Esiste una lista di re, chiamata “lista reale sumerica”, che risale, nella sua ultima compilazione, al 1900 a.C., durante la dinastia di Isin. In questa lista, la storia umana viene divisa in tre parti: un’epoca pre-diluviana e un’epoca post-diluviana.
Nella prima parte della lista troviamo un elenco di re, i cui periodi di reggenza sono conteggiati da una strana unità di misura, denominata “sar”, unità di misura che corrisponde a 3600 anni. I primi dieci re regnarono complessivamente per 240.400 anni. Alla fine di questa prima lista di re “mitici”, è scritto: “Il Diluvio cancellò ogni cosa. Dopo che il Diluvio spazzò via ogni cosa e la regalità fu discesa dal cielo, il regno ebbe dimora in Kish”.
Il Diluvio universale, per le genti sumeriche e per quelle che succedettero loro nei territori mesopotamici, era una realtà.
La Lista Reale continua con i sovrani di epoca post-diluviana, il cui periodo di reggenza non viene più calcolato in quella strana unità di misura, “sar”, ma in anni umani. E notiamo un’altra cosa: i re non regnano più per migliaia di anni, ma per svariate centinaia d’anni.
I sumeri non hanno un mito della creazione. Gli interventi su questo punto sono molteplici, molti studiosi si sono arrovellati sul perché questo popolo non abbia un mito della creazione e alcuni hanno voluto rinvenirlo in alcune righe molto fumose che parlano di “quando il cielo non esisteva e quando la terra non esisteva”; ma il dato incontrovertibile, al di là delle interpretazioni e delle disquisizioni, è che un mito della creazione sumerica non c’è. La ragione è semplice: leggendo i componimenti rinvenuti, ci si avvede immediatamente di trovarsi di fronte a un popolo che non filosofeggia, al quale non interessano le teogonie e tantomeno la teologia. I componimenti sono asciutti, schematici e hanno carattere narrativo. Tutto quanto ivi contenuto è percepito come una realtà – storica o mitica, non sta a noi dirlo – composta fondamentalmente di due temi: il diluvio universale, percepito come la rottura di un’antica alleanza tra uomini e dèi, e la perdita dell’immortalità da parte della razza umana.
Il terzo dato riguarda Gilgamesh di Uruk, che, secondo la nostra lista reale, è l’ultimo re a regnare per più di 100 anni, e sul quale è stata scritta la più antica epopea della storia, risalente – lo sappiamo dai sigilli cilindrici – addirittura a prima della nascita della scrittura. A partire da questi dati, con l’aiuto dei testi, cercheremo di capire qualcosa di più di questa prima civiltà umana conosciuta, che è assolutamente atipica: i testi sumerici sono sempre brevi, distaccati, privi di filosofia e a carattere narrativo. In essi, molto spesso, notiamo ripetizioni simili a litanie, come se per lungo tempo le storie fossero state tramandate da una tradizione orale. Alcuni studiosi, come sir Wooley, che lavorò agli scavi di Ur, hanno provato a teorizzare che il Diluvio non fosse stato, in realtà, che un’esondazione del fiume Eufrate, apparsa come un cataclisma universale dalle genti mesopotamiche. Questa teoria non è mai stata universalmente accettata e la ragione è semplice: chiunque abbia letto i racconti sul Diluvio e dell’importanza che questo ebbe non solo a Ur, ma per tutte le genti mesopotamiche e per altri ben noti e lontani popoli nel corso dei millenni, non potrà mai accettare una tesi del genere.
Gilgamesh è l’ultimo re a regnare per più di 100 anni. Era figlio di una dea: era quindi per 2/3 divino e per 1/3 umano. Perché per 2/3 divino, e non per metà? Perché la madre – non il padre – era divina: in questo dettaglio vediamo l’eco di antiche tradizioni, compresa quella egizia, in cui la matrilinearità del sangue era la garanzia della purezza della stirpe regale: modernamente, potremmo dire che Gilgamesh è per 2/3 divino perché il suo DNA mitocondriale appartiene alla razza divina. Sia come sia, la missione della sua vita è quella di recuperare l’immortalità perduta dalla razza umana che lui ritiene gli spetti di diritto. Per questo, dopo avere superato moltissime prove iniziatiche con l’amico Enkidu, giunge alla fine, da solo, nel luogo in cui si era ritirato Utnapishtim, l’ultimo immortale. Utnapishtim dice al re di Uruk che la sua immortalità è stata decretata dall’assemblea degli dei al completo, ma che ora il destino degli uomini è la morte: “e chi potrà riunire per te, o re, l’assemblea degli dei?”. Così, pur dicendogli che sarebbe stato impossibile raggiungere l’immortalità, Utnapishtim mette alla prova Gilgamesh e gli ordina di non dormire per sette giorni e sette notti, ossia sempre per il tempo mitico legato alla durata del diluvio. Gilgamesh, provato dal lungo viaggio, fallisce la prova. Ma la moglie di Utnapishtim gli confida che nell’Abzu, casa del dio Enki, cresce una pianta della giovinezza, e gli spiega come trovarla. Presa la pianta, il re di Uruk fa per tornare alla città, soddisfatto del suo viaggio, ma fa un errore: sulla via del ritorno, mormora fra sé che non avrebbe mai tenuto quella pianta solo per sé: l’avrebbe condivisa con tutti i vecchi della città, per riportare l’umanità al suo splendore. È allora che dalle acque del fiume esce un serpente, animale sacro a Enki, che divora la pianta e immediatamente cambia pelle, ringiovanendo. Ciò significa che Gilgamesh avrebbe potuto tenere la pianta per sé ma, nel momento in cui sceglie di condividerla con tutti, il dio Enki è costretto a riprendersela, perché Enki aveva giurato davanti all’assemblea che l’umanità non avrebbe potuto tornare a essere immortale. Il singolo, a quanto capiamo, sì, ma dopo prove terribili da superare in prima persona e che possono portare alla morte, come fu per Enkidu.
(Tratto da: La storia inizia a Sumer – dal mito al rito di Anna Bellon)
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