un giorno agli inizi del 2014, un assistente agli scavi, John Ekusi, si allontanò dagli altri ricercatori per fumare una sigaretta. Gli altri membri del gruppo lo osservavano perplessi da lontano: dopo pochi minuti, Ekusi iniziò a girare intorno a un oggetto sul terreno che aveva catturato la sua attenzione.

Ekusi disse ai colleghi che forse aveva scoperto la testa del femore di un elefante, indicando la superficie smussata di un osso che spuntava dalla roccia. Un esame più approfondito rivelò una scoperta ancora più rara: un piccolo cranio di scimmia antropomorfa, solo lievemente schiacciato rispetto alle sue proporzioni naturali. Gli studiosi si lanciarono in una danza gioiosa.

Con l'avvicinarsi della notte, tuttavia, i ricercatori furono costretti a riseppellire il cranio e attendere la mattina seguente per estrarlo. "Nessuno riuscì a dormire quella notte, ne sono certo",  racconta Nengo.

Nella testa della scimmia

La datazione dello strato di sedimento intorno al fossile ha permesso al gruppo di ricerca di stabilire che il cranio della scimmia antropomorfa era vecchio 13 milioni di anni. Tuttavia, nonostante l'incredibile conservazione del cranio, l'esame iniziale del fossile preparato non è riuscito a svelare a quale primate appartenesse il cranio.

Per determinarlo, Nengo e i colleghi avevano bisogno di osservare i suoi denti permanenti, non ancora erotti. Dunque, hanno portato il fossile allo European Synchrotron Radiation Facility di Grenoble, in Francia, dove i tecnici lo hanno sottoposto a raggi X ad alta potenza, che hanno permesso di osservare il cranio senza danneggiarlo.

Grazie alle scansioni, il team di ricercatori guidato da Nengo è riuscito a ottenere le ricostruzioni tridimensionali dei denti. La loro forma peculiare ha consentito di attribuire senza alcun dubbio il cranio al genere Nyanzapithecus, un gruppo fratello estinto di gibboni, grandi scimmie antropomorfe ed esseri umani.

"Se non avessero utilizzato la radiazione di sincrotone non sarebbero mai arrivati a tale conclusione", dichiara Benefit. "È un miracolo della tecnologia moderna".

Adesso che N. alesi è stato scoperto, Nengo si concentrerà su nuovi aspetti del fossile. Lo studioso e i suoi colleghi presto analizzeranno le tracce del cervello all'interno del cranio. Stanno inoltre ritornando a studiare l'orecchio interno dell'animale, che si è conservato perfettamente, e si stanno dedicando alla ricostruzione dell'aspetto di N. alesi.

Nengo prevede inoltre di ritornare a Napudet, per individuare altri fossili nell'antica roccia.

"Questo è il progetto. Restano ancora cose interessanti da fare", conclude.


mercoledì 19 luglio 2017

Una nuova specie di Homo? - Andrea Romano



Il DNA mitocondriale estratto da un dito rinvenuto in Siberia e risalente a 40.000 anni fa indica la possibile presenza in quell’epoca di una nuova specie di Homo.

Se fosse confermata potrebbe essere la scoperta paleontologica più importante del nuovo millennio, comparabile solamente al ritrovamento sull’isola di Flores dei resti dell’Homo floresiensis: si tratta di un dito, in particolare un mignolo, appartenente, a quanto sembra, ad una specie del genere Homo finora sconosciuta.

La scoperta è avvenuta in Siberia, nella Grotta di Denisova sui Monti Altai, ed è stata diffusa dalla prestigiosa rivista Nature, che dedica alla vicenda due interessanti articoli (12). Un gruppo di ricercatori guidati da Svante Pääbo, già noto per aver sequenziato il genoma mitocondriale dell’uomo di Neanderthal (Pikaia ne ha parlato qui), ha analizzato e comparato il DNA mitocondriale estratto dal dito rinvenuto con quello della nostra specie e dei Neanderthal. I risultati sono a dir poco sorpendenti: come si può vedere in quest’immagine, tratta dall’articolo originale, il genoma mitocondriale di questo individuo (di sesso femminile) non è in alcun modo comparabile nè con quello dell’uomo moderno nè con quello espresso da H. Neanderthalensis. Per dare un’idea della possibile lontananza filogenetica si pensi che la differenza media tra i genomi mitocondriali di sapiens e neanderthalensis è di 202 nucleotidi, mentre l’individuo di Denisova differisce in media dalla nostra specie di 358 coppie di basi! Sulla base del tasso di mutazione nei diversi rami dell’albero filogenetico, Pääbo e colleghi hanno calcolato il periodo in cui le diverse linee evolutive, Neanderthal e H. sapiens da un lato e questa nuova specie dall’altro, si sono separate. L’antenato comune, affermano, visse circa 1 milione di anni fa.

Fino ad ora, nella descrizione della scoperta, ho omesso l’aspetto che ritengo più interessante: la datazione del ritrovamento. Il dito rinvenuto a Denisova risale, infatti, ad un periodo compreso tra 48.000 e 30.000 anni (probabilmente circa 40.000), quando H. sapiens aveva già colonizzato tutti i continenti ad eccezione delle Americhe. Se lo status di specie a parte venisse confermato, e la cautela è assolutamente d’obbligo in casi del genere (Pääbo e colleghi, infatti, non si sono spinti a nominarla), anche perchè non sono finora stati rinvenuti altri resti umani nè manufatti, saremmo di fronte ad uno scenario che vedeva almeno 4 diverse specie del genere Homo convivere sulla Terra. La specie di Denisova si aggiungerebbe, infatti, ad H. sapiensH. neanderthalensis e il piccolo H. floresiensis, il cui status di specie non sembra più in discussione.

La presenza di questa potenziale nuova specie in Eurasia implica, secondo gli autori, almeno un ulteriore importante episodio di radiazione al di fuori del continente africano che si aggiunge a quello dell’H. erectus, il primo ominide che colonizzò altri continenti già 1,9 milioni di anni fa, quello che ha portato all’origine dei Neanderthal, probabilmente ad opera di H. heidelbergensis, e l’ultimo che ha riguardato la nostra specie.

Ma ciò che più conta è che la scoperta dimostra ancora una volta quanto la visione dell’unicità della nostra specie sia tutt’altro che conforme alla realtà. Non una serie di specie che si modificano l’una nell’altra con un’intrinseca tendenza al miglioramento e al perfezionamento, bensì un cespuglio la cui speciosità è in continuo incremento: ecco il vero ritratto del genere Homo. E noi, siamo solo una delle numerose specie originatesi nel corso del tempo, l’unica, questo sì, che è riuscita a sopravvivere alcune migliaia di anni oltre le altre.

Riferimenti:
Johannes Krause, Qiaomei Fu, Jeffrey M. Good, Bence Viola, Michael V. Shunkov, Anatoli P. Derevianko, Svante Pääbo. The complete mitochondrial DNA genome of an unknown hominin from southern Siberia. Nature, 2010; DOI: 10.1038/nature08976

Terence A. Brown. Human evolution: Stranger from Siberia. Nature, 2010; DOI: 10.1038/nature09006


http://pikaia.eu/una-nuova-specie-di-homo/



Risultati immagini per uomo di denisova


L'Homo di Denisova o donna X è il nome dato ad un ominide i cui scarsi resti sono stati ritrovati nei Monti Altaj in Siberia. La scoperta è stata annunciata nel marzo 2010, quando al termine della completa analisi del DNA mitocondriale è stato ipotizzato che possa trattarsi di una nuova specie. Questo esemplare di ominide è vissuto in un periodo compreso tra 70.000 e 40.000 anni fa[1] in aree popolate principalmente da sapiens e in parte da neanderthal; ciononostante, la sua origine e la sua migrazione apparirebbero distinte da quelle delle altre due specie,[2][3] e il mtDNA del Denisova risulterebbe differente dai mtDNA di H. neanderthalensis e H. sapiens.[4]

Scoperta.
Un team di scienziati dell'Istituto Max Planck di antropologia di Lipsia guidati da Svante Pääbo sequenziò il DNA mitocondriale (che si eredita solo per linea materna), estratto dal frammento osseo di un dito mignolo di un giovane individuo di età stimata tra i 5 e i 7 anni e di sesso incerto nonostante gli fosse stato attribuito il soprannome di donna X. Il reperto venne alla luce nel 2008 nelle grotte di Denisova sui Monti Altaj in Siberia. Nello stesso strato di terreno apparvero piccoli oggetti lavorati riconducibili all'Homo di Denisova.
L'analisi del mtDNA ha inoltre suggerito che questa nuova specie di ominidi sia il risultato di una migrazione precoce dall'Africa, distinta dalla successiva migrazione dall'Africa associata a uomini di Neanderthal e umani moderni, ma anche distinta dal precedente esodo africano di Homo erectus.[5] Pääbo ha rilevato l'esistenza di questo ramo lontano che crea un quadro molto più complesso del genere umano durante il tardo Pleistocene.[6]
Nel 2010, un secondo documento del gruppo di Svante Pääbo ha riferito di una prima scoperta del 2000, di un terzo molare superiore di un giovane adulto, risalente a circa lo stesso periodo (il dito era nel livello 11 della sequenza della grotta, il dente nel livello 11.1). Il dente differiva in diversi aspetti da quelli di Neanderthal pur avendo caratteristiche arcaiche, simili ai denti dell'Homo erectus. Il gruppo eseguì nuovamente l'analisi del DNA mitocondriale sul dente e rilevò che la sequenza era diversa, ma simile a quella dell'osso del dito, indicando un tempo di divergenza di circa 7500 anni, e suggerendo che appartenesse ad un individuo differente della stessa popolazione.[7]
Nel 2011 un osso del dito di un piede è stato scoperto nello strato 11 della grotta, quindi contemporaneo all'osso del dito della mano. La caratterizzazione preliminare del DNA mitocondriale del midollo suggerisce che appartenesse ad un uomo di Neanderthal e non ad un Denisovano[8]. La grotta Altai contiene anche reperti ossei e strumenti di pietra fatti da esseri umani moderni e Pääbo ha commentato: " L'unico posto in cui siamo sicuri che tutte e tre le forme umane hanno vissuto anche se in diversi periodi temporali, è qui nella grotta Denisova ".[8]

Ibridazione con Homo sapiens.
Lo stesso argomento in dettaglio: Ibridazioni tra esseri umani arcaici e moderni.
Studi genetici indicano che approssimativamente il 4% del DNA dell'Homo sapiens non africano è lo stesso trovato nell'Homo neanderthalensis suggerendo una origine comune.[9] I test che mettano in comparazione il genoma dell'Homo di Denisova con quello di 6 differenti Homo sapiens come ǃKung dal SudAfrica, un nigeriano, un francese, un Papua della Nuova Guinea, un abitante dell'isola di Bouganville e uno della stirpe Han, dimostrano che dal 4 al 6% del genoma dei melanesiani (rappresentato dagli uomini dell'isola di Bouganville), derivano dalla popolazione di Denisova. Questi geni sono stati verosimilmente introdotti durante la prima migrazione umana degli antenati dei melanesiani nel Sud est asiatico.[9] Quindi concludendo, è verosimile ipotizzare un'ibridazione tra Homo di Denisova e Homo Sapiens, che ha interessato le popolazioni del sud-est asiatico antico e quelle, loro dirette discendenti, australiane. L'apporto genetico denisoviano alle altre popolazioni asiatiche è limitato e, come in quelle europee e amerinide, deriva in buona parte per via dell'ibridazione, avvenuta in precedenza, con i Neanderthal (che a loro volta si erano ibridati con i Desinova)
.
Aspetto fisico[modifica. 
Non si sa nulla sulle caratteristiche fisiche di questi individui data l'estrema limitatezza del reperto dal quale si estrasse il materiale genetico. Si spera che future analisi del DNA nucleare chiarifichino definitivamente l'esistenza di questa specie o viceversa la smentiscano, dimostrando che questo è il risultato di un incrocio tra Neanderthal e Sapiens. Secondo Pääbo non sarebbe comunque corretto definirlo specie, sia per le sue resistenze ad applicare la nomenclatura binominale linneiana all'evoluzione umana sia perché l'uomo di Desinova si poteva incrociare e riprodurre (magari in modo imperfetto) con l'uomo moderno, rendendo l'ipotesi di segregazione riproduttiva falsificata.
Dalle ultime analisi del mtDNA e del DNA nucleare risulta che l'Uomo di Denisova si sarebbe separato dal comune antenato di Neanderthal e uomo moderno circa 1.000.000 di anni fa e che in seguito si sarebbe incrociato con l'Homo sapiens progenitore dei moderni abitanti della Papua Nuova Guinea, con i quali condivide il 4-6% del genoma;[10] provando così (come già con l'uomo di Neanderthal) l'Ipotesi multiregionale di interscambio genetico tra antichi e moderni Homo sapiens[11].

Analisi del DNA mitocondriale.
Il DNA mitocondriale (mtDNA) proveniente dall'osso del dito è diverso da quello degli esseri umani moderni per 385 basi (nucleotidi), nel filamento del DNA mitocondriale è di circa 16.500 basi, mentre la differenza tra gli esseri umani moderni ed i Neanderthal è di circa 202 basi. Considerando che la differenza tra scimpanzé e gli esseri umani moderni è di circa 1462 paia di basi del DNA mitocondriale[12], ciò suggerisce un tempo di divergenza di circa un milione di anni. L'mtDNA di un dente portava una somiglianza elevata a quella dell'osso del dito indicando che entrambi appartenevano alla stessa popolazione[13]. È stata recuperata una sequenza di mtDNA su un secondo dente che ha mostrato un numero inaspettatamente elevato di differenze genetiche rispetto a quella riscontrata nell'altro dente e nel dito, suggerendo un elevato grado di diversità mtDNA. Questi due individui rinvenuti nella stessa grotta hanno mostrato una diversità tra loro maggiore di quella rilevata campionando gli uomini di Neanderthal di tutta l'Eurasia. Un tasso di diversità paragonabile a quello che distingue gli esseri umani moderni provenienti da diversi continenti[14].

Analisi del DNA nucleare.
Nello stesso studio del 2010, gli autori hanno effettuato l'isolamento e il sequenziamento del DNA nucleare dell'osso del dito del Denisova. Questo esemplare ha mostrato un insolito grado di conservazione del DNA ed un basso livello di contaminazione. Sono stati in grado di raggiungere quasi il completo sequenziamento genomico, consentendo un confronto dettagliato con i Neanderthal e gli umani moderni. Da questa analisi hanno concluso, nonostante l'apparente divergenza della loro sequenza mitocondriale, che gli uomini di Denisova ed i Neanderthal hanno condiviso un ramo comune ancestrale che porta ai moderni esseri umani africani. Il tempo medio stimato di divergenza tra le sequenze dei Denisoviani e dei Neanderthal è di circa 640 000 anni fa, mentre il tempo di divergenza tra le sequenze di ciascuno di essi e le sequenze degli africani moderni è di 804 000 anni fa. Ciò suggerisce che la divergenza dei risultati mitocondriali del Denisova derivi o dalla persistenza di un lignaggio epurato dagli altri rami attraverso deriva genetica oppure da un'introgressione di un lignaggio di un ominide più arcaico[15]. Nel 2013, la sequenza di mtDNA prelevata dal femore di un Homo heidelbergensis di 400.000 anni fa proveniente dalla Grota Sima in Spagna è risultata essere simile a quella di Denisova[16].


Leggi anche: 

venerdì 25 dicembre 2015

L'ossigenazione del pianeta e l'esplosione della vita animale.




L'incremento delle concentrazioni di ossigeno nei mari e nell'atmosfera, uno degli eventi fondamentali della storia della Terra, è durato circa 100 milioni di anni. Il risultato, emerso da uno studio basato sull'analisi degli isotopi di selenio in antichi campioni di roccia, dimostra che l'ossigenazione ha preceduto la diffusione della vita sul pianeta(red)


Sono stati necessari 100 milioni di anni affinché le concentrazioni di ossigeno negli oceani e nell'atmosfera della Terra del remoto passato raggiungessero livelli sufficienti a provocare l'esplosione della vita animale. Lo rivela uno studio pubblicato su "Nature Communications" da Philip Pogge von Strandmann, dello University College London e colleghi. Il risultato ha mostrato che l'incremento è iniziato molto prima di quanto stimato e che è avvenuto in diverse fasi ed epoche iniziando circa 600 milioni di anni fa. Tutto questo ha una conseguenza importante: è probabile che sia stato l'incremento della concentrazione di ossigeno a innescare la comparsa dei primi animali, e non viceversa, come invece indicato in alcuni studi.

Nel corso del periodo Neoproterozoico, che va da un miliardo a 542 milioni di anni fa, il nostro pianeta ha conosciuto un profondo cambiamento, passando per diverse glaciazioni, per il processo di ossigenazione dell'atmosfera e per la comparsa degli animali. Tuttavia, finora è sfuggita una comprensione completa di questi eventi, in parte perché sono mancate le prove che potessero documentare la cronologia degli eventi.



L'ossigenazione del pianeta e l'esplosione della vita animale

Impronta fossile di Dickinsonia costata, uno degli organismi vissuti dopo la glaciazione di Gaskiers (Wikimedia Commons)


 
Pogge e colleghi hanno studiato campioni di roccia raccolti in Stati Uniti, Canada e Cina per ricostruire le condizioni della Terra tra 770 e 520 milioni di anni fa. Durante questo arco di tempo, sono avvenute tre grandi glaciazioni, quella Sturtiana (circa 716 milioni di anni fa), quella Marinoana (circa 635 milioni di anni fa) e quella di Gaskiers (circa 580 milioni di anni fa), durante le quali le terre emerse erano ricoperte da ghiaccio e la maggior 

parte degli oceani erano ghiacciati dai poli ai tropici. Nei periodi interglaciali, l'incremento della temperatura provocò la fusione di enormi masse di ghiaccio, portando una grande 
quantità di nutrienti negli oceani e causando un aumento dei livelli di ossigeno nei mari fino a notevoli profondità.

L'incremento dei nutrienti a sua volta innescò un aumento del plancton che, dopo la morte, raggiungeva il fondo, portando con sé il carbonio fissato nei composti organici. La fissazione del carbonio ha avuto come conseguenza un notevole incremento dell'ossigeno. Uno dei più importanti indici di tipo chimico-fisico per ricostruire questa cronologia è proprio la presenza di maggiore ossigeno nei mari che, cambiando le condizioni per le reazioni coinvolte, ha determinato una variazione nell'abbondanza di alcuni metalli in tracce.

Gli autori hanno analizzato in particolare le concentrazioni degli isotopi di selenio, concludendo che la grande ossigenazione è iniziata dopo la glaciazione Marinoana, e non dopo la glaciazione di Gaskiers, come ritenuto finora. Il risultato quindi retrodata notevolmente questo passaggio fondamentale per la vita sulla Terra.



L'ossigenazione del pianeta e l'esplosione della vita animale
Illustrazione della Terra durante il Neoproterozoico: una delle ipotesi è che furono le emissioni di anidride carbonica da parte dei vulcani a riscaldare il pianeta e a porre fine alle glaciazioni (Wikimedia Commons)
"L'ossigeno è stato la miccia dell'esplosione della vita animale: 635 milioni di anni fa, era appena sufficiente per sostenere la vita di piccole spugne e 580 milioni di anni fa solo per la comparsa di pochi altri organismi; 50 milioni di anni più tardi, gli antenati dei vertebrati nuotavano in acque ricche di ossigeno", ha commentato David Catling, coautore dello studio. "Capire come è aumentata la concentrazione dell'ossigeno è il primo passo per capire perché il processo è stato così lungo".

Complessivamente, sono stati necessari 100 milioni di anni per decuplicare la concentrazione di ossigeno.

"Questo nuovo approccio basato sugli isotopi di selenio fornisce più informazioni sulle variazioni graduali dei livelli di ossigeno di quanto consentano le tecniche convenzionali", ha spiegato Pogge von Strandmann. "Siamo rimasti sorpresi di vedere quanto tempo ha impiegato la Terra per produrre l'ossigeno e i nostri risultati smentiscono le teorie secondo cui si sarebbe trattato di un processo repentino causato da cambiamenti nel comportamento animale".