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lunedì 31 luglio 2017

I primi uomini arrivarono in Australia già 65.000 anni fa. - Dario Iori



Alcuni scavi nel Kakadu National Park in Australia hanno portato alla luce un gran numero di manufatti la cui datazione permette di anticipare di almeno 15.000 la prima colonizzazione del paese, mettendo ancora una volta in discussione le nostre conoscenze sulle migrazioni umane.

Molti aspetti legati alle migrazioni di Homo sapiens dall’Africa risultano ancora oscuri e ampiamente da chiarire; fino ad oggi i modelli proposti non riescono a rimanere al passo con i ritrovamenti e le scoperte che quasi quotidianamente mettono in discussione le ipotesi degli scienziati. Se lo scenario si presenta enormemente complesso per quanto riguarda le migrazioni in Europa e nelle Americhe, la matassa sembrava più facile da districare in relazione all’arrivo dell’uomo moderno in Australia: i primi uomini sarebbero giunti in Australia attraversando l’Asia meridionale circa 45-50.000 anni fa, come confermato anche da analisi del DNA mitocondriale (Pikaia ne ha parlato qui) e avrebbero contribuito, tra le altre cose, all’estinzione dei marsupiali giganti della Tasmania e della megafauna dell’Australia (Pikaia ne ha parlato qui).

Un team di ricercatori guidati da Chris Clarkson della School of Social Science dell’Università del Queensland, però, ha rinvenuto, nella grotta di Madjedbebe all’interno del Kakadu National Park, a nord dell’Australia, alcuni reperti la cui datazione suggerisce la presenza dell’uomo già intorno a 65.000 anni fa, ovvero più di 15.000 anni prima di quanto si pensasse in precedenza. A partire dal 1973, il sito archeologico di Madjedbebe ha restituito più di 11.000 manufatti, ma sono stati gli ultimi scavi del 2012 e del 2015 i più fruttuosi, che hanno visto la cooperazione degli aborigeni locali della Terra di Mirrar. L’analisi dei manufatti rinvenuti e le tecniche di datazione utilizzate sono stati descritti su Nature.

Tra i ritrovamenti all’interno del sito, degna di nota vi è la presenza di rudimentali pastelli (ocra e altri colori) probabilmente importanti per il simbolismo e le manifestazioni artistiche (portata alla luce anche la mascella di una tigre della Tasmania, Thylacinus cynocephalus, ricoperta di rosso) e di mortai per la macinazione e la lavorazione di semi. Sono state rinvenute anche le asce più antiche mai ritrovate (risalgono a 20.000 anni prima delle altre trovate in precedenza) e altri strumenti.

Per quanto riguarda la datazione dei manufatti, i ricercatori hanno utilizzato il metodo del Carbonio-14 (tecnica che può arrivare ad analizzare materiale organico di 45-50.000 anni) per i reperti più superficiali, mentre per quelli più antichi, rinvenuti a circa 2,5 metri di profondità, si sono serviti della luminescenza stimolata otticamente (OSL) che si basa sull’ultima volta che del terreno è stato esposto alla luce del sole. Alcuni studenti coinvolti nell’indagine hanno poi esaminato al microscopio ottico la composizione dei vari strati di sedimento rinvenuti nello scavo, e tali analisi, insieme ad altre prove (ad esempio la cottura di campioni di suolo a differenti temperature) hanno permesso una ricostruzione del clima nord- australiano al momento dell’arrivo dei primi colonizzatori, che doveva essere più umido e freddo rispetto ad oggi.

Come già affermato, la datazione dei sedimenti suggerisce che i primi insediamenti nel luogo siano avvenuti circa 65.000 anni fa, anche se alcuni reperti potrebbero risalire addirittura a 80.000 anni fa. Questa retrodatazione, che trova conferma in un’analisi condotta sul materiale genetico ottenuto dalla ciocca di capelli di un aborigeno dell’Australia sud occidentale risalente a circa 100 anni fa (Pikaia ne ha parlato qui) ha numerose implicazioni.

Prima di tutto, il fatto che gli antenati degli aborigeni fossero presenti in Australia già 65.000 anni fa, permette di affermare che essi convissero per quasi 20.000 anni con la megafauna locale (canguri, vombati e tartarughe giganti) e probabilmente non è dunque attribuibile a loro l’estinzione di queste specie animali. In secondo luogo, la presenza di Homo sapiens nel continente australiano 10.000 anni prima rispetto alle nostre conoscenze precedenti, consente di ipotizzare un loro contatto con Homo floresiensis (l’hobbit dell’isola di Flores, in Indonesia, di cui Pikaia ha parlato ad esempio qui) andando ad aggiungere altre possibili interazioni tra le specie del genere Homo (Neanderthal, Denisoviani) in uno scenario già di per sé estremamente complesso.

Riferimento:
hris Clarkson, Zenobia Jacobs, Ben Marwick, Richard Fullagar, Lynley Wallis, Mike Smith, Richard G. Roberts, Elspeth Hayes, Kelsey Lowe, Xavier Carah, S. Anna Florin, Jessica McNeil, Delyth Cox, Lee J. Arnold, Quan Hua, Jillian Huntley, Helen E. A. Brand, Tiina Manne, Andrew Fairbairn, James Shulmeister, Lindsey Lyle, Makiah Salinas, Mara Page, Kate Connell, Gayoung Park, Kasih Norman, Tessa Murphy, Colin Pardoe. Human occupation of northern Australia by 65,000 years agoNature, 2017; 547 (7663): 306 DOI: 10.1038/nature22968

Immagine da Wikimedia Commons

mercoledì 19 luglio 2017

Una nuova specie di Homo? - Andrea Romano



Il DNA mitocondriale estratto da un dito rinvenuto in Siberia e risalente a 40.000 anni fa indica la possibile presenza in quell’epoca di una nuova specie di Homo.

Se fosse confermata potrebbe essere la scoperta paleontologica più importante del nuovo millennio, comparabile solamente al ritrovamento sull’isola di Flores dei resti dell’Homo floresiensis: si tratta di un dito, in particolare un mignolo, appartenente, a quanto sembra, ad una specie del genere Homo finora sconosciuta.

La scoperta è avvenuta in Siberia, nella Grotta di Denisova sui Monti Altai, ed è stata diffusa dalla prestigiosa rivista Nature, che dedica alla vicenda due interessanti articoli (12). Un gruppo di ricercatori guidati da Svante Pääbo, già noto per aver sequenziato il genoma mitocondriale dell’uomo di Neanderthal (Pikaia ne ha parlato qui), ha analizzato e comparato il DNA mitocondriale estratto dal dito rinvenuto con quello della nostra specie e dei Neanderthal. I risultati sono a dir poco sorpendenti: come si può vedere in quest’immagine, tratta dall’articolo originale, il genoma mitocondriale di questo individuo (di sesso femminile) non è in alcun modo comparabile nè con quello dell’uomo moderno nè con quello espresso da H. Neanderthalensis. Per dare un’idea della possibile lontananza filogenetica si pensi che la differenza media tra i genomi mitocondriali di sapiens e neanderthalensis è di 202 nucleotidi, mentre l’individuo di Denisova differisce in media dalla nostra specie di 358 coppie di basi! Sulla base del tasso di mutazione nei diversi rami dell’albero filogenetico, Pääbo e colleghi hanno calcolato il periodo in cui le diverse linee evolutive, Neanderthal e H. sapiens da un lato e questa nuova specie dall’altro, si sono separate. L’antenato comune, affermano, visse circa 1 milione di anni fa.

Fino ad ora, nella descrizione della scoperta, ho omesso l’aspetto che ritengo più interessante: la datazione del ritrovamento. Il dito rinvenuto a Denisova risale, infatti, ad un periodo compreso tra 48.000 e 30.000 anni (probabilmente circa 40.000), quando H. sapiens aveva già colonizzato tutti i continenti ad eccezione delle Americhe. Se lo status di specie a parte venisse confermato, e la cautela è assolutamente d’obbligo in casi del genere (Pääbo e colleghi, infatti, non si sono spinti a nominarla), anche perchè non sono finora stati rinvenuti altri resti umani nè manufatti, saremmo di fronte ad uno scenario che vedeva almeno 4 diverse specie del genere Homo convivere sulla Terra. La specie di Denisova si aggiungerebbe, infatti, ad H. sapiensH. neanderthalensis e il piccolo H. floresiensis, il cui status di specie non sembra più in discussione.

La presenza di questa potenziale nuova specie in Eurasia implica, secondo gli autori, almeno un ulteriore importante episodio di radiazione al di fuori del continente africano che si aggiunge a quello dell’H. erectus, il primo ominide che colonizzò altri continenti già 1,9 milioni di anni fa, quello che ha portato all’origine dei Neanderthal, probabilmente ad opera di H. heidelbergensis, e l’ultimo che ha riguardato la nostra specie.

Ma ciò che più conta è che la scoperta dimostra ancora una volta quanto la visione dell’unicità della nostra specie sia tutt’altro che conforme alla realtà. Non una serie di specie che si modificano l’una nell’altra con un’intrinseca tendenza al miglioramento e al perfezionamento, bensì un cespuglio la cui speciosità è in continuo incremento: ecco il vero ritratto del genere Homo. E noi, siamo solo una delle numerose specie originatesi nel corso del tempo, l’unica, questo sì, che è riuscita a sopravvivere alcune migliaia di anni oltre le altre.

Riferimenti:
Johannes Krause, Qiaomei Fu, Jeffrey M. Good, Bence Viola, Michael V. Shunkov, Anatoli P. Derevianko, Svante Pääbo. The complete mitochondrial DNA genome of an unknown hominin from southern Siberia. Nature, 2010; DOI: 10.1038/nature08976

Terence A. Brown. Human evolution: Stranger from Siberia. Nature, 2010; DOI: 10.1038/nature09006


http://pikaia.eu/una-nuova-specie-di-homo/



Risultati immagini per uomo di denisova


L'Homo di Denisova o donna X è il nome dato ad un ominide i cui scarsi resti sono stati ritrovati nei Monti Altaj in Siberia. La scoperta è stata annunciata nel marzo 2010, quando al termine della completa analisi del DNA mitocondriale è stato ipotizzato che possa trattarsi di una nuova specie. Questo esemplare di ominide è vissuto in un periodo compreso tra 70.000 e 40.000 anni fa[1] in aree popolate principalmente da sapiens e in parte da neanderthal; ciononostante, la sua origine e la sua migrazione apparirebbero distinte da quelle delle altre due specie,[2][3] e il mtDNA del Denisova risulterebbe differente dai mtDNA di H. neanderthalensis e H. sapiens.[4]

Scoperta.
Un team di scienziati dell'Istituto Max Planck di antropologia di Lipsia guidati da Svante Pääbo sequenziò il DNA mitocondriale (che si eredita solo per linea materna), estratto dal frammento osseo di un dito mignolo di un giovane individuo di età stimata tra i 5 e i 7 anni e di sesso incerto nonostante gli fosse stato attribuito il soprannome di donna X. Il reperto venne alla luce nel 2008 nelle grotte di Denisova sui Monti Altaj in Siberia. Nello stesso strato di terreno apparvero piccoli oggetti lavorati riconducibili all'Homo di Denisova.
L'analisi del mtDNA ha inoltre suggerito che questa nuova specie di ominidi sia il risultato di una migrazione precoce dall'Africa, distinta dalla successiva migrazione dall'Africa associata a uomini di Neanderthal e umani moderni, ma anche distinta dal precedente esodo africano di Homo erectus.[5] Pääbo ha rilevato l'esistenza di questo ramo lontano che crea un quadro molto più complesso del genere umano durante il tardo Pleistocene.[6]
Nel 2010, un secondo documento del gruppo di Svante Pääbo ha riferito di una prima scoperta del 2000, di un terzo molare superiore di un giovane adulto, risalente a circa lo stesso periodo (il dito era nel livello 11 della sequenza della grotta, il dente nel livello 11.1). Il dente differiva in diversi aspetti da quelli di Neanderthal pur avendo caratteristiche arcaiche, simili ai denti dell'Homo erectus. Il gruppo eseguì nuovamente l'analisi del DNA mitocondriale sul dente e rilevò che la sequenza era diversa, ma simile a quella dell'osso del dito, indicando un tempo di divergenza di circa 7500 anni, e suggerendo che appartenesse ad un individuo differente della stessa popolazione.[7]
Nel 2011 un osso del dito di un piede è stato scoperto nello strato 11 della grotta, quindi contemporaneo all'osso del dito della mano. La caratterizzazione preliminare del DNA mitocondriale del midollo suggerisce che appartenesse ad un uomo di Neanderthal e non ad un Denisovano[8]. La grotta Altai contiene anche reperti ossei e strumenti di pietra fatti da esseri umani moderni e Pääbo ha commentato: " L'unico posto in cui siamo sicuri che tutte e tre le forme umane hanno vissuto anche se in diversi periodi temporali, è qui nella grotta Denisova ".[8]

Ibridazione con Homo sapiens.
Lo stesso argomento in dettaglio: Ibridazioni tra esseri umani arcaici e moderni.
Studi genetici indicano che approssimativamente il 4% del DNA dell'Homo sapiens non africano è lo stesso trovato nell'Homo neanderthalensis suggerendo una origine comune.[9] I test che mettano in comparazione il genoma dell'Homo di Denisova con quello di 6 differenti Homo sapiens come ǃKung dal SudAfrica, un nigeriano, un francese, un Papua della Nuova Guinea, un abitante dell'isola di Bouganville e uno della stirpe Han, dimostrano che dal 4 al 6% del genoma dei melanesiani (rappresentato dagli uomini dell'isola di Bouganville), derivano dalla popolazione di Denisova. Questi geni sono stati verosimilmente introdotti durante la prima migrazione umana degli antenati dei melanesiani nel Sud est asiatico.[9] Quindi concludendo, è verosimile ipotizzare un'ibridazione tra Homo di Denisova e Homo Sapiens, che ha interessato le popolazioni del sud-est asiatico antico e quelle, loro dirette discendenti, australiane. L'apporto genetico denisoviano alle altre popolazioni asiatiche è limitato e, come in quelle europee e amerinide, deriva in buona parte per via dell'ibridazione, avvenuta in precedenza, con i Neanderthal (che a loro volta si erano ibridati con i Desinova)
.
Aspetto fisico[modifica. 
Non si sa nulla sulle caratteristiche fisiche di questi individui data l'estrema limitatezza del reperto dal quale si estrasse il materiale genetico. Si spera che future analisi del DNA nucleare chiarifichino definitivamente l'esistenza di questa specie o viceversa la smentiscano, dimostrando che questo è il risultato di un incrocio tra Neanderthal e Sapiens. Secondo Pääbo non sarebbe comunque corretto definirlo specie, sia per le sue resistenze ad applicare la nomenclatura binominale linneiana all'evoluzione umana sia perché l'uomo di Desinova si poteva incrociare e riprodurre (magari in modo imperfetto) con l'uomo moderno, rendendo l'ipotesi di segregazione riproduttiva falsificata.
Dalle ultime analisi del mtDNA e del DNA nucleare risulta che l'Uomo di Denisova si sarebbe separato dal comune antenato di Neanderthal e uomo moderno circa 1.000.000 di anni fa e che in seguito si sarebbe incrociato con l'Homo sapiens progenitore dei moderni abitanti della Papua Nuova Guinea, con i quali condivide il 4-6% del genoma;[10] provando così (come già con l'uomo di Neanderthal) l'Ipotesi multiregionale di interscambio genetico tra antichi e moderni Homo sapiens[11].

Analisi del DNA mitocondriale.
Il DNA mitocondriale (mtDNA) proveniente dall'osso del dito è diverso da quello degli esseri umani moderni per 385 basi (nucleotidi), nel filamento del DNA mitocondriale è di circa 16.500 basi, mentre la differenza tra gli esseri umani moderni ed i Neanderthal è di circa 202 basi. Considerando che la differenza tra scimpanzé e gli esseri umani moderni è di circa 1462 paia di basi del DNA mitocondriale[12], ciò suggerisce un tempo di divergenza di circa un milione di anni. L'mtDNA di un dente portava una somiglianza elevata a quella dell'osso del dito indicando che entrambi appartenevano alla stessa popolazione[13]. È stata recuperata una sequenza di mtDNA su un secondo dente che ha mostrato un numero inaspettatamente elevato di differenze genetiche rispetto a quella riscontrata nell'altro dente e nel dito, suggerendo un elevato grado di diversità mtDNA. Questi due individui rinvenuti nella stessa grotta hanno mostrato una diversità tra loro maggiore di quella rilevata campionando gli uomini di Neanderthal di tutta l'Eurasia. Un tasso di diversità paragonabile a quello che distingue gli esseri umani moderni provenienti da diversi continenti[14].

Analisi del DNA nucleare.
Nello stesso studio del 2010, gli autori hanno effettuato l'isolamento e il sequenziamento del DNA nucleare dell'osso del dito del Denisova. Questo esemplare ha mostrato un insolito grado di conservazione del DNA ed un basso livello di contaminazione. Sono stati in grado di raggiungere quasi il completo sequenziamento genomico, consentendo un confronto dettagliato con i Neanderthal e gli umani moderni. Da questa analisi hanno concluso, nonostante l'apparente divergenza della loro sequenza mitocondriale, che gli uomini di Denisova ed i Neanderthal hanno condiviso un ramo comune ancestrale che porta ai moderni esseri umani africani. Il tempo medio stimato di divergenza tra le sequenze dei Denisoviani e dei Neanderthal è di circa 640 000 anni fa, mentre il tempo di divergenza tra le sequenze di ciascuno di essi e le sequenze degli africani moderni è di 804 000 anni fa. Ciò suggerisce che la divergenza dei risultati mitocondriali del Denisova derivi o dalla persistenza di un lignaggio epurato dagli altri rami attraverso deriva genetica oppure da un'introgressione di un lignaggio di un ominide più arcaico[15]. Nel 2013, la sequenza di mtDNA prelevata dal femore di un Homo heidelbergensis di 400.000 anni fa proveniente dalla Grota Sima in Spagna è risultata essere simile a quella di Denisova[16].


Leggi anche: 

Nuove ipotesi sull’ibridazione tra uomo e Neanderthal. - Dario Iori

Nuove ipotesi sull’ibridazione tra uomo e Neanderthal

Risultati di analisi effettuate sul DNA mitocondriale appartenente ad alcune specie di Homo fanno supporre che un gruppo di antenati dell’uomo moderno migrò dall’Africa all’Europa incrociandosi con i Neanderthal molto prima di quanto si supponesse in precedenza, contribuendo a fare luce sui loro complicati rapporti.

Alcuni ominidi, presumibilmente appartenenti alla specie Homo sapiens, circa 270.000 anni fa si spostarono dall’Africa all’Europa e si incrociarono con i Neanderthal. Ad affermarlo sono alcuni scienziati del Max Planck Institute for the Science of Human History di Lipsia e dell’Università di Tübingen (entrambe in Germania), che hanno pubblicato i risultati della loro ricerca su Nature communication. Le loro conclusioni derivano dall’analisi del DNA mitocondriale ottenuto dal femore di un neanderthaliano, rinvenuto nel 1937 all’interno della grotta di Hohlenstein- Stadel (HST) in Germania sud-occidentale. Tali resti, secondo le stime risalgono a 124.000 anni fa, ben prima dell’arrivo precedentemente stimato di Homo sapiens (45.000 anni fa) sul continente europeo.

In passato, alcune indagini bastate sul confronto del DNA nucleare di Homo neanderthaensis e di Homo sapiens avevano portato i ricercatori a stimare che la separazione tra i due avvenne tra i 765.000 e i 550.000 anni fa, e a concludere che i Neanderthal fossero strettamente imparentati con l’uomo di Denisova, specie ancora poco nota, i cui resti furono rinvenuti per la prima volta nel 2008 all’interno della Grotta di Denisova in Siberia (Pikaia ne ha già parlato qui). In questo scenario, i Denisoviani costituirebbero il sister group dei Neanderthal, a seguito della separazione dal gruppo che avrebbe portato all’uomo moderno.

Ma il DNA nucleare non è l’unico portatore di materiale genetico presente all’interno della cellula: tralasciando l’RNA, c’è anche il DNA contenuto nei mitocondri, che viene a ragione definito DNA mitocondriale (mtDNA). Tale componente del patrimonio genetico è di eredità esclusivamente materna e può essere un utile strumento per ricostruire il lignaggio materno e, utilizzando come riferimento il tasso di mutazione ( ovvero il numero medio di mutazioni che avvengono per unità di tempo), stimare il lasso di tempo intercorso dal momento in cui due individui hanno condiviso un progenitore comune.

Ebbene, il mtDNA racconta un’altra storia: gli studi effettuati su di esso indicano infatti che i Neanderthal e l’uomo moderno si separarono all’incirca 400.000 anni fa, molto più recentemente quindi rispetto ai risultati ottenuti dall’analisi del DNA nucleare. Il DNA mitocondriale di Homo neanderthalensis inoltre risulta molto più simile a quello di Homo sapiens che a quello appartenente ai Denisoviani. Come è possibile che le analisi del DNA nucleare e di quello mitocondriale diano risultati così diversi? In un certo momento della storia, i due gruppi devono essere venuti a contatto mescolando i propri corredi genetici. Ciò in realtà è già stato ampiamente dimostrato ed è risaputo che abbiano avuto luogo eventi di ibridazione tra la nostra specie ed i Neanderthal (Pikaia ne ha già parlato qui qui ad esempio). Tale incontro però sarebbe stato di molto antecedente rispetto a quelli già noti agli scienziati.

Per verificare questa ipotesi, i ricercatori del Max Planck Institute,guidati da Johannes Krause, hanno confrontato il mtDNA proveniente dal femore di HST con quello di altri 17 esemplari di Neanderthal più antichi, 3 denisoviani e 54 uomini moderni. I risultati ottenuti mostrano che il DNA mitocondriale proveniente da Hohlenstein- Stadel è decisamente molto diverso rispetto a quello dei primi neandertaliani presenti in Europa 430.000 anni fa.

Gli scienziati hanno dunque ipotizzato che un gruppo di primitivi H. sapiens uscì dall’Africa tra 470.000 e 220.000 anni fa (ben prima quindi di quanto precedentemente ipotizzato), introducendo il proprio DNA mitocondriale nella popolazione europea dei Neanderthal. Il gruppo non doveva essere sufficientemente numeroso per avere un profondo impatto sul DNA nucleare, ma abbastanza ampio per rimpiazzare il DNA mitocondriale dei cugini europei.

I risultati della ricerca non sono definitivi, e sarà necessario analizzare i DNA nucleari e mitocondriali di altri Neanderthal, provenienti da Hohlenstein- Stadel e da altri siti, per avere maggiori informazioni riguardo la storia delle popolazioni neanderthaliane europee. Ciò che è certo però è che la storia del genere umano è una vicenda complessa, fatta di migrazioni, incroci e vicende ancora ampiamente da chiarire.


Riferimento:Cosimo Posth, Christoph Wißing, Keiko Kitagawa, Luca Pagani, Laura van Holstein, Fernando Racimo, Kurt Wehrberger, Nicholas J. Conard, Claus Joachim Kind, Hervé Bocherens, Johannes Krause. Deeply divergent archaic mitochondrial genome provides lower time boundary for African gene flow into NeanderthalsNature Communications, 2017; 8: 16046 DOI:10.1038/NCOMMS16046
Immagine da Wikimedia Commons


http://pikaia.eu/luomo-migro-dallafrica-incrociandosi-con-i-neanderthal-270-000-anni-fa/