lunedì 30 settembre 2013

Andrea Scanzi.



Straordinario Letta.

Prima, ieri sera, mente spudoratamente a Che tempo che fa sul suo voler ritornare al Mattarellum. 
Ovviamente Fabio Fazio si è guardato bene dal ricordargli che la mozione Giachetti (parlamentare Pd) era stata bocciata proprio dal Pd. 
Quando c'è una domanda da fare, Fazio si sposta. 
Per non sporcarsi.
Gliel'hanno ricordato ieri sera e stamani i 5 Stelle, Sel e tutti coloro che hanno a cuore un minimo di onestà intellettuale. 

Letta, stizzito, ha replicato che loro erano contro la mozione Giachetti non per il "merito" ma per il "metodo". 
Ennesima supercazzola lettiana. 
Poi il nipote anziano dello zio giovane ha provato a spiegare il no a Giachetti. 
Inciampando in un meraviglioso autogol: "Il dibattito urgente e necessario doveva riguardare l’intera materia delle riforme istituzionali per il cambiamento dell’articolo 138 della Costituzione. Dunque, in prospettiva, non solo il sistema di voto".
Ovvero: Giachetti voleva cambiare "solo" la legge elettorale, mentre il Pd voleva distruggere tutto l'architrave della Costituzione (con la scusa della "riduzione del numero dei parlamentari"). 
Come dire: Giachetti era troppo soft, a loro interessava proprio demolire di nascosto il lavoro dei padri costituenti, sostituendo a Piero Calamandrei l'acume di Renato Brunetta. 
La legge elettorale era giusto un argomento marginale. 
Un dettaglio. 
Un danno collaterale.
C'mon Letta.


Dalla bacheca fb di Scanzi

Quando gli imprenditori sognavano e creavano mercato. L'incontro storico tra Walt e Arnoldo. E la parte che ci riguarda oggi. - Sergio Di Cori Modigliani

Una storia lunga 80 anni, che viene da molto lontano, e che oggi perdura condizionando le nostre esistenze, soprattutto la politica italiana.

Correva l'anno 1937 e, per un caso fortuito della meteorologia bislacca, quell'anno, in California, la primavera era assurdamente fredda. Per i nativi, inconcepibile.
Un giovane artista e imprenditore di Chicago, che abitava a Los Angeles, considerato da alcuni un visionario astro nascente, mentre altri invece pensavano si trattasse di un pazzo maniaco, tornava a casa alle ore 16, contrariamente alle sue abitudini, in preda all'angoscia e al turbamento.
Si chiamava Walt Disney e stava sull'orlo del fallimento.
L'impresa nella quale aveva investito tutta la sua esistenza, sia spirituale che materiale, era nei guai, strozzata dai debiti con le banche. Il suo primo lungometraggio che rivoluzionava, allora, l'inesistente tecnica dei cartoni animati, si stava rivelando molto più costoso e faticoso delle previsioni. Mentre i disegnatori erano al lavoro per completare l'opera ("Biancaneve e i sette nani") lui si era già messo al lavoro per realizzare, finalmente, la sua vera ossessione di sempre: fare un film su Pinocchio. Ma non era riuscito ad avere tutta la documentazione iconografica di cui aveva bisogno per iniziare il lavoro. Uno dei suoi assistenti, qualche settimana prima gli aveva regalato una succulenta informazione: in Italia, nel mezzo del nulla, in una casa di campagna, abitava un altro pazzo come lui, altrettanto maniaco, che possedeva un rarissimo tesoro, unico al mondo.
Proprio quello di cui lui aveva stabilito avesse bisogno.
E così gli aveva scritto una lunga lettera presentandosi, e comunicandogli la sua curiosità.
Entrambi nutrivano diverse passioni in comune, tra cui la passione per la pedagogia e gli scambi epistolari. Alla fine di un nutrito carteggio, il giovane editore italiano alle prime armi, Arnoldo Mondadori, invitò Walt Disney e sua moglie a casa sua, per mostrargli il tesoro.
Era un viaggio molto lungo e lontano, ed era stato più volte rimandato, ma date le circostanze, l'americano quel giorno decise che era meglio per lui andarci.
Entrò a casa sorprendendo sua moglie, Lylianne, una brillante disegnatrice di moda, che  aveva convinto ad associarsi a lui nell'impresa dei cartoni animati. Da quando si erano sposati (sei anni prima) non avevano mai preso neppure un giorno di ferie e il viaggio di nozze era stato rimandato perchè durante i giorni del matrimonio lui doveva seguire il lancio dei suoi primi cortometraggi, rivelatisi dei totali fallimenti sia di pubblico che di critica.
Non era mai accaduto che tornasse a casa a quell'ora e sua moglie si preoccupò.
Walt Disney le disse: "Ho due notizie per te, una è bellissima, l'altra è pessima". Lei non si scompose più di tanto. Come lui stesso ha raccontato nella sua biografia, gli rispose: "Se quella pessima riguarda una questione di salute, dimmi subito di che cosa si tratta. Vale anche se riguarda il fatto che da domattina non abbiamo neppure i soldi per comprarci un litro di latte. Altrimenti, voglio sapere soltanto quella buona". E così, Walt Disney non le raccontò del suo imminente fallimento e le comunicò che di lì a pochi giorni se ne andavano, finalmente, in viaggio di nozze in Italia.
"Dove?"
"A Ostiglia"
"E dov'è?"
"Vicino a una cittadina che si chiama Mantova"
"Sarebbe?!"
"Non ne ho la minima idea, so soltanto che sta in mezzo alla campagna, sembra vicino a un fiume"
"A fare che?"
"A cambiare vita".
E così, dopo venti giorni si imbarcavano a New York sul piroscafo Regina Elena per andare a incontrare un tipografo che aveva aperto una piccola casa editrice di nicchia e che sosteneva quanto fosse importante investire nella educazione giovanile.
Arrivarono all'appuntamento con un giorno di ritardo, perchè si persero nella pianura padana.
Anche Arnoldo Mondadori era molto eccitato all'idea di quell'incontro. Anche lui aveva i suoi problemi.
Abile imprenditore italiano, spregiudicato e intelligente, aveva aderito al fascismo fin da subito, mettendosi a disposizione per stampare nella sua tipografia il materiale propagandistico del Duce, e con i proventi (e le relazioni ottime che aveva stabilito con Starace, il segretario del partito fascista) aveva fondato nel 1933 la sua casa editrice, che avrebbe dovuto diffondere la grande cultura italiana nel mondo. Ma subito dopo iniziarono i guai, perchè Mondadori aveva inventato la collezione Medusa, per un ristretto pubblico di lettori colti, traducendo i più importanti scrittori stranieri, soprattutto quelli inglesi e americani, odiati dal regime. Ed era entrato in rotta di collisione con il potere politico di Roma.
L'incontro tra Walt Disney e Arnoldo Mondadori invece che una visita di cortesia durata poche ore, si trasformò in una sosta durata quattro giorni dove le due intelligenze si incontrarono soddisfacendo i diversi appetiti strategici. Fu soltanto al terzo giorno che Mondadori si decise a mostrare a Disney il suo grandioso tesoro, celato in una stanzetta chiusa a chiave dentro la quale non poteva mai entrare nessuno, neanche la cameriera. Si trattava della più grande collezione privata al mondo di tutte le edizioni originali (in 126 lingue diverse) della favola di Pinocchio, corredata di disegni. Erano 356 volumi. C'era perfino una edizione scritta in aramaico, pubblicata in Syria con delle illustrazioni di un famoso pittore iracheno emigrato a Parigi. Rimasero chiusi dentro quella stanza per una intera giornata. Alla fine ne uscirono entrambi soddisfatti. La sera andarono a festeggiare insieme alle mogli nel centro di Mantova e il mattino dopo si recarono da un notaio internazionale a Milano dove firmarono l'accordo. Mondadori cedeva l'intera collezione a Disney. In cambio, l'americano cedeva, per 50 anni, tutti i diritti mondiali relativi a Topolino, quel Mickey Mouse che in Usa non era piaciuto alla critica. Gli unici territori che Disney mantenne furono gli Usa, il Canada e Cuba. Inoltre, i due, fondarono una società comune, la joint venture Disney-Mondadori, denominata Associazione Periodici Italiani, per pubblicare materiale illustrato per i più piccini.
E Disney se ne ritornò in California.
Tre anni dopo usciva Pinocchio, un clamoroso successo negli Usa, con un profitto netto corrispondente a circa 250 milioni di euro di oggi.
Per Mondadori, invece, in Italia cominciavano i guai, finiti con la fuga sua e della famiglia in Svizzera, dove rimasero in esilio dal 1943 al 1947.
Ma nel 1949, venne distribuito in tutto il mondo il film "Fantasia" che irruppe nell'immaginario collettivo dell'epoca determinando un colossale successo di tutti i personaggi di Topolino, stampato poi come giornaletto a fumetti in 170 nazioni del mondo.
E i soldi della royalties andavano tutti alla Arnoldo Mondadori Editore.
La casa editrice si avvalse pertanto di questa cassaforte che i concorrenti gli invidiavano. Ogni anno, la Mondadori incassava circa 25 milioni di euro senza fare nulla. E con quei soldi costruirono il loro impero editoriale. Arnoldo rimase legato a Walt da sincera amicizia. La fotografia della bacheca li ritrae insieme nel 1960, nel corso delle olimpiadi a Roma. Mondadori lo ringraziò per la sua consulenza di qualche anno prima, quando Disney lo aveva consigliato caldamente di lanciarsi nell'editoria popolare pubblicando la prima enciclopedia di massa per un pubblico dai 7 ai 15 anni.
Quando nel 1976, il grande Mario Formenton divenne presidente della Mondadori, essendo anche lui un abile imprenditore lungimirante, si rese conto che di lì a breve sarebbe scaduto il contratto con la Disney. Per due anni trattò il rinnovo dei diritti ma la cifra chiesta dagli eredi era eccessiva. E così nel 1978 capì che bisognava anticipare i tempi con un'accorta politica industriale, visto che dieci anni dopo, nel 1988, la Mondadori avrebbe perso la sua cassaforte.
Dopo un anno di ricerche decise di imbarcare quelli che considerava i due più abili e spregiudicati finanzieri del mercato mediatico italiano, Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti, pensando che avere dentro due maghi della finanza sarebbe stato il modo migliore per affrontare quel passaggio. Quando nel 1986 Formenton morì, era convinto di aver lasciato agli eredi Mondadori la traccia per reggere l'impatto con il mercato editoriale internazionale.
Il resto è attualità.
Fine dell'aneddoto.
Era quella un'epoca di capitani di industria, di imprenditori che avevano idee, di industriali che rischiavano, di dirigenti editoriali che si approvvigionavano di menti pensanti  ma soprattutto di manager che ragionavano, pianificando strategie di lungo raggio, che avevano una visione di insieme.
Quello spirito e quella generazione è andata perduta. E l'analisi critica di questa perdita viene oggi censurata.
Si parla tanto della Politica, dei politici, della classe dirigente politica, ma non si parla mai della classe imprenditoriale, dando per scontato che in Italia gli industriali e gli imprenditori siano tutte persone sane, colte, per bene, che sanno cosa fanno.
Oggi si parla di Finmeccanica, di Alitalia, di Telecom, con le polemiche di questi giorni che ben sappiamo. Ma poco si dice sulle responsabilità di chi guida e ha guidato queste aziende.
Un articolo è apparso nel panorama della cupola mediatica su questo argomento, in data 25 settembre 2013, su Il Fatto Quotidiano. A firmarlo è uno scrittore, noto per la sua verve satirica,  il quale è anche uno degli autori dei testi degli spettacoli di Maurizio Crozza. Si chiama Alessandro Robecchi che oltre a scrivere e inventare battute, è evidentemente anche un  sofisticato analista della realtà politica italiana, soprattutto di quella imprenditoriale. Ecco un estratto del suo pezzo al quale vale la pena di dedicare dei pensieri.
"......tutto questo parlar male della politica e dei politici ha messo in secondo piano le gloriose capacità dell’imprenditoria italiana che rappresenta l’altra metà delle corruzione. In termini generali, certo, a grandi linee: dove passa una mazzetta c’è un politico da un lato e un imprenditore dall’altro. E questo quando gli imprenditori non sono direttamente un’espressione politica, come furono i padroni “patrioti” che “salvarono” Alitalia, spinti da un Berlusconi in fregola elettorale e dalla speranza di futuri favori e contropartite. Ora si vede com’è andata a finire, con tanti saluti all’“italianità”, parola che echeggiò forte e chiara su tutti i giornali e che adesso potete archiviare.  Quanto alle telecomunicazioni, potete mettere in fila tutte le volte che ne avete sentito parlare come settore strategico, motore della modernità del paese eccetera, e anche quello potete archiviarlo per sempre, dato che con la vendita di Telecom tutti i maggiori operatori telefonici che operano in Italia sono stranieri. A questo punto, il vero problema non è la spagnolità di Telecom o la francesità di Alitalia, ma l’italianità dell’Italia. Conosco l’obiezione: fare impresa in Italia è difficile, ma pare che sia difficile per gli italiani, perché se fosse difficile per tutti non verrebbero qui a comprare a man bassa. Poi, certo, possiamo fare collezione di belle frasi sulla casta, sulla politica, sui cialtroni che ci governano e che non spariscono mai. Perché invece i Colaninno, i Bernabè, i Tronchetti Provera, i Passera spariscono? Non pare: saltano da un consiglio di amministrazione all’altro come usignoli sui rami, quasi sempre lasciandosi dietro disastri epocali e balzando a combinarne di nuovi. Sempre salutati come salvatori della patria, coraggiosi innovatori, costruttori di ardite strategie accolte dalla òla dei commentatori che dopo due, tre, quattro anni si esercitano a demolire quelle costruzioni. Pure loro (i commentatori) non se ne vanno mai: il loro passare dagli applausi (evviva, si salvaguarda l’italianità di Alitalia!) ai fischi (ma che avete fatto! Dovevate vendere subito ai francesi!) nello stesso film, addirittura nella stessa scena, è garanzia di durata. Il concetto di responsabilità (ho detto / fatto / pensato una cazzata, me ne vado) non è contemplato, chi rompe non paga, non porta via nemmeno i cocci, e si prepara a nuovi mirabolanti successi".

E l'ignobile zuffa di cui tutti siamo oggi testimoni  la considero figlia dell'attuale politica editoriale italiana. 
L’Italia è l’unico paese al mondo in cui l’editoria ha scelto negli ultimi anni di disinvestire dai libri e spostare i capitali, invece, nel gioco d’azzardo. 
Sul sito della più antica casa editrice italiana ancora in attività, la De Agostini, fondata nel secolo XIX, troviamo le seguenti notizie:
 Il Gruppo De Agostini (www.gruppodeagostini.it) è una multinazionale italiana che ha le sue origini nel settore dell'editoria. Nel 2011 ha compiuto 110 anni di attività e oggi si presenta come una Holding di partecipazioni presente in diversi settori industriali e nel settore finanziario. 
De Agostini Editore
Edita in 13 lingue e 30 Paesi: le sue attività sono focalizzate sull'organizzazione e sulla divulgazione della conoscenza. La Società ha responsabilità di coordinamento e di gestione strategica e operativa, in Italia e nel mondo, di tutte le realtà operative del Gruppo nel settore editoriale, organizzato come segue: De Agostini Publishing, De Agostini Libri, Editions Atlas France/Suisse e Digital De Agostini.
www.deagostini.it
De Agostini Communications
Il settore "media e communication" comprende gli interessi del Gruppo nelle attività di content production, broadcasting e distribuzione di contenuti per la televisione, i nuovi media e il cinema. Zodiak Media è una società leader, tra le più innovative e creative al mondo, nella produzione e distribuzione di contenuti di alta qualità per la televisione e i nuovi media. ATRESMEDIA, gruppo radio-televisivo spagnolo quotato alla Borsa di Madrid, di cui è detenuta una quota di rilevanza strategica in partnership con il socio spagnolo Planeta Corporation, è co-leader del mercato televisivo Spagnolo ed è attivo nei seguenti settori: ATRESMEDIA TELEVISIÓN, ATRESMEDIA RADIO, ATRESMEDIA DIGITAL, ATRESMEDIA PUBLICIDAD e ATRESMEDIA CINE.
www.zodiakmedia.com 
www.antena3.com
Lottomatica Group
Società leader del mercato dei giochi e servizi, quotata alla borsa di Milano. De Agostini S.p.A. controlla Lottomatica Group con una quota di maggioranza assoluta. Lottomatica Group è la società operativa concessionaria dello Stato Italiano per la gestione del Lotto ed altri giochi pubblici (p.es. il Gratta e Vinci), dispone inoltre di un elevato know-how per l'elaborazione di sistemi e prodotti per giochi, nonché di sistemi per l'accettazione dei giochi e delle scommesse sportive, attraverso la fornitura di terminali e sistemi hardware e software. Con l'acquisizione di GTech, Lottomatica Group è diventata il più grande player mondiale nel settore delle lotterie, dei giochi e dei servizi.
www.gruppolottomatica.it 
www.gtech.com

Quindi, Lottomatica, un’azienda che gestisce il gioco d’azzardo, che è 5 volte più grossa della Fiat, 12 volte più grande di Mediaset e 100 volte più grande di Mps è posseduta da una casa editrice. 
Quando a Silvio Berlusconi glielo spiegano, nell’autunno del 2011, fa un salto sulla sedia e da bravo speculatore capisce che quello è il settore in cui investire. Ho già parlato in questo blog, in un post di qualche mese fa, della costituzione della "Glaming", sintesi di glamour e gioco d’azzardo, per lanciare il gossip dei settimanali Mondadori mescolandolo alle video slot su internet.
Un aumento vertiginoso della diffusione delle video slot sul territorio nazionale. Due anni fa erano 240.000 macchinette. A gennaio del 2012 erano 290.000. A gennaio del 2013 erano 380.000. Sono previste per ottobre del 2013 circa 500.000 e un milione entro la fine del 2014.

Secondo gli analisti della city di Londra, nel 2015 la Arnoldo Mondadori Editore sarà il più importante controllore, produttore e distributore di gioco d'azzardo legale in Europa e l'intera attività della casa editrice verrà dirottata sulle videoslot e sui casinò internet con pagine piene di estratti dalla produzione gossip settimanale.

Questo è diventata la Mondadori.
Questo hanno deciso e voluto che fosse.

Ed è questa la posta in gioco.

La Politica non c'entra.

Neppure l'editoria.

It's just business.

E nella sua peggiore deriva.

E' l'ultimo atto che ha compiuto il governo Monti: dare concessioni alle società concessionarie. E' stato anche uno dei primi atti del governo del fare di Enrico Letta: non far pagare loro tutte le tasse dovute.
Così stanno le cose.

CRISI DI GOVERNO: CROLLA IL CAPOLAVORO DEL PEGGIORISTA. E ORA? - Pino Cabras



La crisi di governo si incrocia da subito con una profonda crisi istituzionale. Beppe Grillo sta già chiedendo perfino le dimissioni di Giorgio Napolitano. Quando il PD e il PDL rielessero il Peggiorista del Quirinale, parlammo di « Vilipendio al Popolo Italiano».

Ci risultava ben chiaro che Napolitano Due avrebbe dato vita a un governo peggiore di quello - già disastroso - di Rigor Montis (il minor economista della nostra epoca, che Napolitano Uno aveva fatto senatore a vita per poi indirizzarlo a Palazzo Chigi). Peccavamo però di ottimismo. Nemmeno certi governi balneari di Giovanni Leone o di Amintore Fanfani al suo crepuscolo avevano congelato in modo tanto miserabile la funzione di governo quanto il governo di Enrico Letta, ora al capolinea. 


Perciò la crisi rivela bene quanto siano cadute in basso le cupole delle "larghe intese". Al minimo di azione di governo (un minimo sotto zero), è corrisposto il massimo di fuga in avanti per stravolgere l'assetto della Repubblica. Nonostante la paralisi lettiana, gli "strateghi" del PD e del PDL, rifugiati sotto le vecchie ali del Peggiorista, pensavano infatti di cambiare metà della Costituzione, cioè distruggerla, proprio come piace a JP Morgan. Hanno preso il piede di porco (anzi, un piede di porcellum) e hanno iniziato a scardinare l'articolo 138, cioè la saracinesca che protegge la Carta dalle manomissioni improvvisate. Tra le cose buone della crisi c'è questa: forse il processo di revisione che insidia la Costituzione si interrompe. Magari l'assalto alla saracinesca muore lì, e quei "saggi" che fanno da palo potranno allegramente trovarsi una diversa collocazione per il piede di porco. Qualche suggerimento in proposito glielo possiamo comunque dare, il 12 ottobre.

Il PD ha già messo in fuga due terzi dei suoi iscritti, eppure i suoi dirigenti non se ne curano. Anche se sapevano che il Caimandrillo era vicino a subire inevitabili condanne nei suoi processi, lo hanno abbracciato, con una pulsione conservatrice che si è rivelata una pulsione suicida. Me lo ricordo bene il TG3 del 20 aprile 2013, quando Giorgio Napolitano era stato appena rieletto. Si vedeva il Caimandrillo felice. Più che rettile, era erettile. Ma non era l'unico. Enrico Letta parlava con un'insolita spavalderia, e dichiarava che per il PD era il «momento di ricostruire», mentre commentava sui dissensi con un «faremo pulizia», cioè epurazioni. Letta era ormai il premier in pectore, e pensava di durare, di poter sopportare qualsiasi prezzo. Calcolo infondato.

Molti critici insistono dicendo: "hanno sbagliato tutto". Ma questi non sono soltanto sbagli di calcolo e di prospettiva. Il fatto è che PD e PDL sono i prodotti finali della cosiddetta Seconda Repubblica, un composto bipartitico instabile e degenerato, che ammette una competizione per contendere le cariche, ma che in realtà non affronta mai l'ingombro delinquenziale dei ricatti e degli scambi. La Seconda Repubblica è nata infatti ammazzando Falcone e Borsellino, e ha vegetato nascondendone con ogni mezzo il perché. Sotto la copertura della trattativa tra lo "Stato profondo" e la mafia, tante altre negoziazioni hanno trasformato le classi dirigenti italiane in un   ceto affaristico-politico criminale fra i più avidi e parassitari del pianeta: un sistema senza progetto, se non quello di arraffare, e durare fra le zuffe. Il garante costituzionale di tutta questa poltiglia non può più tenerla insieme. Ci vorrebbe un progetto, ma Napolitano non ha altro progetto che conservarla. Solo che ormai questa poltiglia è polvere da sparo.

C'era un'altra cosa che teneva insieme gli ingredienti dell'ultimo esperimento del dott. Napolitanstein: era la situazione internazionale, cioè quel che i giornaloni italiani trascurano sempre di considerare. Fino alle elezioni tedesche del 22 settembre occorreva un po' di formaldeide che imbalsamasse l'Italia e lo spread senza far scatenare prima di allora una crisi incontrollabile. E fino a pochi giorni fa la i comandanti atlantici della Portaerei Italia non gradivano scazzi fra i suoi ufficiali perché c'era una guerra da fare subito, quella alla Siria. Prima della guerra del Kossovo, intorno al governo erano riusciti a mettere insieme perfino Cossiga e Cossutta, e prima dell'aggressione alla Libia avevano beneficiato dell'improvviso rientro di quasi tutti i fuoriusciti dalla maggioranza di Berlusconi. Quel minimo di stabilità atlantista serviva anche stavolta, ma poi l'attacco aereo USA alla Siria ha avuto lo stop che sappiamo. Sono cambiati gli equilibri, dopo che son cambiati i papi, e i BRICS. Nella Portaerei Italia si può riprendere a disfare i governi.

Grillo chiede le dimissioni del Peggiorista, ma chiede anche le elezioni politiche subito. Istituzionalmente, però, non può funzionare così. Se le dimissioni ci fossero, il collegio dei grandi elettori richiederebbe i suoi tempi per ricostituirsi, e poi per eleggere - con altri tempi imprevedibili - il nuovo Presidente della Repubblica. E anche se il nuovo inquilino del Quirinale decidesse di sciogliere le Camere, il processo appena descritto non sarebbe da "elezioni subito".
I padroni dello spread nel frattempo ci tratterebero da puntaspilli.
Il fondatore del Movimento Cinque Stelle coglie tuttavia il fatto che quella di adesso non è una crisi di governo come le tante altre fin qui conosciute. La crisi politica si salda con la crisi economica e sociale più vasta, e segna un punto di non ritorno per la Seconda Repubblica. «Rien ne va plus», avverte Grillo.

Il blocco raccolto da Napolitano per salvare il ceto politico-affaristico è dunque crollato. Potrebbe ricostruirsi solo snaturando più a fondo i riferimenti costituzionali e i valori delle sue componenti. È un'opera superiore alle forze dell'anziano protettore, ma non a quelle di esponenti più giovani e spregiudicati di quel ceto. Renzi è il punto di convergenza naturale, ma non gli sarà facile fare il Tony Blair di un paese in bancarotta.

Beppe Grillo ora non può ripetere la stessa identica campagna che pure ha portato grandi numeri al M5S.

A suo tempo chiese consigli e da qui ne partì uno:
Diventa cruciale, nel brevissimo tempo che rimane da qui alle elezioni, presentare liste migliori di quelle varate con la consultazione infra-partitica delle «parlamentarie». Non c'è tempo per fare una grande selezione di massa. C'è tempo invece per guardarsi intorno fra«rappresentanti di tante liste civiche, movimenti di gente perbene. Ragazzi, professori, esperti» (riuso le parole di Beppe). I Cinquestelle li conoscono già: «I No-Tav, quelli dell'acqua pubblica, dei beni comuni, gli altri referendari.» Scelga Grillo alcune decine di «saggi» indipendenti da presentare in vista delle elezioni in aggiunta al quadro delle liste attuali: alcuni da candidare come parlamentari, altri come possibili ministri, altri come autorevoli garanti. L'esposizione di Grillo sarebbe calibrata e cesserebbe di essere una sovraesposizione. La presenza di parlamentari indipendenti e non trasformisti sarebbe il seme di una nuova democrazia. Diventerebbe il punto di confluenza di una forza popolare in grado di dirigere e riformare profondamente la Repubblica. Troverebbe un'Italia disposta a una reale alternativa. Darebbe una prospettiva a milioni di elettori altrimenti portati ad astenersi.

Grillo scelse diversamente. Il M5S ottenne un risultato impressionante, ma certo non lo proiettava in una dimensione pronta al governo. Ultimamente invece il problema del governo possibile Grillo se lo pone, eccome. Dopo il governo fantasma di Letta, Beppe Grillo può delineare un governo ombra: troverebbe poi la luce alle elezioni.

Intesa, uscita lampo per Cucchiani. Lascia la banca con 7 milioni.

Intesa, uscita lampo per Cucchiani. Lascia la banca con 7 milioni


L'istituto di credito anticipa i consigli di sorveglianza e di gestione dopo che le incertezze sulla guida del gruppo sono costati cari in Borsa. Carlo Messina è dato in pole per sostituire l'ad, mentre è smentito da più parti un possibile ritorno di Corrado Passera.

Uscita lampo di Enrico Cucchiani dal vertice di Intesa Sanpaolo. Nemmeno due anni di sua gestione e l’ex numero uno di Allianz è stato accompagnato alla porta della banca. Una parabola che si è consumata in fretta e con un’accelerazione nelle battute finali, durata soltanto cinque giorni da quando sono uscite le prime indiscrezioni su diversi siti, riprese e ampliate poi anche dal Financial Times.
Le previsioni indicavano che la partita si sarebbe chiusa martedì con le riunioni dei consigli (sorveglianza e gestione) già convocati. Ma i vertici capitanati dal presidente Giovanni Bazoli hanno capito che bisognava fare in fretta, anche perché le incertezze sulla guida della banca sono costati cari in Borsa, dove il gruppo ha bruciato 2 miliardi di capitalizzazione in poche sedute in un momento difficile per il settore, complicato dalla crisi politica.
E così la scelta di cambiare il vertice, legata soprattutto alle tensioni sorte all’interno degli organi di comando, e che peraltro dovrebbe portare nelle tasche di Cucchiani circa 7 milioni di euro tra stipendi mancati e buonuscita, è stata varata in tempi lampo. L’ormai ex consigliere delegato, tornato sabato da New York, ha incontrato nel pomeriggio di domenica Bazoli e Gian Maria Gros-Pietro (presidente del consiglio di gestione) per un chiarimento e per la consegna della lettera di dimissioni. A seguire, i consigli si sono riuniti in seduta straordinaria per prendere atto del passo indietro e nominare il nuovo consigliere delegato.
Scelta che dovrebbe ricadere nella persona di Carlo Messina, attuale direttore generale vicario e numero uno della rete di Intesa Sanpaolo, nota all’interno del gruppo col nome di Banca dei territori. Un manager che ha maturato la sua esperienza a Bnl e al Banco Ambrosiano, prima di arrivare a Intesa, nella quale dal 2008 ricopre anche il ruolo di direttore finanziario. E’ stato smentito da più parti, invece, un possibile ritorno di Corrado Passera, che pagherebbe gli insuccessi proprio dell’operazione Telecom, ma anche quella di Alitalia, che in Intesa non sono state dimenticate e peseranno sui bilanci dei prossimi mesi.
Cucchiani è accompagnato alla porta da Bazoli prima che esploda la bomba dei prestiti senza garanzia all’amico Romain ZaleskiIntesa, negli anni del boom finanziario, ha prestato 1,8 miliardi al finanziere franco-polacco per giocare in Borsa, di cui una cifra tra 800 milioni e un miliardo senza nessuna garanzia. Soldi ormai pressoché persi, tanto che nell’ultima semestrale Intesa ha passato 800 milioni nella colonna degli “incagli” che sono l’anticamere dalla perdita secca.
Pare che il manager con il passare dei mesi avesse creato parecchi malumori interni alla banca, e non solo nei rapporti con il top management. Tensioni interne, che poi hanno trovato un nuovo acme nelle settimane scorse quando Cucchiani al forum Ambrosetti venerdì 6 settembre ha dichiarato: “Zaleski è stato finanziato non soltanto da noi ma anche da altre banche. Io nel 2008 non ero neanche in Italia ma il punto fondamentale è quello di assicurarsi il miglior recupero di tutte le posizioni con rigore e sano pragmatismo“. E ha aggiunto: “Certamente andiamo avanti e ragionevolmente troveremo un accordo, una soluzione ragionevole. Per chi fa il mio mestiere l’importante è andare avanti e non giudicare il passato“.
Proprio l’assenza di Cucchiani lunedì scorso, mentre si decidevano i destini di Telecom attraverso il riassetto di Telco favore di Telefonica, contrapposta all’attivismo di Bazoli, avevano accelerato e dato fiato ai rumors sull’uscita di scena del manager.
Voltata la pagina su Cucchiani, Intesa avrà nuove importanti decisioni da prendere. In primis quella sulla governance. Tema che potrebbe essere già affrontato domani dai presidenti delle fondazioni azioniste del gruppo, che dovrebbero incontrarsi in giornata. Dopo diverse pressioni della Banca d’Italia, fatte proprie dalla Compagnia di San Paolo, primo azionista di Cà de Sass, i tempi sembrerebbero maturi per tornare alla governance tradizionale, in sostituzione del sistema duale nato in seguito alla fusione sull’asse Milano-Torino.

domenica 29 settembre 2013

Lacrime da coccodrillo. - Marco Travaglio



Da qualche tempo a questa parte, appena prende la parola, il che gli accade ormai di continuo, in una logorrea esternatoria senza soste, anche due volte al giorno, prima e dopo i pasti, il presidente della Repubblica piange. 
È una piccola variante sul solito copione: il monito con lacrima. 
A questo punto mancano soltanto le scuse al popolo italiano, unico abilitato a disperarsi per lo schifo al quale è stato condannato da istituzioni e politici irresponsabili. Cioè responsabili dello schifo. L’altro giorno, mentre Letta Nipote garantiva agli americani che il suo governo era stabile e coeso come non mai e B. raccoglieva le firme dei suoi 188 servi in Parlamento per minacciare di rovesciarlo, Napolitano definiva “inquietante” la pretesa del Caimano di condizionarlo per fargli sciogliere le Camere e interferire nei processi giudiziari. E lo dice a noi? Sono anni e anni che lui, non noi, corre in soccorso dell’Inquietante non appena è in difficoltà.

Lo fece nel novembre 2010, quando Fini presentò la mozione di sfiducia al governo B. e lui ne fece rinviare il voto di un mese, dando il tempo all’Inquietante di comprarsi una trentina di deputati. Lo rifece nel novembre 2011, quando B. andò a dimettersi per mancanza di voti alla Camera, e lui gli risparmiò le elezioni anticipate, dando il tempo all’Inquietante di far dimenticare i suoi disastri quando i sondaggi lo davano al 10 per cento. Lo rifece quest’anno, dopo la batosta elettorale di febbraio (6,5 milioni di voti persi in cinque anni): prima mandò all’aria ogni ipotesi di governo diverso dall’inciucio, tappando la bocca ai 5Stelle che chiedevano un premier fuori dai partiti; poi accettò la rielezione al Quirinale, sostenuta fin dal primo giorno proprio da B., quando ancora Bersani s’illudeva di liberarsi della sua tutela; infine impose le larghe intese, in barba alle promesse elettorali di Pd e Pdl, e nominò premier Letta Nipote che, come rivela Renzi nel suo libro, era stato scelto da B. prim’ancora che dal Pd.

L’idea di consultare gli elettori gabbati per sapere che ne pensavano (come si appresta a fare l’Spd con un referendum fra i suoi elettori prima di andare a parlare con la Merkel), non sfiorò nessuno. Tanto i giornaloni di destra, centro e sinistra suonavano i violini e le trombette sulla “pacificazione” dopo “vent’anni di guerra civile”. E B., semplicemente, ci credette: convinto che Napolitano e Pd l’avrebbero salvato un’altra volta. Il Fatto titolò: “Napolitano nomina il nipote di Gianni Letta”. Apriti cielo. A Linea notte Pigi Battista tuonò contro quel titolo “totalmente insensato, eccentrico, bizzarro, non certo coraggioso” perché “non riconoscere che Enrico Letta sia una figura di spicco del Pd e scrivere che la sua unica caratteristica è essere nipote di Gianni Letta è una scemenza. Non vorrei che passasse l’idea che ci siano giornali, come il Corriere su cui scrivo, accomodanti e trombettieri, e altri che dicono la verità, sono coraggiosi, stanno all’opposizione”. Ieri il coraggioso Corriere su cui scrive Battista pubblicava le foto di Enrico e Gianni Letta imbalsamati che sfrecciano sulle rispettive auto blu dopo l’incontro al vertice di venerdì, quando “a Palazzo Chigi arriva anche lo zio di Enrico, Gianni Letta. Incontri non risolutori, che preparano il colloquio delle 18 al Quirinale”. C’era da attendersi un puntuto commento del coraggioso Battista per sottolineare quanto fosse insensata, eccentrica, bizzarra questa simpatica riunione di famiglia fra il premier e lo zio, sprovvisto di qualunque carica pubblica, o elettiva, o partitico, che ne giustificasse la presenza a Palazzo Chigi.

L’indomani Napolitano lacrimava alla Bocconi perché B. ha “smarrito il rispetto istituzionale”. Perché, quando mai in vent’anni l’ha avuto? Per smarrire qualcosa, bisognerebbe prima possederla. Intanto il ministro Franceschini , in Consiglio dei ministri, si accapigliava con Alfano: “Voi volete solo salvare Berlusconi!”. Ma va? E quando l’ha scoperto? Infine ieri, mentre tutti parlavano di fine del governo e di “punto di non ritorno”, Napolitano dimostrava che il punto di non ritorno non esiste, la trattativa Stato-Mediaset è più che mai aperta.

Infatti chiedeva, eccezionalmente a ciglio asciutto, “l’indulto e l’amnistia”. Ma sì, abbondiamo. Così sparirebbero per incanto i processi Ruby-1 e Ruby-2, De Gregorio, Tarantini, Lavitola, la sentenza Mediaset e tutti i reati commessi da B. ma non ancora scoperti. I detenuti perbene dovrebbero dissociarsi e rifiutare di diventare gli scudi umani per B.& N., a protezione del sistema più marcio della storia. Essi sì avrebbero diritto a versare qualche lacrimuccia. Invece in Italia lacrimano solo i coccodrilli: chi è causa del nostro mal, piange al posto nostro.


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L'albero dei valori.



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Saldi all’Italiana. - Loretta Napoleoni

Saccomanni è un uomo ottimista, meno male perché c’è ben poco da stare allegri. Secondo il Fondo Monetario lo stato della nostra economia è preoccupante. Quest’anno il Pil dovrebbe diminuire dell’1,7 per cento, a detta del Tesoro, ma il Fmi non esclude una contrazione del 2 per cento. Siamo al quarto anno di recessione dal 2008, con alle spalle un calo del 2,4 per cento nel 2012. I conti pubblici, poi, non sono affatto a posto. Il deficit tendenziale per il 2013 è del 3,1 per cento, ragione per cui serviranno 1,5-20 miliardi per non sforare il limite massimo consentito dall’Europa pari al 3 per cento. Il problema è dove li troviamo tutti questi soldi?
C’è chi sostiene che si potrebbero vendere i beni pubblici ancora in nostro possesso: se escludiamo beni come l’acqua che un referendum ha sancito di propietà esclusivamente pubblica, ci sono rimasti solo caserme e monumenti. Quasi tutti i gioielli di famiglia industriali se ne sono andati nel 1992, per far fronte alla crisi della lira. Naturalmente quella svendita, gestita dall’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi,  non portò, come era stato promesso, al miglioramento dei conti pubblici. Nel 1994 il debito pubblico ammontava a 1.771.108 miliardi di lire, il gettito generato dalle privatizzazioni per il triennio 1993-1995 fu di appena 27.000 miliardi, meno dell’1,5 per cento.
Piuttosto i saldi all’italiana produssero lo smembramento dell’industria pubblica a vantaggio di élite straniere ed italiane, oggi finalmente abbiamo capito che ha contribuito al processo di deindustrializzazione del paese che tanto preoccupala Commissione Europea. Ed è bene rinfrescarci la memoria su come furono gestiti quei saldi per evitare di doverne pagare il conto ancora una volta noi.
Dal 1992 al 2002 il Tesoro gestì direttamente operazioni di privatizzazione per un controvalore di circa 66,6 miliardi di euro. A questa cifra vanno però aggiunte le privatizzazioni gestite dall’Iri (sempre sotto il coordinamento del Tesoro), per un controvalore di circa 56,4 miliardi di euro, le dismissioni realizzate dall’Eni (5,4 miliardi di euro) e la liquidazione dell’Efim (440 milioni di euro). Si tratta di cifre molto consistenti, da cui è facile intuire il valore e l’importanza dei beni venduti, o per meglio dire “svenduti”.
Per capire quanto valgono questi stessi beni che non ci appartengono più possiamo comparare gli incassi delle privatizzazioni con i valori delle rivendite degli stessi da parte dei privati o i valori attuali.
Il gruppo Benetton si aggiudicava per 470 miliardi GS Autogrill che poi ha rivenduto ai francesi di Carrefour GS per 10 volte tanto.
Nel 1992 la cessione del 58 per cento del Credito italiano produsse ricavi lordi per 930 milioni di euro, nel 2002 Unicredito italiano capitalizzava 26.593 milioni di euro.
Tra il 1994 e il 1996 la cessione del 36,5 per cento dell’Imi rese 1.125 milioni di euro, le successive 3 tranche, pari al 19 e al 6,9 per cento, rispettivamente 619 e 258 milioni di euro, nel 2002 Imi-Sanpaolo capitalizzava 16.941 milioni di euro.
Un caso a parte è poi rappresentato dal Banco di Napoli: quel 60 per cento che lo Stato ha venduto alla BNL per 32 milioni di euro (una volta ripulito delle perdite e dei crediti inesigibili con 6.200 milioni di euro di denaro pubblico), viene rivenduto dalla BNL, a distanza di pochi anni, per 1.000 milioni di euro. È anche vero chela BNL lo ha risanato completamente, ma la differenza tra i due valori è enorme. In ogni caso perché questo risanamento non poteva avvenire per mano dello Stato? Perché è gestito da incompetenti e da pirati.
Alle cifre di vendita da parte del tesoro vanno aggiunte le commissioni per i collocatori di borsa, banche che compongono il sindacato di collocamento e altri consulenti, così come le spese di registrazione e listing sui mercati azionari, spese per adempimenti CONSOB, SEC eccetera. Questi costi nel corso degli anni sono diminuiti, ma si aggirano comunque tra il 2 e il 3 per cento dell’ammontare totale del ricavato. Una fetta consistente di questo denaro, circa l’1 per cento, l’hanno poi incassata le maggiori investment banks anglosassoni, come J.P. Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Credit Suisse, First Boston, Merrill Lynch e così via, per la loro attività di consulenza. Il tutto senza ovviamente rischiare in proprio neanche un dollaro, e senza dover neppure sostenere una gara pubblica per l’affidamento dell’incarico.
La seconda fase del processo di privatizzazione riguarda invece le banche di diritto pubblico, e include la privatizzazione de facto della Banca d’Italia i cui azionisti fino ad allora erano banche italiane di diritto pubblico. Dal 1992 la proprietà passa nelle mani di privati spesso addirittura esteri, che hanno rilevato quote sostanziose delle banche italiane come BNP Paribas, Crédit agricole, Banco Bilbao, Allianz eccetera, il tutto in palese violazione dell’articolo 3 del vecchio statuto, sostituito soltanto nel 2006. Le conseguenze più importanti di questa decisione riguardano la creazione di moneta, che dalle mani dello Stato – cioè noi cittadini – passa a quelle di soggetti esteri, a questi ultimi viene virtualmente ceduta una fetta della nostra sovranità nazionale.
Completate le privatizzazioni comincia il gioco delle sedie: alcuni personaggi chiave lasciano il settore pubblico e vanno a lavorare per le grandi banche straniere che hanno guidato la vendita del patrimonio nazionale sul mercato: Mario Draghi diventa vicepresidente della Goldman Sachs e Vittorio Grilli, ai tempi vicedirettore generale del Tesoro con delega alle privatizzazioni, viene assunto al Credit Suisse.
Qualcuno ha scritto che ciò che è successo in Italia assomiglia allo smembramento delle aziende di stato della vecchia Unione Sovietica, ed in parte il parallelo è giusto. Ma gli oligarchi russi se ne impossessarono, i manager ed i politici italiani le hanno smembrate per regalarle ai loro amici stranieri in cambio di posti di lavoro all’estero.