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martedì 8 settembre 2020

Migranti: scoperta banda di trafficanti di uomini, 14 fermi.

Questura di Palermo, arrivano 14 promozioni per i funzionari di polizia -  Giornale di Sicilia

Indagine della Dda di Palermo, l'organizzazione operava in diversi Stati.

La Polizia ha eseguito il fermo di 14 stranieri accusati di far parte di un'associazione a delinquere transnazionale finalizzata al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, all'esercizio di attività abusiva di prestazione di servizi di pagamento e altri delitti contro la persona, l'ordine pubblico, il patrimonio e la fede pubblica; reati aggravati dalla transnazionalità.

L'indagine, svolta dalla Squadra Mobile di Palermo e dal Servizio Centrale Operativo e coordinata dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dal Procuratore Aggiunto Marzia Sabella e dai pm Gery Ferrara, Claudio Camilleri e Giorgia Righi, ha portato alla scoperta di un'organizzazione criminale, con cellule operanti in Africa, in diverse aree del territorio nazionale e in altri Paesi europei.
   
L'associazione agiva su due fronti diversi: il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e l'esercizio abusivo di attività di intermediazione finanziaria tramite il cosiddetto metodo "hawala", utilizzato principalmente per il pagamento dei viaggi dei migranti o come prezzo della loro liberazione dai centri lager in Libia. 

https://www.ansa.it/sicilia/notizie/2020/09/08/migranti-scoperta-banda-trafficanti-uomini-14-fermi_60c0dba9-1b5a-4b75-ae11-1341c499c5d3.html

giovedì 9 agosto 2018

Libia. La rivolta dei migranti nel lager: temono di essere venduti ai trafficanti. - Paolo Lambruschi



All'improvviso a decine spariscono. Finiscono nelle mani di persone che chiedono un riscatto alla famiglia o li vendono come schiavi. Onu e diplomatici faticano ad avere accesso ai campi di detenzione.

La tensione accumulata da mesi è esplosa domenica nel sovraffollato centro di detenzione libica di Sharie (o Tarek) al Matar, nei sobborghi di Tripoli, con scontri con le guardie e tre feriti. Le drammatiche testimonianze di alcuni detenuti raccolte da noi in diretta telefonica, le foto dei feriti, gli audio e il video su Facebook postato da Abrham, (ora anche sul nostro canale Youtube, linkato a questo articolo) giovane rifugiato eritreo di Bologna, domenica pomeriggio documentano l’esasperazione e la protesta dei prigionieri per le condizioni da tutti gli osservatori considerate inumane di prigionia e contro trasferimenti in altri centri per paura di essere venduti ai trafficanti di esseri umani.
Paura giustificata dalla sparizione di 20 detenuti nei giorni scorsi e di 65 donne con bambini che i libici giustificano come alleggerimento dell’affollatissima struttura e sulla quale sta compiendo verifiche l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Per protesta i prigionieri eritrei, molti in carcere da mesi, parecchi intercettati e sbarcati dalla guardia costiera libica dopo la chiusura delle coste di questi mesi, hanno incendiato due materassi provocando la repressione durissima della polizia libica, la quale ha ferito tre richiedenti asilo, due dei quali hanno dovuto essere ricoverati in ospedale. Negli stanzoni roventi, lerci e stipati come pollai sono stati sparati lacrimogeni e le guardie hanno picchiato i detenuti con i fucili per riportare la calma. 

«Sono stati momenti di battaglia tra eritrei e libici – spiega il nostro contatto Solomon, pseudonimo di un prigioniero fuggito dal regime dell’Asmara, nel campo da maggio scorso dopo aver trascorso i precedenti sei mesi nell’altro lager di Gharyan – loro ci ripetono che siamo troppi e che vogliono venderci. Siamo disperati, molti parlano di suicidio. Non vediamo vie di uscita. Non possiamo tornare in Eritrea e l’Europa non ci vuole». La tensione insomma potrebbe portare ad altre rivolte.
I libici sono accusati di rallentare il processo di registrazione dei detenuti dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite chiudendo le porte per ragioni di sicurezza e spostando senza preavviso le persone non ancora iscritte nelle liste Onu dei richiedenti asilo per venderli ai trafficanti.
Ieri funzionari del Palazzo di Vetro sono riusciti a entrare di mattina presto a Tarek al Matar e a proseguire nella difficile registrazione di 200 eritrei. L’intento, spiegano fonti Acnur a Tripoli, è duplice: registrare tutti e offrire ai soggetti più vulnerabili - donne, minori, ammalati che non possono venire rimpatriati per timore di persecuzioni - una evacuazione umanitaria nel centro Onu in Niger per alleggerire il campo e favorire il reinsediamento in Paesi terzi. Ma i posti a disposizione non bastano per i 1.800 dannati di Tarek Al Matar, dove il precedente governo aveva avviato progetti per due milioni per l’emergenza ormai conclusi, come anche nei centri di Tarek Al Sika a Tagiura. Anche l’Onu ammette che le condizioni del campo sono peggiorate.
E il sovraffollamento deriva dal fatto che la Guardia costiera libica ha intercettato finora 13 mila persone. In tutto il 2017 ne aveva intercettati oltre 15mila. 

Secondo una fonte libica, sempre ieri a una diplomatica dell’Unione europea sarebbe stato impedito l’accesso al centro di detenzione. La motivazione ufficiale è che non avrebbe presentato richiesta in tempo. Ma si sospetta che in realtà le autorità tripoline vogliano nascondere all’Ue i danni dell’incendio e le violenze sui detenuti. 

Secondo dati dell’Acnur, al 31 luglio nel Paese erano stati registrati 54.416 richiedenti asilo e rifugiati, 9.838 solo nel 2018. Ma se le proporzioni sono quelle del campo di Tarek al Matar, solo un terzo è stato identificato, gli altri galleggiano tra violenze, condizioni igienico sanitarie inumane e il rischio di sequestri nel limbo dei centri di detenzione, sia ufficiali che quelli nelle mani delle milizie. Ieri con un tweet eloquente la sezione italiana dell’Oim, organizzazione internazionale delle migrazioni, ha puntualizzato che il suo personale è presente agli sbarchi nei porti libici, ma la gestione dei campi è in carico alle autorità locali. 

Le tensioni a Tarek Al Matar sono esplose principalmente per il terrore di venire venduti ai trafficanti, i quali gestiscono sì le partenze sui barconi, ma solo dopo aver torturato i prigionieri per estorcere riscatti alle famiglie, oppure rivenderli come schiavi.
Dal campo abbiamo scritto sabato su Avvenire che erano sparite 20 persone, uno solo dei quali è riuscito a tornare.
«Chiamiamolo Fish, mi ha contattato – racconta Abrham, rifugiato eritreo in Italia che raccoglie le grida di aiuto della sua generazione rinchiusa – perché è riuscito a tornare a Tarek al Matar. Sono stati trasferiti in uno stanzone in un luogo sconosciuto senza cibo e senza acqua. Hanno sentito due libici che dicevano che la notizia della loro sparizione era girata in rete e quindi la vendita doveva essere interrotta. Lo hanno riportato indietro, adesso aspetta i suoi compagni».

La circolazione delle notizie via social avrebbe salvato anche gli oltre 200 prigionieri "trasferiti" due settimane fa dal centro di Tarek Al Siqa senza preavviso in un luogo sconosciuto e pressoché privo di sorveglianza dove un trafficante eritreo che collabora con i libici spacciandosi per mediatore culturale li ha contattati invitandoli a seguirlo. Il gruppo, che teme di essere già stato venduto e dove ci sono persone non registrate nelle liste umanitarie, prosegue il braccio di ferro a colpi di messaggi via social urlando nel silenzio della rete il proprio diritto ad essere accolto. 

Perché il paradosso, scorrendo le nazionalità censite dall’Onu in Libia, è che molti detenuti sono rifugiati e richiedenti asilo che dovrebbero trovarsi legalmente in Paesi sicuri a chiedere asilo oppure essere liberi di circolare in Libia. Come gli oltre 9mila sudanesi, e i 6mila eritrei e i 3mila somali e gli oltre mille etiopi cui persino Tripoli, che pure non ha firmato la Convenzione di Ginevra, riconosce lo status. Senza contare che un terzo ha meno di 18 anni e dovrebbe essere protetto dai civilissimi Stati europei. Ma nel caos libico si trovano ingabbiati sotto la sorveglianza di miliziani rivestiti con una divisa da poliziotto senza uno straccio di formazione e che considerano i prigioneri migranti illegali e merce da rivendere.

giovedì 11 maggio 2017

Crudeltà e sevizie', arrestati cinque trafficanti in due diverse operazioni.

(foto di archivio) © ANSA

Ad uno è contestato il concorso nell'assassinio di un 21enne migrante della Sierra Leone, ucciso con colpo di arma da fuoco perché si era rifiutato di dargli il cappellino.

Due libici, presunti scafisti, arrivati a Catania il 6 maggio scorso con nave Phoenix, assieme a 394 migranti, sono stati fermati da Polizia di Stato e Guardia di finanza perché ritenuti appartenenti a un organizzazione di trafficanti di esseri umani. A uno dei due è contestato anche il concorso nell'assassinio di un 21enne migrante della Sierra Leone, ucciso con colpo di arma da fuoco perché si era rifiutato di dargli il cappellino. Il cadavere era stato recuperato da nave Phoenix. L'indagato non è l'esecutore del delitto. Sono indagati dalla Procura distrettuale per per associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Uno anche per concorso in omicidio. Il fermo, disposto dalla Procura, fa seguito a indagini del pool di investigatori della Squadra Mobile di Catania e del Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di finanza, con la collaborazione della Sezione operativa navale.
Tre nigeriani sono stati invece fermati dalla polizia di Stato di Agrigento per associazione per delinquere finalizzata alla tratta ed al traffico di esseri umani, sequestro di persona a scopo di estorsione, violenza sessuale, omicidio. Erano sbarcati a Lampedusa lo scorso 16 aprile. Il provvedimento emesso dalla Dda della Procura di Palermo ed eseguito dalla squadra mobile di Agrigento contesta anche alcune aggravanti, tra cui la transnazionalità del reato, la disponibilità di armi, l'agire con crudeltà e sevizie per futili motivi.