domenica 9 febbraio 2014

Betta splendens.







http://it.wikipedia.org/wiki/Betta_splendens

LA GRANDE BRUTTEZZA – IL COMUNE DI ROMA, PUR ESSENDO PROPRIETARIO DI 60MILA BENI IMMOBILI, PAGA LA BELLEZZA DI 74 MILIONI L’ANNO PER GLI AFFITTI (CHISSA’ CHI LO HA PERMESSO). - Sergio Rizzo

ANGIOLA ARMELLINI
          ANGIOLA ARMELLINI

Questo dato sconcertante oggi possiamo conoscerlo grazie a una norma di tre righe sfornata dal governo di Mario Monti appena prima di andarsene – Invece di prendersela con i nomi dei soliti noti Armellini e Scarpellini perché non si domanda ai vari sindaci perché l’hanno permesso?…

Cinquantadue euro e 46 centesimi al mese.È la pigione media che il Comune di Roma incassa da ciascuno dei suoi 43.053 alloggi: moltissimi dei quali, ed è comprensibile, affittati a prezzo politico ai cittadini meno abbienti. Ma pur tenendo conto di questo non trascurabile dettaglio, è una miseria. Tanto più scandalosi, quei 27,1 milioni l’anno, al confronto con la somma che lo stesso Campidoglio tira fuoriper affittare da costruttori
e immobiliaristi privati 4.801 appartamenti da assegnare agli sfrattati o alle famiglie in difficoltà: 21 milioni 349.652 euro.
Di questi 21,3 milioni, per inciso, 4 milioni 242 mila finiscono nelle tasche di una società che si chiama Moreno Estate srl. Che fa capo ad Angiola Armellini, figlia dell’ex re dei palazzinari romani Renato Armellini, una signora che ha guadagnato qualche giorno fa l’onore delle cronache dopo che le hanno fatto tana: ha 1.243 appartamenti sui quali secondo la Guardia di Finanza non pagava Ici e Imu. Il bello è che l’hanno scoperto le Fiamme gialle e non il Comune di Roma, che da lei ha in affitto quasi tutti quegli appartamenti. Esattamente, 1.042.
Ma in quanto a immobili affittati al Campidoglio non è da meno sua sorella Francesca Armellini, cui sono riconducibili alcune società proprietarie di altre 388 case e vari stabili a uso commerciale che fruttano complessivamente, tenetevi forte, 9 milioni 922.374 euro l’anno. Pagati sempre dal Comune di Roma. Perché l’amministrazione capitolina, che oltre a 43.053 appartamenti è proprietario di altri 16.413 beni immobili con diversa destinazione d’uso (!) debba spendere tutti quei soldi per affittare uffici dai privati, sembra incomprensibile.
Anche se forse la spiegazione è nell’elenco dei beneficiari. Un paio di casi? Il sempre citato immobiliarista Sergio Scarpellini incassa 15 milioni 594.841 euro l’anno: 9 e mezzo per il solo immobile che ospita le commissioni del Consiglio comunale, a sua volta preso in affitto dall’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti, per poco più di 2 milioni. Domenico Bonifaci, proprietario del quotidiano romano «Il Tempo», intasca invece un milione 89 mila euro per i locali del Municipio XIV. E ci fermiamo qui, non senza chiudere questo capitolo con un numero: 74.063.805.
È la cifra che il Comune di Roma, pur essendo proprietario di 59.466 beni, paga ogni anno per le locazioni passive. Questo dato sconcertante oggi lo conosciamo grazie a una norma di tre righe sfornata dal governo di Mario Monti appena prima di andarsene.
Articolo 30 del decreto 14 marzo 2013, numero 33: «Le pubbliche amministrazioni pubblicano le informazioni identificative degli immobili posseduti, nonché i canoni di locazione o di affitto versati o percepiti». Ed è la dimostrazione del potere devastante della trasparenza. Certo, in un Paese come l’Italia nel quale prima di essere applicate le leggi si interpretano, dipende molto proprio dall’interpretazione.
C’è chi lo fa in senso estensivo, come il Comune di Roma che accanto ai canoni pagati pubblica diligentemente i nomi dei beneficiari. E chi, invece, visto che la norma di cui abbiamo parlato non lo prevede esplicitamente, semplicemente li omette.
Come sa bene Giuseppe Valditara, ex senatore di An animatore del forum Crescita & Libertà, che ha avviato una battaglia civile contro gli sprechi, di cui le locazioni passive sono una delle manifestazioni più lampanti, scontrandosi con l’ottusità di certe amministrazioni. Difficoltà, peraltro, che siamo sicuri abbia incontrato anche il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli.
Sul suo tavolo c’è la tabella pubblicata in queste pagine, che dice quanto l’amministrazione centrale spende per gli affitti passivi. La somma è enorme: 730,6 milioni, per un totale di 8.652 contratti di locazione, che si portano dietro 27 mila atti. E senza contare le agenzie fiscali, che non scherzano. La sola Agenzia delle entrate dichiara nel proprio sito circa 480 contratti, per un totale di 178,6 milioni.
Il che già la dice abbastanza lunga sui problemi che deve affrontare chi ha il compito di disboscare questa giungla. Se non fosse, poi, che ai dati dello Stato centrale bisogna aggiungere quelli, ben più numerosi, di enti pubblici, Regioni, Province, Comuni nonché società controllate e altri soggetti quali fondazioni, consorzi… Le scuole, per esempio. Ce ne sono affittate 1.567, pari al 4,2 per cento degli edifici scolastici censiti. E sono quasi tutti contratti stipulati dalle Province.
Nella sola Sicilia ce ne sono 338, e poi 295 in Campania, 163 in Puglia, 120 nel Lazio, 119 in Calabria. «Da parlamentare – ricorda Valditara – denunciai il caso di Reggio Calabria, dove si affittavano edifici fatiscenti dai privati mentre una scuola nuova, mai inaugurata, stava andando in rovina. C’era costata 8 milioni». Una massa di cui nessuno conosce i confini esatti, che spinge il costo (e lo spreco) degli affitti passivi a livelli inimmaginabili. Secondo l’ex ministro Corrado Passera non lontani da una dozzina di miliardi l’anno.
Con la particolarità che mentre i dati dello Stato si possono conoscere, sia pure con qualche problema, le difficoltà per avere gli altri risultano talvolta letteralmente insormontabili. Già. Intanto la legge che obbliga alla trasparenza non prescrive che le informazioni debbano essere pubblicate in un unico sito. Cosicché, se pure l’agenzia del Demanio decide volontariamente di mettere a disposizione dei cittadini l’elenco delle locazioni passive (245 pagine che si possono consultare sul suo web) dell’amministrazione centrale, accanto a ogni voce non figura il canone pagato, né il proprietario dell’immobile. Non tocca a loro.
Ma c’è di più. Il ministero dell’Interno, per esempio, pubblica solo la lista delle prefetture prese in affitto: non ci sono né le stazioni di polizia né le caserme dei carabinieri e dei vigili del fuoco. Eppure sono le voci più consistenti: 275 milioni sui 381 totali. Con situazioni che non ha mancato di sottolineare il documento sulla spending review messo a punto da Piero Giarda nel marzo 2013, citando il caso di Crotone, dove il costo degli immobili affittati per la locale polizia stradale risulta di 44.961 euro per addetto, contro una media nazionale di 2.547.
Nel sito del ministero del Lavoro, a quasi un anno dall’entrata in vigore dell’obbligo di trasparenza, la lista non c’è: la pagina risulta ancora «in allestimento». Eppure Cottarelli sa che hanno 133 immobili affittati per 23,1 milioni. Mica bruscolini. Il ministero della Difesa, invece, espone un solo contratto: 210 mila euro per il tribunale militare di Napoli. Però nella tabella di Cottarelli di contratti ne figurano 30. Ancora. Il sito del ministero dell’Ambiente cita due immobili in locazione, per circa 5 milioni l’anno relativi alla sede centrale del ministero, senza specificare la proprietà.
Il secondo immobile è un appartamento nel centro di Roma concesso in comodato gratuito dalla Regione Lazio: sede di rappresentanza. Mentre in realtà di locazioni passive ne risultano 34, per un totale di 13,2 milioni. Il sito delle Infrastrutture, poi, specifica i nomi dei proprietari con dovizia di particolari: l’Immobiliare Marinella, l’Immobiliare Tiziana, l’Immobiliare Valentina, il fondo Idea Fimit (quello presieduto da Antonio Mastrapasqua)…. Il ministero della Giustizia, al contrario, no. Fa persino sorridere la frase che compare nella stessa pagina web: «Percorsi chiari e precisi, un tuo diritto».
Sergio Rizzo per il Corriere della Sera

Governo Letta, fatta la legge manca il decreto. Le 384 norme mai attuate. - Carlo Tecce


Su 429 provvedimenti approvati, solo 45 hanno poi avuto attuazione. Affari Esteri, Beni Culturali e Giustizia non ne hanno licenziato nessuno.

Enrico Letta l’ha giurato: “Io non voglio galleggiare”. E il governo non galleggia, no, non va né sopra né sotto perché resta immobile. I decreti ci sono, tanti, ampi e pure con l’etichetta per entusiasmare: “Fare Italia”, “Destinazione Italia”. Le intenzioni ci sono e, magia, in pratica non esistono. Perché i ministeri non producono le norme attuative necessarie per applicare le leggi: su 429 provvedimenti previsti soltanto 45 sono in vigore e 58 sono già scaduti, cioè sono carta straccia. La tradizionale scusa, ormai un ritornello, è sempre valida: la burocrazia. Il buco nero con protagonisti più o meno anonimi, fra capi di dipartimento, dirigenti e funzionari, che inghiotte le riforme, i ritocchi e annulla l’efficacia di Palazzo Chigi. Da Mario Monti a Enrico Letta, come ha osservato il Sole 24 Ore di ieri, riportando lo studio sul programma di governo, la situazione è peggiorata. Questa è la conseguenza di una ribellione silenziosa dei vecchi apparati e di un controllo insufficiente dei ministri.

A MAGGIO, poi a giugno e ancora a luglio, Letta ha annunciato le imperdibili occasioni per i giovani. Per smuovere un po’ lo stagno, dove non è salutare galleggiare, l’esecutivo ha pensato di stanziare un capitale, piccole indennità, per la partecipazione ai tirocini formativi e di orientamento. Il Tesoro ha inviato i documenti all’ufficio di competenza, la Ragioneria di Stato, ma il 27 agosto era già scaduto. Com’è scaduto, il 22 di ottobre, lo stanziamento per “mille giovani per la cultura”.
Quante volte s’è proclamata l’emergenza per le piccole e medie imprese? Ma il ministero per lo Sviluppo economico e il Tesoro non sono riusciti a creare il fondo di garanzia. E ancora non sanno, sempre al ministero di Fabrizio Saccomanni, come utilizzare i 20 miliardi per i pagamenti delle pubbliche amministrazioni. Nonostante l’ex direttore generale di Bankitalia abbia smantellato e reinstallato i vertici, la macchina non funziona: su 76 provvedimenti ne hanno emanati 16. Il ministro Maria Chiara Carrozza ha litigato con Saccomanni e impedito che gli insegnanti dovessero restituire dei soldi in busta paga, però non s’intravede il piano triennale per l’assunzione a tempo indeterminato. Non una cosina secondaria. E non facile. Anche perché l’Istruzione e la Cultura non ce le fanno neanche a calcolare i mancati introiti per consentire, come promesso, ai docenti l’ingresso gratuito nei musei.
Il colmo per la burocrazia, ovvio, è non fare nulla per alleggerire la pesantezza della burocrazia. Sta ancora in un cassetto, dunque, il piano nazionale per le zone a burocrazia zero. Un pasticcio. Il ministero di Flavio Zanonato, lo Sviluppo economico, ha risposto che “la norma è complicata da applicare perché sono previste aree esclusivamente non soggette a vincolo paesaggistico, storico e artistico”. Ma rassicurano: è in fase istruttoria. Come la pianta organica per l’esaurimento dei giudici ausiliari. Gli esempi da fare sono 384 come le norme ancora non attuate e le leggi tenute in sospeso o, semplicemente, decadute. La tabella accanto dimostra che l’intero sistema è paralizzato.
E ci sono dei ministeri capaci di non emanare neanche una norma. Coesione Territoriale: 0 su 5. Affari Esteri: 0 su 7. Pubblica Amministrazione: 0 su 8. Giustizia: 0 su 10. Salute: 0 su 16. Beni Culturali: 0 su 25. Non male, per chi non vuole galleggiare. Perfetto, per chi vuole affondare.

San Siro, blitz dei carabinieri: nel mirino c'è la società del genero di Gianni Letta. - Sandro De Riccardis



Nella relazione alla Procura di parla anche di "casi di lavoro nero". Riflettori puntati sulla società che ha l'appalto col Milan: uno degli amministratori è Roberto Ottaviani, che vinse la gara per il G8.

In campo si fronteggiavano Milan e Roma nel posticipo di campionato. Nelle eleganti sale vip e in quelle degli sponsor, fra i cocktail e i vassoi del buffet, c’erano invece i carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro che controllavano i contratti di lavoro di camerieri e cuochi e le norme della sicurezza. E tra una sgroppata di Gervinho e un tiro di Balotelli, lo scorso 16 dicembre, gli investigatori hanno raccolto la documentazione sui 68 lavoratori presenti nei locali dello stadio Meazza a Milano. Redigendo poi un’informativa per il pm Carlo Nocerino in cui si parla di «situazioni di somministrazione illecita di personale» e «casi di lavoro nero» su cui ora dovranno essere effettuati ulteriori accertamenti.

I carabinieri hanno accertato che la società che ha l’appalto con la Milan Entertainment è It srl, i cui amministratori sono Giorgio Monti e Roberto Ottaviani, quest’ultimo genero dell’ex sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta, e già noto per aver vinto l’appalto milionario del catering del G8 dell’Aquila nel 2009 con un’altra società del gruppo. Annotano gli investigatori che a operare all’interno dello stadio San Siro è la Essebi, «controllata della It, che ha subappaltato i servizi di somministrazione di alimenti e bevande, l’organizzazione dei tavoli, il supporto alla cucina» alla stessa Essebi e ad altre due società.

I carabinieri dell’Ispettorato del lavoro stanno effettuando ora «accertamenti per verificare la genuinità del subappalto tra la It e due società che lavorano in subappalto (la Essebi e la Dynamo) per verificare la corretta applicazione delle norme sulla sicurezza e il corretto impiego dei lavoratori, «in quanto appare che in alcune situazioni vi sia somministrazione illecita di personale». A insospettire gli investigatori, un’anomalia emersa dai controlli: «Appare strano che siano stati rilasciati un numero di pass superiore ai lavoratori trovati al momento dell’ispezione». E anche se nell’inchiesta non ci sono indagati, l’ispettorato «comunicherà l’esito degli accertamenti con i provvedimenti che saranno adottati a carico delle società. Anche perché — conclude l’informativa — allo stato attuale risultano esserci casi di lavoro nero».


http://milano.repubblica.it/cronaca/2014/02/08/news/blitz_dei_carabinieri_a_san_siro_nel_mirino_la_societ_di_catering-77993977/?ref=fbpl

sabato 8 febbraio 2014

Facciamo il punto della situazione.




























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BANKITALIA/ Borghi: i 100 miliardi che gli italiani rischiano di perdere. - Intervista a Claudio Borghi Aquilini a cura di Gianluigi da Rold.


Un putiferio normativo, un vuoto legislativo, e un rischio da brividi. Nella grande complicazione e confusione del decreto legge del Governo, sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia e mini-Imu, si può notare soprattutto questo pasticcio illogico

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di Claudio Borghi Aquilini
Claudio Borghi Aquilini, professore di Economia degli Intermediari Finanziari all’Università Cattolica, analizza il decreto e lo definisce sospetto. E non nasconde le sue preoccupazioni. Dice Borghi Aquilini: «Il Movimento 5 Stelle ha fatto una dura lotta contro il decreto che conteneva la rivalutazione delle quote di Bankitalia curiosamente “infilato” nel provvedimento legato all’Imu. Ha fatto bene. Peccato che a giudicare da quanto hanno detto i grillini, temo che non abbiano capito che cosa sia il vero rischio di questa manovra e abbiano pensato che la rivalutazione del capitale di Banca d’Italia a 7,5 miliardi veniva fatta con soldi pubblici che vengono messi in Bankitalia e regalati alle banche. Il problema non sta in questi termini».
In altre parole, per far comprendere la questione, non è che si è staccato un assegno di oltre sette miliardi a favore delle banche?
No, quella è stata una rivalutazione, un’operazione contabile. Anzi le banche ci pagheranno anche le tasse. Il punto non è la rivalutazione fatta sul capitale fissato nel 1936.
Lei ha parlato di illogicità, ha sottolineato l’illogicità del decreto su Bankitalia.
Il problema è lo stato giuridico di Bankitalia. La qualifica di Bankitalia è di ente di diritto pubblico e discende dal R.D. del 1936. Questa qualifica è stata ribadita da alcune sentenze, ma non c’è nessuna legge chiara in proposito. Qui si parla di quotisti, e non di azionisti. Infatti, anche se, sempre più spesso, si parla di azionisti, resta il fatto che non hanno i diritti che normalmente spettano all’assemblea degli azionisti. Non nominano il Governatore di Bankitalia. In definitiva ci si trova di fronte a una bizzarria, a un totale vuoto legislativo.
Nel 2005 fu approvata una legge che imponeva il passaggio allo Stato.
Legge che è rimasta lettera morta e quindi la situazione resta bizzarra. Questo accrocchio mai definitivamente sanato avrebbe dovuto risolversi mettendo Bankitalia anche formalmente come proprietà pubblica. In tutto questo, il governo alla ricerca di soldi, che cosa ti inventa? Fa rivalutare le quote di Bankitalia così fa pagare le tasse sulla plusvalenza. Poi il governo placherà le stesse banche con i dividendi. In altre parole, il governo dice: pagatemi adesso che devo tirare avanti, ma state tranquilli che vi ripago in futuro con i dividendi. E fino a questo punto siamo di fronte a fuffa, robetta.
Ma allora, professor Borghi qual è il problema vero?
Il problema grosso non è quello e (anche se non piccolo) non è nemmeno il regalo quando queste quote saranno rivendute a caro prezzo. La questione vera è se comincio a considerare le quote di Bankitalia come azioni vere, con valore reale. Se i privati ci pagano le tasse, se mettono a bilancio un valore rilevante, non ci troviamo più di fronte a una formalità. Insomma, Bankitalia diventa privata. Parliamoci chiaro: basta un tribunale “amico” che, preso atto della novità, dia ragione ai “proprietari” privati, che magari nel frattempo sono diventati stranieri.
E quindi qui arriviamo al rischio o all’incubo.
Già, stiamo arrivando, perché qui sorge quello che ho chiamato il “problemuccio” dell’oro, tanto per farci capire. L’Italia è il terzo possessore di oro nel mondo. È dato in gestione e deposito alla Banca d’Italia. È oro dello Stato, degli italiani che lo hanno messo come in una cassetta di sicurezza. Il problema è che, anche in questo caso, nel completo vuoto legislativo, non è mai stato ben chiarito a che titolo è stato dato in gestione e deposito. Qui non si tratta più di fuffa e robetta, ma di cento miliardi di euro. Al di fuori dell’oro a Bankitalia rimangono qualche riserva, un po’ di valute straniere e i debiti Target2, che tra l’altro non vuole nessuno.
Allora, professore, non ci faccia stare con il fiato sospeso.
Quindi, il punto, il nocciolo della questione, non è la rivalutazione, ma essere certi che l’oro sia confermato come patrimonio indisponibile e non privatizzato. È chiaro, il punto? C’è una questione ulteriore da sottolineare a tale proposito: il governo ha bocciato gli ordini del giorno, come quello di Fratelli d’Italia, che chiedevano solo di ribadire che l’oro non è di Bankitalia ma nostro, degli italiani.
Quindi se la Bce dovesse “bussare cassa”, se si dovesse ricorrere alla riserve come nel 1992, con una “bruciatura” che abbiamo ancora sulla pelle, ci sarebbero quei 100 miliardi di oro?
Già. Tanto ti dovevo…ci manca pure che dopo averci fregato 50 miliardi di MES ci fregano pure 100 miliardi di oro. A quel punto siamo a posto. Con il rischio privatizzazione e l’oro a disposizione.
Gianluigi Da Rold