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mercoledì 2 maggio 2012

Calabrò: “Banda larga, troppi ritardi costano al Paese l’1,5% del Pil”


calabrò interna nuova

Il presidente dell'Agcom a tutto campo: "Con il web la par condicio va rivista". E sulla Rai: "La politica resti fuori". Secondo l'Authority il duopolio con Mediaset è stato soppiantato grazie alla crescita di Sky, ma la legge sul conflitto d'interessi resta "carente". L'Italia rimane ancora teledipendente e alle prese con un'informazione sovraccarica di cronaca nera e processi mediatici.

Il costo dei ritardi nello sviluppo della banda larga costa all’Italia tra l’1 e l’1,5% del Pil. Il dato è fornito dall’Autorità Garante per le Comunicazioni che oggi ha presentato un rapporto di fine mandato (che scadrà a metà maggio). Per giunta Internet, spiega il presidente dell’Authority, “è un fenomenale motore di crescita sociale ed economica”, ma la rete fissa in Italia è “satura e quella mobile rischia ricorrenti crisi asmatiche”. 
Per quanto riguarda la banda larga fissa, spiega l’Agcom, l’Italia è sotto la media europea, con 21 linee ogni 100 abitanti contro le 27 dell’Europa, per numero di famiglie connesse a internet (62% contro il 73%) e a internet veloce (52% contro 67%), per gli acquisti e per il commercio on line. Per le esportazioni mediante l’Ict l’Italia è fanalino di coda in Europa; solo il 4% delle pmi vendono online, mentre la media Ue-27 è del 12%.
Video – Calabrò: “Gravi i ritardi sulla banda larga”
Par condicio. Rimanendo a internet Calabrò ha anche spiegato che al tempo del web la legge sullapar condicio “va aggiornata per tener conto delle mutazioni subite dalla comunicazione televisiva (specie con l’inserimento dei politici nei programmi informativi) ed è da riconsiderare in relazione all’incalzante realtà di Internet“. Calabrò riconosce che “l’impianto normativo a tutela della par condicio si è dimostrato un indispensabile strumento a tutela della democrazia” e che “l’Autorità ne ha fatto attenta e pronta applicazione”, tra l’altro irrogando sanzioni per “oltre 2,2 milioni di euro”. Provvedimenti “quasi sempre impugnati”, ma nessuno dei quali “è stato annullato dal giudice amministrativo”. Su questo punto si registra la risposta amara di Enzo Mazza, presidente della Fimi: “Calabrò – commenta – ha di fatto sancito la resa dell’Autorità, consegnando virtualmente la maglia dell’Agcom agli ultras della pirateria. Bene ha fatto l’amministrazione Obama ha mantenere l’Italia nella lista nera dei Paesi con scarsa tutela dei diritti di proprietà intellettuale”.
Diritto d’autore. Parlando invece di tutela di copyright sul web, il presidente dell’Autorità per le comunicazioni aggiunge che finché il Governo non adotterà la norma interpretativa, “non ci sentiremo tenuti alla deliberazione del regolamento, pur così equilibrato, che abbiamo predisposto”. “L’intesa – prosegue – era che il Governo avrebbe adottato una norma di interpretazione autentica che rendesse leggibili per tutti le norme primarie che inquadrano la nostra competenza. E’ vero che una tale norma non è indispensabile, ma sarebbe certamente utile in una materia, qual è quella in questione, nella quale, per la sua sensibilità, è auspicabile la massima chiarezza”.
Il presidente Agcom invita quindi il popolo della rete a non avere timori. “L’Agcom – spiega – saprà conciliare il diritto alla libera circolazione del pensiero sulla rete nelle nuove forme della tecnologia col diritto d’autore, ch’è il fertilizzante della società dell’oggi e di quella a venire: anche a esso ha riguardo la Costituzione. Internet ha un’insostituibile funzione informativa; nessuno più di noi ne è consapevole. Ma nessun diritto è senza limiti”.
Internet per 27 milioni di italiani. In 7 anni gli utenti di internet in Italia sono passati da 2 a 27 milioni. Una crescita che significa un mutamento della faccia e della mentalità del mondo dei media, perché il web “ha dematerializzato servizi e prodotti, cambiato la fruizione stessa dello spazio e del tempo”. E ovviamente ha allargato l’area dei lettori dei libri e dei giornali. 
“Politica fuori dalla Rai”. Calabrò parla anche di tv pubblica, specificando che è arrivato il tempo che la politica abbandoni le pressioni. “Nei limiti della propria competenza – sottolinea il presidente Calabrò – l’Autorità ha tentato di promuovere una riforma della Rai. Si trattava di proposte misurate e, in quanto tali, a nostro avviso praticabili, che abbiamo rilanciato anno dopo anno. Ma hanno subito la sorte di tutte le altre”. Si tratta di una riforma pensata per svincolare “la Rai dalla somatizzata influenza politica e ne reimpostasse l’organizzazione con una governance efficiente, una migliore utilizzazione delle risorse e la valorizzazione del servizio pubblico. Parafrasando una frase famosa (di Platone, ndr) potremmo dire che ‘solo i morti hanno visto la fine del dibattito sulla Rai’”. Nel dibattito si inserisce anche lo stesso presidente della Rai, Paolo Garimberti: “E’ difficile non essere d’accordocon Monti soprattutto sul rapporto tra politica e Rai. Ora ci potrebbe essere una svolta. E’ una buona occasione per dimostrare che alle parole seguono i fatti e che la politica cerca di ingerire di meno”.
“Il duopolio Rai-Mediaset non c’è più”. Lo scenario tv sta mutando, calano gli ascolti delle reti generaliste, ma sul fronte delle risorse “permane fondamentalmente la tripartizione tra Rai, Mediaset e Sky Italia”, che “a partire dal 2009 ha soppiantato il duopolio”. A fine 2010, si legge nella relazione, Mediaset rappresentava il 30,9% delle risorse complessive, Sky il 29,3%, Rai il 28,5%. Intanto però la situazione tv “è – sia pure lentamente – in trasformazione”, ricordando che “le sei reti generaliste di Rai e Mediaset detengono oggi circa il 67% dello share medio giornaliero (era l’85% nel 2005, oltre il 73% un anno fa); La7 quasi il 4%; Sky oltre il 5%. Si è affacciata alla ribalta qualche significativa tv locale. I canali tematici in chiaro sono cresciuti in audience del 27% in un anno”. E sul fronte del digitale terrestre “siamo a circa 80 programmi nazionale in chiaro”. Il panorama, spiega Calabrò, “è destinato a un’ulteriore evoluzione in virtù dell’utilizzazione del dividendo digitale che avverrà con l’asta che sostituirà il beauty contest, la quale ridefinirà lo spettro in coerenza con la redistribuzione delle frequenze e la razionalizzazione del loro uso prefigurate nella Conferenza di Ginevra del febbraio scorso”.
“Conflitto d’interessi la legge è carente”. Le norme sul sostegno privilegiato contenute nella legge sul conflitto d’interessi presentano “aporie e imperfezioni”. Calabrò lo ribadisce dopo varie segnalazioni al Parlamento: “Qualcuno avrebbe voluto che noi facessimo di più. Ma questa sì è materia fondamentalmente riservata alla legge”. In particolare, Calabrò lamenta il fatto che “si è voluto che questa Autorità stesse in agguato per cogliere in fallo l’impresa che avesse in concreto sostenuto l’esponente governativo: ma non per fischiare la squalifica bensì semplicemente per infliggere un’ammonizione”.
L’Agcom, sottolinea ancora, “non può prestarsi ad avventurose supplenze del legislatore”. Il presidente uscente cita l’opposizione dell’Autorità “all’assunto ministeriale che la pretesa mancanza di reciprocità comportasse l’esclusione di Sky dal beauty contest. E il Consiglio di Stato – sottolinea – con un motivatissimo parere, ha dato ragione all’Autorità, riaffermandone l’indipendenza e la competenza nell’assicurare il rispetto dei principi e delle decisioni comunitari. Lo stesso deve valere nei confronti di analoghe invasioni di campo, da qualsiasi parte provengano. Non è accettabile che da destra o da sinistra si reclutino le Autorità indipendenti per gettarle in combattimenti gladiatori nell’arena politica”.
Italia ancora teledipendente. In realtà, anche osservando lo sviluppo dell’utilizzo di internet “l’Italia è tuttora un Paese teledipendente”. Anche se “il maggior numero di informazioni proviene oggi” dalla rete, spiega Calabrò, “l’informazione più influente è ancora quella fornita dalla televisione”. E ancora: “Le nuove forme della democrazia corrono sulla rete ma la politica visibile in Italia si fa pur sempre in televisione”, incalza Calabrò.
Cronaca nera e processi mediatici. La nostra televisione, per altro, resta “fondamentalmente una finestra sul cortile di casa nostra, una grande tv locale, con un esagerato interesse per i fatti di cronaca nera e con la tendenza a trasformare i processi giudiziari in processi mediatici” riflette il presidente Agcom. “E’ rimasto deluso l’auspicio, condiviso dal presidente della Repubblica – sottolinea – che a tale fuorviante tendenza ponesse il Comitato di autoregolamentazione dei processi in tv”. Persiste “il divario tra le nostre televisioni e le migliori straniere, per la ricchezza d’informazione sui vari Paesi del mondo e per l’approfondimento qualificato dei temi trattati”.
Valore delle tlc al 2,7% del Pil. Il peso del settore telecomunicazioni sul Pil è del 2,7 per cento, con il mobile che vale stabilmente più del fisso (52%). E’ sempre Calabrò a fornire i dati. Il prepotente sviluppo della telefonia cellulare si nota sia nel numero di sim, oltre una e mezza per abitante, ma soprattutto nella grande diffusione degli smartphone, che sono ormai circa il 30% del totale dei telefonini. L’Italia, inoltre, presenta la più alta penetrazione di smartphone tra i giovani (47%). Nelle reti mobili, continua Calabrò, il traffico dati ha superato il tradizionale traffico voce, grazie alle tecnologie 3G e alla forte diffusione di nuovi terminali, come smartphone e tablet.
L’Italia al top per cellulari. L’Italia è il Paese col maggior numero, in Europa, di telefoni cellulari e con la maggiore diffusione di apparecchi idonei a ricevere e trasmettere dati in mobilità (smartphone, ipad, chiavette Usb). Nella portabilità del numero telefonico siamo ai primi posti con 30 milioni di passaggi (dal 2006) e con tempi ridotti a un giorno lavorativo, contro i 20 di media di tre anni fa. I cambi di operatore negli ultimi 12 mesi hanno superato i 9 milioni, dato record in Europa.

giovedì 26 aprile 2012

Quasi 65mila “auto blu” non bastano. Spunta un bando per noleggiarne 4350. - di Thomas Mackinson



FOTO DI REPERTORIOLaPresse09/01/2012Auto blu, via ai tagli


A gennaio il Fatto ha svelato che le vetture di servizio cancellate per decreto sono poi ricomparse con un bando da 10 milioni di euro per comprarne altre 400. Ora il governo punta sul noleggio. Costo: oltre 84 milioni di euro. Ai quali vanno aggiunti i costi per assicurazioni, carburante, personale.

Quanto costa la macchina dello Stato? La domanda è sempre quella, perché ogni volta che si tira una riga salta fuori un importo diverso, sempre clamoroso, mai definitivo. L’unica certezza è che neppure il governo Monti, al di là degli annunci, è riuscito a mettere ordine e freno alla materia. A gennaio il Fattoquotidano.it ha svelato come le auto blu cancellate per decreto siano poi ricomparse con un bando da 10 milioni di euro. Un mese dopo per quel bando sono fioccate interrogazioni e dibattito nel question time alla Camera. Ma era solo l’antipasto.
Il nuovo bando. Ora spunta un nuovo bando per il noleggio a lungo termine di 4.350 veicoli al costo di 84.673.752 euro. Le aziende avranno tempo fino al 14 di giugno per presentare le offerte, le amministrazioni un anno per approfittarne. La gara è divisa in cinque lotti: 2.750 auto di servizio, 630 berline ad alimentazione tradizionale ed elettrica, 470 veicoli commerciali, 300 vetture a Gpl e 200 a metano. La durata del contratto per chi aderisce va da un anno a sette. Tutto questo ad appena due mesi dalla chiusura del primo censimento nazionale delle auto pubbliche che il governo ha affidato agli esperti del Formez (che di auto blu ne ha tre).
La stima: quasi 65mila vetture. Uno studio che ha impegnato i ricercatori dell’ente per ben due anni. Risultato: 59.216 vetture censite (9.855 blu e 49.485 di servizio) e 800 auto pubbliche del tutto inutilizzate sparse per l’Italia. Dato ancora approssimativo perché il 10% delle amministrazioni non ha neppure risposto. Così la cifra viene ritoccata fino a un “patrimonio presunto” di 64.524 auto pubbliche ad un costo di circa 1,7 miliardi l’anno. Troppo per il ministro Filippo Patroni Griffi che, a margine della radiografia del Formez, annunciava una riduzione del 10% e un risparmio di 300 milioni l’anno con queste parole: “Il parco auto della Pubblica amministrazione risulta ancora eccessivamente sbilanciato sulle auto di proprietà a scapito del leasing e del comodato d’uso”.
Quasi metà per gli enti locali. Un mese dopo compare il bando per il noleggio, con la spesa che sale anziché scendere e le amministrazioni che si preparano a riempire i moduli d’ordine. Nella nuova corsa all’auto pubblica la fanno sempre da padrone gli enti locali con il 46% di richieste. Lo Stato segue con un 23% dove i più bisognosi, manco a dirlo, sono i ministeri, con 670 vetture, che staccano i secondi in classifica (organi costituzionali e dello Stato) fermi al 12% e gli ultimi (enti previdenziali) con il 5%. Dal punto di vista geografico, il Lazio è in cima alle richieste con il 16% del totale, quasi una su due (42%) è per lo Stato. Segue la Lombardia con l’11% e a fare la parte del leone sono gli enti locali (51%) e la sanità (30%). Curioso il dato dell’Abruzzo dove il 46% delle auto è chiesto per amministrazioni centrali dello Stato, il più alto in assoluto della categoria (nel Lazio, che pure conta tutte le sedi centrali delle amministrazioni pubbliche, il dato è al 42%).
Le reazioni della politica. Il censimento telematico è dunque già nel cestino e la spesa, anziché scendere, sale. Le reazioni politiche sono durissime. “Non sta né in cielo né in terra”, tuona l’onorevole Guido Crosetto (Pdl) che chiede al governo di fermare gli acquisti e di vincolarli a una pari riduzione del parco auto attuale. “Io frequanto i palazzi della politica e le amministrazioni centrali, vedo sfrecciare per Roma migliaia di auto con lampeggiante e non riconosco nessuno a bordo. Chi sono? Io obbligherei le amministrazioni a introdurre una targa specifica che dica per chi è quel viaggetto a spese dello Stato. Perché dove non arriva il buon senso, magari arriva il pudore”.
Dura anche la reazione dell’Idv che proprio agli inizi di aprile ha interrogato il viceministro Vittorio Grilli sul bando da 400 auto da noi segnalato a febbraio. “Le auto pubbliche sono ormai l’emblema delle difficoltà di questo governo a ridurre e razionalizzare la spesa. E poco importa che si prendano a nolo o si acquistino, il punto è che tutti avevamo convenuto che fossero da ridurre”, dice Massimo Donadi.
Noleggiare conviene? Resta poi da capire se noleggiare convenga davvero. Le opinioni sono divergenti. Grilli e il presidente del Formez Carlo Flamment sostengono di sì. “Il parco auto della Pubblica amministrazione – dice Flamment – è ancora eccessivamente sbilanciato sulle auto di proprietà (79%), seguito dal noleggio senza conducente (19%), mentre leasing e comodato sono all’1%. E’ obsoleto e sicuramente diseconomico e dannoso per l’ambiente, dato che 16mila auto (il 27% del totale) ha oltre 10 anni, e il 34% ha tra 5 e 10 anni di utilizzo”. Ma gli stessi dati raccolti dal Formez indicano il contrario, cioè che noleggiare costa di più.
Il confronto tra acquisto e noleggio. L’acquisto di auto del 2010 ha comportato una spesa di 60,7 milioni per 4.633 vetture in proprietà (vedi tabella) con una spesa media per vettura pari a 13mila euro. Il bando per il noleggio a lungo termine di 4.350 vetture ha una previsione di spesa pari a 84,6 milioni e una spesa media di 19mila. Nel confronto tra le due operazioni, dunque, lo Stato spende di più con l’aggravante che al termine del contratto di noleggio, da uno a sette anni, deve riconsegnare il mezzo anziché utilizzarlo fino a rottamazione.
I vantaggi del noleggio. Anche chi ha sottomano il parco auto più grande d’Italia, quello della Magliana con 600 vetture per la Questura e un migliaio per i ministeri, pone il problema: “Il noleggio costa mediamente un 30% in più – conferma il segretario provinciale del sindacato di polizia Silp Cgil Gianni Ciotti - La nostra esperienza dice che il noleggio conviene solo per i comparti che portano a usura totale i mezzi in breve tempo. Certo non per le esigenze di rappresentanza di enti e comuni. Una soluzione? Lo Stato confisca a mafiosi e politici decine di migliaia di veicoli l’anno, solitamente costosi, potenti che potrebbero essere riassegnati subito alle forze dell’ordine anziché venduti sottocosto dopo anni. Intervenendo su destinazione e tempi potremmo far risparmiare lo Stato, migliorare le dotazioni della polizia e fare in modo che sia la stessa mafia a pagare i mezzi per combatterla”.
L’assicurazione. Un vantaggio del noleggio è dato dal fatto che il contraente si impegna a sottoscrivere una polizza assicurativa contro terzi (Rct) e verso prestatori di lavoro (Rco). Ma resta il costo assicurativo della responsabilità civile (Rca). Ed è un bel costo. Le offerte economiche per le 4.350 vetture a noleggio scadono il prossimo 14 giugno. E pochi giorni prima, il 4 giugno, scade anche un bando per la copertura triennale, sia per le vetture nuove che per quelle già in dotazione ma in scadenza. La gara tra broker vale 134 milioni di euro (per la precisione 133.972.366,34), comprende RCA per 125.614 veicoli e coperture “kasko dipendenti” fino a un massimo di 33 milioni di km annui. Tra i veicoli, una volta sottratti quelli speciali (autobus, natanti, carrelli, motoveicoli, autocarri ad uso agricolo o trasporto esplosivi…) si contano 68.454 autovetture. In pratica la metà dei beni da assicurare. Il costo assicurativo unitario varia a seconda dei cavalli di potenza (da 13 cv a oltre 20) con prezzi unitari che il prospetto indica puntualmente ma che tocca poi moltiplicare per il numero dei veicoli per ciascuna classe d’appartenenza. Alla fine dei calcoli la copertura delle auto supera i 28 milioni di euro l’anno.
Il carburante. Comunque sia ora abbiamo le auto, le abbiamo assicurate, manca ancora qualcosa. Per accenderle e farle muovere serve il carburante. E qui il conto economico, come al solito, si fa complicato. Il fabbisogno di carburante dello Stato viene acquistato con procedure di gara annuali a validità biennale (fino a esaurimento entro l’anno successivo al contratto di fornitura), raggruppando le esigenze di regioni diverse e dividendo la gara in successivi lotti a seconda che comprendano il carburante per il riscaldamento (soprattutto gasolio) o la trazione veicolare. Ecco, qui (forse) c’è il dato utile alla ricerca. Forse, perché poi diventa impossibile distinguere la ruspa o l’autobus dall’auto di servizio. Comunque sia, l’ultimo ordinativo è stato siglato a settembre del 2011 e prevedeva l’acquisto di 461 milioni di litri di cui la metà (per l’esattezza 217 milioni) destinato alla trazione dei veicoli. Il costo preventivato di questo lotto di carburante, al lordo delle accise e iva esclusa, è 228.8 milioni di euro, cui vanno aggiunti oneri per la sicurezza e per il personale addetto alle eventuali operazioni di trasporto e stoccaggio. Non esiste un report successivo sulla destinazione d’uso di verde, gasolio o altro da parte del contraente statale, regionale o comunale che possa confermare o dettagliare ulteriormente. Ma almeno un ordine di grandezza c’è.
Il personale. Chiude il cerchio la spesa pubblica per il personale dedicato alla gestione del parco auto tra autisti, custodi, meccanici… Gli autisti sono 615.015, il personale “altro” 620.312. Il costo ogni anno è 1,2 miliardi (1.235.327). Ora c’è proprio tutto: auto, autisti, assicurazione e benzina. Resta solo da capire dove vogliamo andare con tutte queste macchine.

mercoledì 25 aprile 2012

Pulizia di Stato. - di Marco Travaglio






Gentile dottor Antonio Manganelli, come capo della Polizia lei avrà senz’altro visto il bellissimo film Diaz di Daniele Vicari che sta riscuotendo un buon successo di pubblico nelle sale.

L’ho visto anch’io assieme a mio figlio che – posso assicurarle – non è stato educato all’odio contro le forze dell’ordine. Anzi, personalmente ho sempre pensato e detto che, fino a prova contraria, le forze dell’ordine sono dalla parte del giusto. Eppure, all’uscita dal cinema, mio figlio che ha 17 anni ha commentato: “Mi è venuta una gran voglia di prendermela con i poliziotti”. Ho cercato di spiegargli che quel che accadde 11 anni fa al G8 di Genova è un unicum, tant’è che ancora se ne parla, al punto da farci un film. Che non tutti i poliziotti sono come quelli ritratti da Vicari. Anzi, la maggior parte prova per quelle scene (purtroppo reali, documentate da testimonianze e filmati e atti processuali) lo stesso orrore che proviamo noi. E ogni giorno migliaia di agenti rischiano la pelle per un miserostipendio, catturando killer della mafia addirittura con le proprie auto, com’è accaduto ancora l’altro giorno in Calabria, visto che le volanti sono spesso senza benzina o arrugginiscono guaste nei garage per i continui tagli al bilancio dell’ordine pubblico. Ma temo di non averlo convinto.
E lo sa perché? Perché alla fine del film una scritta agghiacciante ricorda che decine di quegli agenti e dirigenti violenti e deviati sono stati condannati in primo e secondo grado per le mattanze alla Diaz e a Bolzaneto (a proposito: si spera che la Cassazione si sbrighi a giudicarli, per evitare che la facciano franca per la solita prescrizione), ma nessuno è stato rimosso dal corpo. Qualcuno anzi ha fatto addirittura carriera. Come Vincenzo Canterini che, dopo la condanna in primo grado a 4 anni per la Diaz, divenne questore e ufficiale di collegamento dell’Interpol a Bucarest. O Michelangelo Fournier, quello che al processo parlò di “macelleria messicana”, che dopo la prima condanna a 4 anni e 2 mesi ascese al vertice della Direzione Centrale Antidroga. O Alessandro Perugini, celebre per aver preso a calci in faccia un ragazzo di 15 anni, condannato in tribunale a 2 anni e 4 mesi per le sevizie di Bolzaneto e a 2 anni e 3 mesi per arresti illegali, e subito dopo promosso capo della Questura di Genova e poi dirigente di quella di Alessandria. Molti di loro avrebbero subìto sanzioni ancor più pesanti se l’Italia avesse recepito il reato di tortura, cosa che non avvenne per la strenua opposizione del Pdl e della Lega, guardacaso al governo nel 2001 e dunque responsabili politici e morali di quel che accadde. Nemmeno il dirigente che portò nella Diaz due molotov ritrovate altrove per giustificare ex post l’ignobile pestaggio di gente inerme fu cacciato dalla polizia. E nemmeno quello che, come si vede nel film, si ferì da solo per simulare un corpo a corpo con i fantomatici “black bloc” che in quella scuola, quella notte, non esistevano. Molti altri, nascosti sotto l’anonimato del casco, non sono stati identificati, dunque neppure processati.
È difficile non pensare che gli agenti che si sono macchiati di violenze gratuite negli ultimi anni, per esempio in Val di Susa contro i No-Tav, possano essere gli stessi che la passarono liscia per i fatti di Genova, o altri loro emuli, incoraggiati dall’impunità generale. Lei, dottor Manganelli, 11 anni fa non era a Genova e non può essere ritenuto responsabile di quel che accadde. Ma oggi che la verità processuale è sotto gli occhi di tutti, validata dai due gradi di giudizio di merito (la Cassazione deve pronunciarsi solo sulla legittimità delle sentenze) e finalmente immortalata da un film (era già tutto nel documentario Bella ciao di Giusti, Torelli e Freccero, ma la Rai vergognosamente lo censurò), non può chiamarsi fuori. La prego, metta subito alla porta chi si macchiò di quei crimini orrendi. Ci aiuti a credere ancora nella Polizia di Stato.
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