martedì 24 aprile 2012

Tu sei la Natura. - MIRKO PALOMBA



natura

Una delle questioni che meritano maggiore attenzione in questi ultimi anni è l'inquinamento della terra, della natura, come se l'essere umano ne fosse disgiunto.
Crediamo veramente che ciò che facciamo al nostro pianeta non ci ritorni indietro in qualche modo? L'uomo stesso ha imposto dei limiti, dati dal "giusto" compromesso industriale e sanitario, capace di stabilire se l'inquinamento di una città, di una regione o di una nazione sia lecito o no; ma come facciamo ad arrogarci il diritto di stabilire se le nostre azioni sono permesse o meno nei riguardi del nostro Pianeta? Cos'è l'uomo se non una protuberanza della Terra stessa? Nasciamo e ci nutriamo su questo Pianeta, respiriamo la sua aria, beviamo la sua acqua, mangiamo i suoi fruttiUn errore commesso nei riguardi della Terra è un errore commesso nei riguardi di tutti, anche verso noi stessi. Il capitalismo ci spinge a consumare sempre più, perché più si consuma e più girano soldi. I soldi, quest'entità astratta che ci ha fatto vendere l'anima in compenso di oggetti dalla discutibile utilità. Prima di comprare qualcosa, dovremmo chiederci sempre se ne abbiamo veramente bisogno, cosa ha comportato la sua produzione e che danni farà quando ce ne disfaremo.
La Terra è l'unico Pianeta a noi noto in cui esiste l'esatta combinazione chimico-fisica in grado di portare ad avere forme di vita, numerose forme di vita. Non possiamo distruggere tutto questo, non ne abbiamo il diritto! Davanti a noi abbiamo sempre almeno due scelte, lasciamo che in quel momento decida la nostra coscienza e non il nostro egoistico tornaconto. Ricorda che tu sei la Natura.

La truffa.




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'Dell'Utri fu mediatore, Berlusconi pagò mafia'.



Dell'Utri e Berlusconi


Così la Cassazione in motivazioni della sentenza che annullò con rinvio condanna per senatore.


ROMA  - Il senatore Marcello Dell'Utri è stato il "mediatore" dell'accordo protettivo per il quale Berlusconi pagò alla mafia "cospicue somme" per la sua sicurezza e quella dei suoi familiari. Lo scrive la Cassazione nelle motivazioni depositate della sentenza che ha annullato con rinvio la condanna per concorso esterno a Dell'Utri.

Spiegano i supremi giudici - nella sentenza 15727 di 146 pagine - che in maniera "corretta" sono state valutate, dai giudici della Corte d'Appello di Palermo, le "convergenti dichiarazioni" di più collaboratori sul tema "dell'assunzione, per il tramite di Dell'Utri, di Mangano ad Arcore, come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di Cosa Nostra". Provata anche la "non gratuità dell'accordo protettivo, in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore della mafia".

Per quanto riguarda l'assunzione del mafioso 'Stalliere' Mangano alla villa di Arcore, ad avviso della Suprema Corte il dato di fatto "indipendentemente dalle ricostruzioni dei cosiddetti pentiti, è stato congruamente delineato dai giudici di merito come indicativo, senza possibilità di valide alternative, di un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell'Utri che, di quella assunzione, è stato l'artefice grazie anche all'impegno specifico profuso da Cinà".

Silvio Berlusconi pagò Cosa Nostra, per assicurare la sua protezione e quella dei suoi cari, in base ad un intento originato "da uno stato di necessità per l'imprenditore". Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni che riaprono il processo d'appello per Marcello Dell'Utri. La Cassazione spiega che l'accordo con il sodalizio mafioso era "volto a garantire la "libertà di movimento e di iniziativa" a Berlusconi e "il vantaggio economico personale e del gruppo, per Cosa Nostra".

L'appello bis del processo per concorso esterno che la Corte d'Appello di Palermo dovrà rifare nei confronti del senatore Marcello Dell'Utri, potrebbe non cadere in prescrizione. Lo dice la Cassazione nelle motivazioni della sentenza 15727. Secondo la Cassazione, infatti, si potrebbe applicare "il regime della prescrizione antecedente alla riforma del 2005 che valorizza il reato continuato". Così i termini della prescrizione cambierebbero "in pejus" per Dell'Utri e la prescrizione non cadrebbe nel 2014.

Renato Schifani indagato per concorso esterno ma sotto falso nome. - Giuseppe Pipitone




Secondo quanto rivelato da La Stampa il presidente del Senato è iscritto con il nominativo Schioperatu. La procura di Palermo sta indagando su alcuni presunti contatti con il boss di Brancaccio Filippo Graviano.

Schioperatu. È un nome stravagante quello che dall’estate del 2010 risulta iscritto nel registro degli indagati della Procura di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Un nome che in realtà è una semplice copertura, un escamotage usato dai magistrati palermitani per celare l’identità del presidente del Senato Renato Schifani. Un accorgimento dovuto, quello rivelato dal quotidiano La Stampa, vista l’importanza del soggetto indagato per mafia.

Quando l’indiscrezione era finita sulle pagine dei giornali nel settembre del 2010 il procuratore capo Francesco Messineo aveva smentito la notizia riuscendo comunque a dire la verità. “Il nome del presidente del Senato Renato Schifani non è iscritto nel registro indagati di questa procura”, aveva detto consapevole di aver iscritto la seconda carica dello Stato dietro lo pseudonimo di Schioperatu. Nome questo inventato per metà: le prime tre lettere sono infatti derivate direttamente dal cognome Schifani, il resto invece è preso in prestito dal cognome di una persona indagata in precedenza e poi archiviata. La smentita di Messineo però era bastata al presidente di Palazzo Madama per ergersi al ruolo di vittima. “Prendo atto della smentita da parte del procuratore della Repubblica di Palermo – aveva detto Schifani – . Si tratta di accuse ripetute, infami e false, destituite di qualsiasi fondamento. Affermo la mia totale estraneità ai fatti riportati da certa stampa”.

Nonostante le parziali smentite però l’indagine per mafia su Schifani – Schioperatu esiste e continua ad andare avanti a Palermo dove i sostituti procuratori Nino Di Matteo, Lia Sava e Paolo Guido, coordinati dagli aggiunti Ignazio De Francisci e Antonio Ingroia, lavorano nella massima riservatezza avviandosi a chiudere l’inchiesta. Una conclusione che non è ad oggi per nulla scontata.

L’indagine era partita  da una relazione della Direzione investigativa antimafia toscana, in cui si faceva cenno ad alcune dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza. L’ex killer di Brancaccio aveva raccontato agli inquirenti di visite che Schifani, all’epoca avvocato amministrativista, avrebbe fatto nei capannoni della Valtras, l’azienda di trasporti di proprietà del suo cliente Pippo Cosenza. Negli stessi capannoni sarebbe stato presente anche Filippo Graviano, il boss delle stragi del 1993.

Alle accuse di Spatuzza si sono sommate nell’ottobre scorso anche quelle di un altro collaboratore di giustizia, l’ex boss di Ficarazzi Stefano Lo Verso, che testimoniando in aula al processo contro l’ex capo del Ros Mario Mori aveva raccontato: “Nicola Mandalà mi disse che avevamo nelle mani Renato Schifani, Marcello Dell’Utri, Totò Cuffaro e Saverio Romano”.

Nicola Mandalà era il boss di Villabate che aveva curato fino al 2005 la latitanza di Bernardo Provenzano. Il padre, l’avvocato Nino Mandalà, è stato militante in Forza Italia e socio negli anni ’80 proprio di Schifani nella Sicula Brokers, società di brokeraggio assicurativo di cui facevano parte anche Enrico La Loggia, ex Ministro attualmente deputato del Pdl, e Benny D’Agostino, amico del boss Michele Greco poi arrestato per mafia. A Villabate Schifani è stato anche consulente per l’urbanistica del sindaco Giuseppe Navetta, alla guida del comune fino allo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Secondo il pentito Francesco Campanella, ex presidente del consiglio comunale di Villabate, quell’incarico di consulente era stato concesso a Schifani grazie all’intercessione di Enrico La Loggia.

Agli atti dell’inchiesta sul presidente del Senato i magistrati hanno anche valutato se inserire un’intercettazione ambientale tra i due imprenditori Giovanni Li Causi (poi arrestato per mafia) e Franco Conti. Li Causi, ex gestore del bar dello stadio Renzo Barbera, parla di un’azienda di pulizie che sarebbe controllata dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Un’azienda che riuscirebbe a vincere appalti “perché loro sono appoggiati politicamente, hanno un appoggio forte, ma forte, forte” spiega Li Causi. “Che appoggio?” chiede Conti. Li Causi risponde secco “Schifano”. Un nome che ricorda molto quello della seconda carica dello Stato. E questa volta cambia solamente una lettera.

Quando Dell’Utri incontrava i boss a Milano. - di Marco Lillo



L’incontro tra il giovane Silvio Berlusconi e il boss Stefano Bontate negli uffici milanesi del Cavaliere raccontato dal collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo. Si tratta di uno dei punti fondanti della condanna in Appello per concorso esterno in associazione mafiosa nei confronti del senatore Marcello Dell’Utri. Oggi la Cassazione ha deciso di annullare quel processo e di rifarne un altro. Si riparte, dunque, dalla condanna a nove anni in primo grado. In quella sentenza l’incontro – raccontato ai magistrati dall’ex boss Francesco Di Carlo, già capomafia di Altofonte, poi trafficante di droga a Londra e infine, dopo l’arresto, collaboratore di giustizia – segnerebbe l’avvio del ruolo di mediatore nei rapporti tra Berlusconi e la mafia palermitana. La difesa di Dell’Utri oggi ha detto, invece, che “non c’è mai stato alcun incontro a metà degli anni ’70 tra Berlusconi e i boss mafiosi Di Carlo, Teresi e Bontade”. Per il difensore del senatore, Massimo Krogh, “la Procura di Palermo si è ostinata a credere a questa bugia smentita da tutti gli accertamenti di fatto”. In questa intervista inedita realizzata da Marco Lillo, Di Carlo ricostruisce in dettaglio quell’incontro e i suoi rapporti con Marcello Dell’Utri.

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Antipolitica? No, è ribellione. - di Michele Ainis


Quello che sta succedendo in Italia è semplice ed esplosivo: è nata un'opinione pubblica che non ne può più di questi mandarini appollaiati su un ramo dorato a difendere se stessi. E se ne vuole liberare in ogni modo.


In principio c'è un artificio semantico, una truffa verbale. "Antipolitica", l'epiteto con cui la politica ufficiale designa questa nuova cosa. Marchio di successo, tant'è che digitandolo su Google si contano 780 mila risultati. Ma che cos'è l'antipolitica? Un sentimento becero, un vomito plebeo?

No, un inganno. L'ennesimo inganno tessuto dal sistema dei partiti. Perché mescola in un solo calderone il popolo di Grillo e il think tank di Montezemolo, le signore della borghesia milanese che hanno votato Pisapia e gli studenti in piazza contro la Gelmini, i dipendenti pubblici bastonati da Brunetta e gli imprenditori taglieggiati dall'assessore di passaggio. E perché con questa parola i politici definiscono l'identità altrui a partire dalla propria. Come facciamo ormai un po' tutti, definendo extracomunitario il filippino o l'egiziano. Ma un siciliano non è un extrapiemontese, un indignato contro gli abusi della Casta non odia la politica, ne è piuttosto un amante deluso.

Ecco, gli Indignados. Ci sarà pure una ragione se il pamphlet di Stéphane Hessel ha venduto in Francia milioni di copie, se ha dato la stura a una protesta che divampa a Madrid come a Londra e a Berlino. 

E a Roma? Innanzitutto riepiloghiamo i fatti. Marzo 2010: alle regionali il non voto, sommato alle schede bianche e nulle, tocca il 40%. Tanto che il Pdl, pur vincendo le elezioni, ottiene la fiducia esplicita di appena un italiano su 7. Maggio 2011: alle amministrative sfondano gli outsider, e con loro una nuova generazione di politici. Giovani e sfrontati come il cagliaritano Zedda, che replica l'esperienza del fiorentino Renzi. Ma l'emblema è Napoli. Dove al ballottaggio un cittadino su 2 marina le urne, mentre il 65% dei votanti sceglie un uomo fuori dai partiti, perfino il proprio: De Magistris. Giugno 2011: dopo 14 anni, dopo 24 consultazioni senza quorum, 4 referendum raggiungono il 55% dei suffragi. Nonostante il silenzio delle tv, nonostante il rifiuto d'accorparli alle amministrative, che ci costringe al terzo voto in quattro settimane, uno slalom. Infine il tam tam contro gli sprechi e i privilegi di cui godono, ormai da troppo tempo, Lorsignori.



A tendere l'orecchio, quest'orchestra ci impartisce una triplice lezione. Primo: il ritiro della delega. Gli italiani non ne possono più della loro classe dirigente, di questi mandarini appollaiati su un ramo dorato da vent'anni. La seconda Repubblica ha fallito: ne è nato un girotondo di sigle, di liste, di partiti, ma le facce no, quelle sono sempre uguali. Facce che nel primo decennio del 2000 ci hanno recato in dono la crescita più bassa d'Europa. 

Per forza che ormai nessuno se ne fida: possono cantare in coro la Bohème, possono anche uscirsene con un'idea mirabolante, ma sono logori, senza credibilità. Secondo: un'istanza di democrazia diretta. In parte a causa del moto di sfiducia verso chi ci rappresenta nel Palazzo, in parte per una nuova voglia di decidere, d'impadronirci del futuro. Per darvi sfogo dovremmo rafforzare il referendum, abbattendo il quorum, affiancandogli quello propositivo, aggiungendo strumenti di controllo sugli eletti come il recall, la revoca anticipata del mandato. Terzo: il ritorno dell'opinione pubblica. O meglio della sua funzione critica, che è poi il sale delle democrazie moderne, come ha mostrato Habermas. Da qui parole d'ordine quali il dimezzamento dei parlamentari, delle province, di tutti gli enti, portenti e accidenti che ci teniamo sul groppone. Da qui la goffa rincorsa dei partiti, che a parole si dichiarano d'accordo, salvo rinviare ogni soluzione alle calende greche.

Insomma la Bella addormentata si è svegliata, liberando un'energia repressa troppo a lungo. Vi s'esprime una domanda d'eguaglianza, ma anche di ricambio, di legalità, di semplificazione dei labirinti pubblici nei quali ingrassano i professionisti del consenso. Sarà per questo, per esorcizzare il mostro, che i politici l'hanno chiamato "antipolitica". Sbagliano: è un'energia tutta politica, quella che ribolle nella società italiana. Sbagliano due volte: ormai la vera antipolitica è la loro.



http://espresso.repubblica.it/dettaglio/antipolitica-no-e-ribellione%3Cbr-%3E/2159095

Catanzaro, la candidata Laria condannata per concussione: “Assunzioni in cambio di fondi”. - Lucio Musolino



Due anni e dieci mesi in primo grado per l'ex assessore, con interdizione dai pubblici uffici. Ma il suo avvocato dice: "Può presentarsi lo stesso". Con la "Lista Scopelliti" sostiene l'aspirante sindaco Sergio Abramo, indagato per falsa testimonianza dopo una deposizione contestata nello stesso processo.


Due anni e 10 mesi di carcere e interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena. È stata giudicata colpevole di concussione l’ex assessore al Comune di Catanzaro Caterina Laria, in carica fino al 2005 e oggi candidata alle amministrative di maggio con la lista “Scopelliti presidente” che appoggia l’aspirante sindaco Sergio Abramo. In primo grado, quindi, ha retto l’impianto accusatorio sostenuto in aula dal pubblico ministero Gerardo Dominijanni che, al termine della requisitoria, aveva chiesto 6 anni di reclusione.

In sostanza, Laria avrebbe chiesto alla Fondazione “Città Solidale”, che si occupa di assistenza ai disabili, di assumere alcune persone da lei segnalate in cambio di una serie di provvedimenti amministrativi per un progetto comunale. Il “j’accuse” nei confronti del politico di centrodestra portava la firma del presidente della Fondazione, padre Piero Puglisi. Quest’ultimo, nel 2004, aveva presentato un esposto in cui spiegava di aver ricevuto dalla Laria la precisa indicazione che lei si sarebbe impegnata per l’approvazione di un progetto presentato dall’ente, se padre Puglisi in cambio avesse accettato di impiegare nell’esecuzione alcune persone segnalate.

Secondo quanto riferito dall’avvocato Giancarlo Pittelli, difensore dell’ex assessore, «la pena non va immediatamente in esecuzione e quindi Caterina Laria può regolarmente candidarsi al consiglio comunale di Catanzaro». A margine dell’inchiesta è indagato anche il candidato del Pdl a sindaco di Catanzaro, Sergio Abramo, accusato di falsa testimonianza. Lo scorso 7 novembre, infatti, Abramo era comparso davanti al tribunale di Catanzaro per testimoniare nel processo a carico del suo ex assessore alle Politiche sociali. Secondo l’accusa si è contraddetto rispetto alle sue precedenti dichiarazioni rese nella fase preliminare dell’indagine e rispetto a quelle degli altri testimoni. Doveva essere poco più di una formalità e, invece, il suo interrogatorio si è concluso con l’iscrizione dell’ex primo cittadino nel registro degli indagati. La lista “Scopelliti presidente” si appresta, quindi, ad affrontare le prossime elezioni comunali di Catanzaro con un candidato condannato per concussione.