martedì 15 dicembre 2015

Cosa ci insegna la Boschi Family Story. - Pierfranco Pellizzetti



Come dare torto a Dario Nardella, il badante che veglia amorosamente sulla poltrona di sindaco di Firenze avuta in affido da Matteo Renzi, quando replica in tono infastidito a Roberto Saviano «sei fuori dal mondo»? 
Difatti è certamente fuori da “un certo mondo” chi reclama le dimissioni per conflitto d’interessi della ministra Boschi, invischiata con il babbo Pierluigi e il fratellino Emanuele nella vicenda ormai mortifera del crack di Banca Etruria.
Il mondo dove le famiglie Adams della politica italiana praticano con soddisfatto sprezzo del pudore lo sport dell’arraffa impunito. Magari per poi sgranare gli occhioni – tra lo stupito e l’indignato – se qualcuno osa eccepire che il vice presidente di una Banca fallita dovrebbe rendere conto del proprio operato, non meno del dirigente responsabile del settore fidi di detto istituto. Ossia daddy Pier Luigi ed Emanuele brother; che la ministra belloccia (seppure abbastanza sul cavallino) presume di mondare da ogni responsabilità morale/materiale con un suo semplice attestato che si tratterebbe di “brave persone” e “cari ragazzi”.

Quando l’impudenza si diluisce nell’ingenuità…
Eppure la Boschi family ci insegna qualcosa di molto importante, sui tempi attuali e i suoi protagonisti: di che materiale sono fatti i ragazzetti e relativi famigli che occupano la scena al seguito di Matteo Renzi; il cui padre Tiziano è nel mirino della magistratura per certi business malandrini, che mal si addicono alla sua aria da Grande Puffo, con tanto di barbetta ricurva (il Tribunale di Genova ha respinto la richiesta di archiviazione dell’indagine per bancarotta che lo riguarda); il cui zio Nicola Bovoli, leonardesco inventore del celebre Quizzy, era in affari con Berlusconi.

Insomma, dietro cotanti modelli – la bella e il best – avanza una tipologia umana di nuovo conio, che riprende aspetti delle precedenti razze padrone, ma rimixate in modalità originali:

- Gli antichi “uomini di mano dorotei”, al tempo della Prima Repubblica, praticavano una sfrenata occupazione del potere, ma sempre mimetizzati in uno stile di vita disadorno tendente al monacale, totalmente diverso dal glam da balera dei nuovi emergenti;

- Tra i “giovani turchi” dell’ultima infornata dalemiana - modello Orfini o Andrea Orlando - non si rinuncia(va) a nessun colpo basso e porcata, ma sempre con quel pallore sul volto da grano dei sepolcri (i corridoi di partito ove hanno sempre vissuto, in simbiosi con famiglie di lemuri) che contrasta con il look lampadato renziano;

- Gli “avanzi di balera” del berlusconismo rampante esibiscono tenute fighette, pantaloni a tubo di stufa strizza-malloppo e SUV mastodontici da parcheggiare in terza fila, come gli abitué Leopoldini; che tuttavia si riconoscono per un uso compulsivo dei media “indossabili” (I-phone, smart-phone) per tweettate in quantità industriali (che farebbero venire il mal di testa a dolcevitari arcoriani);

“Le amazzoni di Silvio” azzannavano l’avversario né più né meno ora delle “soavi viperette” renziane; ma queste ultime preferiscono adottare un repertorio tossico composto da sottili perfidie e insinuazioni velenose, rispetto agli schiamazzi con strabuzzo delle precursore nella femminilizzazione del killeraggio televisivo.
    Riassumendo: ragazzetti e ragazzette di modesta cultura e mastodontiche ambizioni, che avanzano a suon di gomitate senza remore di sorta e non guardando in faccia nessuno. Con una pretesa di modernità confusa con il look.
    Nessun stupore se poi li ritroviamo a ripetere le stesse malefatte di chi li ha preceduti, la cui rottamazione aveva il solo scopo di fare spazio ai nuovi sgomitatori.


    http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/12/14/pierfranco-pellizzetti-cosa-ci-insegna-la-boschi-family-story/

    Leopolda 6, Matteo Renzi cerca cento capilista. - Marco Damilano

    Leopolda 6, Matteo Renzi cerca cento capilista

    Finora dalle kermesse di Firenze erano usciti i fedelissimi destinati a ministeri e aziende di Stato. Quest’anno nei piani c’è la selezione dei futuri deputati. Via i vecchi parlamentari, ecco il nuovo Pd sognato dal premier.


    Obiettivo: individuare i candidati, fin da ora. 
    Cento nomi bloccati, i capilista. 
    E altri 240 da far eleggere con le preferenze. 
    Non sono i nomi che correranno alle elezioni amministrative della primavera 2016. 
    Nei piani di Matteo Renzi quel voto sarà l’ultimo giro di valzer per il vecchio Pd. 
    L’ultima fermata. 
    Il capolinea.

    Alla sesta edizione dell’ex stazione Leopolda a Firenze, il luogo dove ogni anno si riuniscono gli stati generali del renzismo, l’unico partito veramente riconosciuto dal premier, la partita è già spostata in avanti. Verso le elezioni politiche: nel 2018, quando arriverà la scadenza naturale della legislatura, o più probabilmente prima, tra tredici-quindici mesi. È per quell’appuntamento che deve essere pronto il nuovo Pd. Da cercare alla Leopolda.

    Con un’avvertenza: in tutte le edizioni precedenti della kermesse gli emergenti, i personaggi in ascesa raramente sono tornati in posizione di primo piano nell’anno successivo. I leopoldologi, gli studiosi dei micro-spostamenti nella nomenclatura renziana, simili a quelli che in tempi di guerra fredda scrutavano il Cremlino per individuare promossi e sommersi, elencano che nel 2010, prima edizione, anno zero del renzismo, concluse i lavori Pippo Civati, era il gemello di Renzi, ora milita in un altro partito.

    Nel 2011 nell’ultima giornata parlò l’ex direttore di Canale 5 Giorgio Gori, qualcuno incautamente osò definirlo il guru di Renzi, ora fa il sindaco di Bergamo. Nel 2012 spopolarono i deputati Andrea Sarubbi e Mario Adinolfi, ma poi non furono neppure ricandidati. Nel 2013 Graziano Delrio affiancò Matteo al tavolo della presidenza. Un sodalizio finito: oggi Delrio è ministro delle Infrastrutture, lontano da Palazzo Chigi. Nel 2014, furono lanciati quattro giovani deputati: Edoardo Fanucci, Lorenza Bonaccorsi, Luigi Famiglietti, Silvia Fregolent. Chi li ha più visti? Anche Andrea Guerra, l’ex amministratore delegato di Luxottica, super-applaudito alla Leopolda, ha avuto vita breve a Palazzo Chigi. Ora si è accasato a Eataly con Oscar Farinetti.

    C’era una volta la Leopolda, il regno di Camelot della rottamazione. C’erano una volta Alessandro Baricco e Fausto Brizzi e Pif, gli intellettuali organici, i profeti del nuovo corso. L’operazione è stata compiuta, l’ex sindaco di Firenze ha conquistato il trono, Matteo il giovane regna e governa. E l’appuntamento annuale alla Leopolda cambia pelle, in vista delle elezioni politiche, quando saranno. Nella sesta edizione nessun parlamentare sarà chiamato a intervenire sul palco: brutto segnale per chi spera di essere riconfermato nel prossimo Parlamento.

    Via i tavoli di lavoro in cui negli anni precedenti si erano accalcati ministri e semplici militanti, sono stati invitati gli esponenti della società civile che piace al premier, i campioni, i vincenti: Samantha Cristoforetti, Flavia Pennetta, Roberta Vinci, Federica Pellegrini. La consacrazione di un partito di numeri uno. Il contrario di quello che nelle grandi città e nei piccoli comuni si spacca sulle primarie e sulle candidature, il Pd che a Roma, Milano, Napoli non riesce a trovare tra i suoi iscritti un personaggio degno di essere proposto all’elettorato come sindaco. Vano sperare che dalla Leopolda possa arrivare un’indicazione. Non è quella la sfida elettorale che interessa al premier.

    La prima regola del renzismo è che tutto può ruotare, tranne il leader. Sempre lo stesso anche il comitato direttivo della fondazione Big Bang che organizza l’evento e che gestisce i finanziamenti privati: presidente l’avvocato Alberto Bianchi, da un anno e mezzo nel cda dell’Enel. E poi ci sono Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Marco Carrai. La Trinità che affianca Renzi a Palazzo Chigi e nelle relazioni con il mondo esterno. Il sancta sanctorum di Matteo che incarna la seconda regola implicita del renzismo realizzato. Tutto al governo, niente al partito.

    Dopo due anni di leadership di Renzi il Pd e la Leopolda continuano a essere pianeti che non si incrociano mai. La classe dirigente uscita in cinque anni dall’ex stazione fiorentina ha conquistato ministeri, direzioni generali, consigli di amministrazione, enti pubblici, collegi sindacali: Fabrizio Landi (Finmeccanica), Marco Seracini (Eni), Federico Lovadina (Ferrovie), Simonetta Giordani (Ferrovie), Guelfo Guelfi (Rai).

    Più in alto di tutti, quest’anno, è salito Antonio Campo Dall’Orto, leopoldino da sempre, direttore generale della Rai da quattro mesi, in attesa di diventare amministratore delegato di viale Mazzini con l’approvazione definitiva della nuova legge. Con lui nella ex stazione ci sarà la regista Simona Ercolani, Renzi l’avrebbe voluta presidente della Rai, ora è candidata alla direzione di Raiuno. Nell’attesa delle nomine le è stata affidata la direzione creativa della tre-giorni alla Leopolda: luci, inquadrature e tempi di intervento.

    Un’occupazione sistematica del potere. Con un’assenza importante: gli incarichi di partito. Forse sono considerati fonte infinita di guai e di rogne da sbrigare, senza nessuna gloria. Tra i leopoldini doc a presidiare il Pd sono rimasti il vice-segretario Lorenzo Guerini e il tesoriere Francesco Bonifazi: ruoli strategici ma più in difesa che in attacco. E i renziani della prima ora rimasti nel partito si sentono snobbati. Dopo qualche ripensamento il deputato Matteo Richetti sarà presente alla Leopolda, ma ha denunciato in pubblico la fine della rottamazione. Molti altri, invece, hanno deciso di restare a casa. Uno sforzo inutile andare a Firenze in cerca di una benedizione per le scalate ai posti di comando del Pd. E tutti quelli che hanno provato a esportare nel Pd a livello locale il modello Leopolda hanno fallito.

    La Fonderia delle idee a Napoli, organizzata da Francesco Nicodemo e Pina Picierno, e la Fabbrica del sottosegretario Davide Faraone a Palermo sono iniziative consumate in un fine settimana. Nicodemo è stato assoldato a Palazzo Chigi per la comunicazione internet. E il sito di Faraone siciliaduepuntozero.it, con la scritta "Il futuro è già presente", è fermo al 28 febbraio 2015, come una lapide. L’ultimo dirigente del Pd uscito dalla Leopolda è il segretario cittadino di Milano Pietro Bussolati, renziano da tempi non sospetti, ma nella vicenda delle primarie sul candidato sindaco, Giuseppe Sala, Francesca Balzani o Pierfrancesco Majorino, non l’hanno coinvolto granché.

    Eppure gli assenti hanno torto. È dall’edizione 2015 della stazione Leopolda che arriverà il Pd di domani. Le elezioni amministrative di primavera del prossimo anno nei piani di Renzi sono un ostacolo da superare senza troppi danni, sono l’ultimo voto con il vecchio Pd. L’ultima corsa per notabili, apparati, signori della guerra reduci da mille battaglie. Poi si cambia. Alla fine del 2016, nella tabella di marcia del premier, è indicato il referendum confermativo sulla nuova Costituzione che elimina il bicameralismo e il Senato, così come l’abbiamo conosciuto finora. E poi, primi mesi del 2017, le probabili elezioni, in anticipo di un anno rispetto alla scadenza naturale della legislatura. Con l’Italicum, la nuova legge elettorale, il partito che vince conquisterà 340 seggi alla Camera.

    Cento saranno i nomi bloccati, i capilista, tutti gli altri dovranno correre per prendere i voti degli elettori con le preferenze. Ecco perché il Pd e il partito della Leopolda, finora rette parallele, sono inevitabilmente destinati a incontrarsi.

    I prossimi deputati renziani saranno scelti qui, nella platea di Firenze più che nelle agonizzanti federazioni di partito, come si chiamavano un tempo. I cacciatori di teste renziani sono già all’opera, guidati dal sottosegretario Luca Lotti. Bisogna individuare i nomi dei candidati, fin da ora. Collegio per collegio. I fedelissimi e i nomi da vetrina tra i capilista. I più competitivi saranno inseriti nella seconda parte delle liste dove si devono prendere i voti, le preferenze.

    Sarà quello l’esordio del partito renziano che da sempre gioca in casa alla Leopolda. Davanti agli occhi del Capitano Renzi. 
    E all’unica che davvero ha i titoli per dirigerlo: Maria Elena Boschi. 
    Oggi e soprattutto domani, quando Matteo penserà a lasciare il doppio incarico segretario-premier. 
    E il Pd e la Leopolda si riuniranno in un solo partito. 
    Guidato da lei.

    Leopolda tra disastri e attacchi al Fatto: Renzi non ne indovina una. - Andrea Scanzi

    Povero Renzi. Era difficile immaginare un disastro più fragoroso di quello che ha caratterizzato la sesta Leopolda
    Al Pacioccone Mannaro non ne è andata bene una. Il caso “salvabanche”, drammaticamente sottovalutato e sempre più inquietante, ora dopo ora, anche per gli enormi conflitti di interesse che lo caratterizzano. 
    La decisione di scappare da un incontro all’Università, terrorizzato dalle contestazioni. L’imposizione di una Leopolda blindatissima, con i risparmiatori truffati tenuti a debita distanza come lebbrosi per non sporcare la festa (?), e tutto questo dopo il flop dell’operazione gazebo “Pd coraggio” di una settimana prima.
    La Leopolda doveva essere il rilancio della propaganda renziana, tra supercazzole jovanottiane e “visioni” ottimistiche da Smemoranda, ma tutti sono scappati dall’adunanza. Anzitutto i campioni, quelli che dovevano raccontare le “imprese”: una defezione dopo l’altra, dalla Pellegrini alla Cristoforetti. Renzi voleva collezionare selfie con i suoi idoli, ma non ha potuto fare altro che scattarsi qualche foto con i Faraone e Carbone.
    La madrina della Leopolda è sempre stata la Boschi, che è però arrivata all’appuntamento crivellata dalle critiche e depotenziata dall’enorme scandalo Etruria. Più di 5mila risparmiatori aretini – la sua città – sono stati rovinati dalla banca di cui il papà (multato 144mila euro per mancati controlli e svariate omissioni) era vicepresidente, il ministro piccola azionista e il fratello Emanuele curava il settore delle posizioni a sofferenza e a incaglio: “un settore”, racconta Davide Vecchi sul Fatto, “che ha bruciato 185 milioni solo di fondi concessi a ex amministratori e sindaci della banca e mai restituiti”.
    Ad Arezzo, fino a pochi mesi fa la città più renziana d’Italia, i Boschi non si fanno più vedere. La Boschi, del resto, è anche responsabile dell’harakiri-Bracciali di giugno, un ameno ragazzotto imposto al partito come candidato sindaco che – in un delirio di onnipotenza renziana – doveva vincere facile e “governare 10 anni”. Come no. Infatti ha perso al secondo turno e ancora ad Arezzo tutti ridono. Anche Bracciali è scomparso, ma a dire il vero era scomparso anche quando c’era. E’ di Arezzo pure Marco Donati, uno che su Twitter si firma “marcodonats” (sì, con la “s”), deputato Pd più renziano di Renzi che il 22 novembre – il giorno del decreto salvabanche – scriveva entusiasta su Facebook: “Il provvedimento (..) rappresenta un segnale positivo per il territorio e in particolare per il personale, i correntisti e la clientela degli istituti di credito tra i quali quello aretino”. Un genio vero, che esemplifica una volta di più quel mix di incompetenza, pressappochismo e arroganza che caratterizza quasi sempre questa “nuova classe dirigente”renziana, composta perlopiù dal peggio della generazione nata nei Settanta e inizio Ottanta.
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    In questo disastro totale, Renzi è riuscito a peggiorare tutto con la trovata del “vota il titolo peggiore”. Un’idea così scema, sgradevole e controproducente che persino Claudio Velardi, notoriamente renzianissimo, ha riassunto così: “Matteuccio quel gioco è fesso e un po’ di regime”. Una frase che, peraltro, reggerebbe forse anche se si togliesse la parte “quel gioco”.
    Lo stesso Ferruccio De Bortoli ha scritto: “Già che c’è, la prossima volta ce lo dica lui che titoli dobbiamo fare”. Ma la risposta si sa già: Renzi ama l’ottimismo, quindi adora titoli come “Voglio tutto” (Panorama), “Renzi ha le palle” (Il Giornale), “Quello strano fluido della Leopolda così il sindaco diventa fidanzato d’Italia” (Repubblica). A Renzi piace il giornalismo stile Pravda, e in questo può stare tranquillo: per un Saviano che ogni tanto si arrabbia, l’intellighenzia de sinistra resta bella zitta e prona. Moretti, ci sei? Benigni, ci sei?
    Quello di Renzi alla Leopolda è un vero e proprio Editto Leopoldino, con il Fatto Quotidiano – chiamato “fango quotidiano” da quei quattro o cinque leoni da tastiera col poster in camera della Picierno – al primo posto. E qui, va detto, i renziani dimostrano se non altro una dote vera: hanno un pessimo gusto per gli idoli, ma sui nemici hanno gusti sopraffini. Al di là della conferma che Renzi è un personaggio oltremodo caricaturale, con un’idea di libertà di stampa paragonabile a quella che ha Hannibal Lecter dei vegani, la trovata – patetica e puerile – del “dagli all’untore Fatto Quotidiano” è l’ennesimo autogol. Per questa serie di motivi.
    1) Permette a Grillo, e ai M5S, di rivalutare quasi la rubrica “Giornalista del giorno”, che in confronto pare una carezza affettuosa alla stampa italiana.
    2) Regala una pubblicità smisurata a quelle stesse testate, e a quegli stessi giornalisti, che Renzi vorrebbe silenziare e che – tramite Sensi – evita come la peste in tivù.
    3) Dona a quegli stessi giornalisti odiati un discreto godimento, perché quando si sta sulle palle a certa gente vuol dire che si è sulla strada giusta. Anzi giustissima.
    4) Rafforza il paragone “renzismo = berlusconismo”, alimentando con ciò anche il fronte antirenziano, proprio come Berlusconi rinsaldava le fila dei suoi nemici quando insultava i Luttazzi, i Santoro e i Biagi. Fa cioè un ulteriore favore al “nemico”.
    5) Mostra il vero volto di Renzi e renzismo: all’apparenza garbato, di fatto allegramente illiberale.
    In ultima istanza, l’attacco di Renzi alla stampa sgradita non è solo irricevibile, ma è pure un suicidio politico. E anche questo non stupisce: Renzi è tanto arrogante quanto politicamente fragilissimo. E questo lo rende persino più pericoloso. Non è neanche un uomo solo al comando, ma un bimbominkia lanciato a bomba contro il disastro. Suo e del paese che – senza che nessuno gliel’abbia chiesto – governa, facendo disinvoltamente quel che gli gira e piace. Nella compiacenza pressoché generale dei media.

    Renzi dimissioni! Chi non le chiede acconsente. - Paolo Flores d'Arcais




    Non era “Scherzi a parte”. 
    Era proprio “la Leopolda”, il marchio di fabbrica, il brand, la maison, insomma il format urbi et orbi con cui Renzi ogni anno magnifica se stesso in una sbrodola corriva di italico conformismo, cortigiani baci della pantofola e Te Deum alla finanza. 
    Poiché però quest’anno il giornalismo unico e prono, che tanto piace al premier, oltre alla tradizionale eccezione di “Il Fatto Quotidiano” ha registrato su più testate spazi prioritari dedicati a quella pinzillacchera dei risparmiatori truffati e rovinati (uno già indotto al suicidio), anziché la staffetta d’ordinanza di osanna e peana, Renzi ha ritenuto improcrastinabile colpirne uno per educarne cento con la gogna del simpatico gioco “i dieci titoli più inappropriati”: per i vincitori non mancheranno ricchi premi e cotillon, future poltrone, stiano pure sereni.
    Ora, quando Renzi è in famiglia per la tombolata o in intimità con i/le sodali del suo giglio magico per il mercante in fiera o monopoli, padronissimo di sostituirvi giochi che alla combriccola paiano più sganascianti. Ma nella vita pubblica, l’osceno spettacolo di Firenze si chiama aggressione alla libertà di stampa, sputi e schiaffi contro l’articolo 21 della Costituzione, e un premier che in tali pratiche si ingaglioffisca deve andarsene subito. Sulla libertà di stampa, come sugli altri diritti fondamentali della Costituzione, non è lecito scherzare. Perché per minimizzare la gravità di quanto operato dal premier contro la libertà di stampa si è costretti a istituire paragoni con la Turchia di Erdogan, dove i giornalisti finiscono in galera, e la Russia di Putin, dove finiscono anche ammazzati, e allora effettivamente sì, si può sostenere che in fondo quella di Renzi è una marachella, birichinata, birbanteria, ragazzata.

    Solo che Renzi non è un ragazzino in fregola di bullismo, è il capo del governo, e lo standard con cui misurarlo non possono essere Erdogan e Putin. È immaginabile un Obama, una Merkel, un Hollande, un Cameron che si sbellicano a far insolentire dagli elettori un giornale che li critica? E per scendere molto più in basso, cosa sarebbe successo se fosse stato Berlusconi a sollazzarsi con il giochino dei “titoli inappropriati”? O addirittura: come finirebbero le chance della carriera politica di Marine Le Pen, se si permettesse?
    E allora, perché si continua a tollerare Renzi al governo, e la Boschi, e Alfano, e compagnia cantando? Davvero hanno passato il segno. 
    Ecco perché è necessario, ineludibile, improcrastinabile, che chi ha voce pubblica dica: BASTA! Renzi a casa! Renzi si deve dimettere!

    Noi, che in fatto di ascolto pubblico contiamo pressoché nulla, lo facciamo immediatamente, e invitiamo tutti i lettori a dire “basta!” insieme a noi. 

    Ma è indispensabile che chi gode di ascolto vero e dunque conta nell’opinione pubblica (devo fare i nomi? Li sanno tutti), le dimissioni di Renzi le chieda con tutta la forza e il peso massimo della sua voce, facendo da catalizzatore a centinaia di migliaia, a milioni di cittadini, altrimenti le sue critiche rimarranno un elegante esercizio con cui salvarsi l’anima.


    http://temi.repubblica.it/micromega-online/renzi-dimissioni-chi-non-le-chiede-acconsente/

    Scoperte tre nuove molecole per i casi più difficili di artrite reumatoide.

    (Ap)

    Studiate dai ricercatori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e del Policlinico Gemelli insieme a colleghi del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Ridotti gli effetti collaterali. Sono già oggetto di brevetto e diventeranno un farmaco.


    Una ricerca interamente italiana ha scoperto tre nuove classi di molecole efficaci contro i casi più critici di artrite reumatoide: è stata portata avanti dalla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e del Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma in collaborazione con colleghi dell’Istituto di Chimica del Riconoscimento Molecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Icrm-Cnr) di Roma. Le tre molecole, già coperte da brevetto, diventeranno dei farmaci grazie all’azienda farmaceutica italiana Galsor Srl.Le terapie in uso per l’artriteL’Artrite Reumatoide è una patologia infiammatoria progressiva, di origine autoimmune, che interessa principalmente le articolazioni e coinvolge tutti gli organi e apparati. Circa il 40% dei pazienti condivide, come comune fattore genetico predisponente, una variante associata a una forma più grave di malattia e che risponde meno ai farmaci attualmente in uso che sono di due tipi: quelli capaci di rallentare l’infiammazione e quelli biologici che bloccano i mediatori più importanti dell’infiammazione. Tali trattamenti, bloccando in maniera non-specifica la risposta infiammatoria, provocano frequenti effetti collaterali. Inoltre i farmaci biologici attualmente disponibili hanno un elevato costo per il SSN. È proprio questa categoria di pazienti che ricaverebbe beneficio dalle nuove molecole messe a punto dal team dell’Università Cattolica-Policlinico Gemelli-Cnr.
    Nuove speranze per i pazienti, ma serve tempo.
    «Per selezionare i principi attivi di potenziali nuovi farmaci, abbiamo usato la tecnica dello screening virtuale, selezionando da una libreria virtuale, contenente centinaia di migliaia di composti, le molecole la cui forma tridimensionale si adatta bene al bersaglio farmacologico specifico, come in un puzzle», spiega la dottoressa Maria Cristina De Rosa, dell’Icrm-Cnr. «Il farmaco sarà vantaggioso per una parte consistente e facilmente identificabile dei pazienti, aumentando l’efficacia e riducendo gli effetti collaterali e i costi dell’approccio attuale», sottolinea il professor Gianfranco Ferraccioli, Ordinario di Reumatologia all’Università Cattolica e Direttore del Polo Urologia, Nefrologia e Specialità Mediche del Policlinico “A. Gemelli”.
    Per realizzazione e sperimentazione del farmaco serviranno alcuni anni: «È difficile in questa fase stabilire con esattezza il tempo necessario – dichiara l’Ad di Galsor Srl Sandro Soriano - ma abbiamo programmato le varie fasi di sviluppo in circa nove anni. A ogni modo, faremo di tutto per accorciare questi tempi quanto possibile».

    http://www.corriere.it/salute/reumatologia/15_dicembre_11/scoperte-tre-nuove-molecole-casi-piu-difficili-artrite-reumatoide-3a0628ea-9fee-11e5-9e42-3aa7b5e47d96.shtml

    Anche Pininfarina venduta agli stranieri: la società passa agli indiani di Mahindra. Il titolo sprofonda in Borsa (-68%).

    PININFARINA


    Lo storico marchio del design Pininfarina passa agli indiani di Mahindra & Mahindra per quasi 25 milioni di euro complessivi. Pincar, holding di controllo di Pininfarina, ha stipulato un accordo con il gruppo indiano per cui al closing il 76,063% del capitale passerà agli indiani per 1,10 euro per azione. Le azioni saranno liberate dal pegno delle banche al momento del closing. Successivamente gli investitori di Mahindra lanceranno una offerta pubblica totalitaria sulle azioni ordinarie Pininfarina, allo stesso prezzo della compravendita delle azioni detenute da Pincar. L'accordo prevede anche un aumento di capitale da 20 milioni in Pininfarina entro la fine del 2016.
    AGGIORNAMENTO DELLE 17.44 Chiusura in deciso calo per Pininfarina che ha perso in un'ora di negoziazione il 68,8% del proprio valore precipitando dai 4,2 euro di venerdì scorso agli attuali 1,31 euro. A pesare è il prezzo dell'offerta di Mahindra a 1,1 euro, verso cui il titolo si andrà ad allineare nei prossimi giorni.
    Successivamente al closing, si legge in una nota, le parti hanno concordato di confermare Paolo Pininfarina nel suo attuale incarico di presidente del consiglio di amministrazione. Contestualmente all'accordo di investimento, sono stati conclusi gli accordi di ristrutturazione dei debiti di Pininfarina e Pincar.
    Inoltre, il consiglio d'amministrazione di Pininfarina ha approvato un nuovo piano industriale e finanziario. "Il piano finanziario del gruppo Pininfarina - spiega il comunicato - offre la possibilità ad alcune banche di un pieno e definitivo pagamento a saldo e stralcio a un valore scontato, mentre ad altre banche l'opportunità di dilazionare il loro credito attraverso un nuovo piano di ammortamento dall'anno 2015 fino al 2025 e i loro crediti assicurati da una garanzia corporate emessa dall'investitore. L'indebitamento finanziario delle banche creditrici sarà ripagato dal 2017, essendo il 2015 e 2016 due anni di grazia. Il tasso di interesse rimarrà invariato allo 0,25% su base annua. Il piano finanziario prevede un solo covenant finanziario, da verificarsi a partire dal 31 ,arzo 2018, consistente in un valore minimo di patrimonio netto consolidato di 30 milioni di euro. Il piano finanziario prevede un incremento del capitale sociale di almeno 20 milioni di euro e i proventi della liquidazione dei crediti finanziari delle banche che opteranno per il pagamento a saldo e stralcio".
    Pininfarina e Mahindra & Mahindra sottoscriveranno un contratto di licenza di marchio, efficace dal closing dell'operazione - previsto nel primo semestre del 2016 - concernente l'utilizzo dei marchi di proprietà delle società del gruppo Pininfarina per i prodotti automotive del gruppo Mahindra. L'operazione, si precisa in chiusura di comunicato, è stata approvata da tutti i soci e società della famiglia Pininfarina, dalla catena di controllo di Pincar e dal consiglio di amministrazione e collegio sindacale di Pininfarina.

    lunedì 14 dicembre 2015

    Delitto di Garlasco, Cassazione conferma la condanna a 16 anni. Alberto Stasi si è consegnato in carcere.

    Delitto di Garlasco, Cassazione conferma la condanna a 16 anni. Alberto Stasi si è consegnato in carcere


    La madre di Chiara: "Giustizia è stata fatta". Il legale dell'ex fidanzato ha definito la decisione della V Sezione Penale "una pena che non sta né in cielo né in terra". Respinta la richiesta di 30 anni di carcere con l'aggravante della crudeltà.

    La Cassazione ha confermato in via definitiva la condanna a 16 anni per l’omicidio di Chiara Poggi, mettendo la parola fine a una vicenda giudiziaria che dura ormai da otto anni. 
    Alberto Stasi si è consegnato in carcere poco dopo la decisione della V Sezione Penale che ha respinto sia il ricorso di Alberto Stasi che quello della procura generale di Milano che chiedeva per Stasi una condanna a 30 anni, includendo l’aggravante della crudeltà dell’omicidio. Durante le indagini preliminari Stasi non è mai stato posto in custodia cautelare, motivo per cui ora dovrà scontare per intero la pena.
    “Sono emozionata” ha commentato Rita Poggi, la madre di Chiara, “dopo le parole del procuratore eravamo un po’ pessimisti, ma giustizia è stata fatta“. Anche se, ha aggiunto la signora Poggi, “non bisogna mai dimenticare che questa è una tragedia che ha colpito due famiglie”. “Otto anni per avere una sentenza definitiva sono tanti”, ha sottolineato la madre di Chiara, “ma in tutto questo tempo non abbiamo mai pensato di mollare e di rinunciare a chiedere la verità“. “Forse questo sarà un Natale diverso, dopo questa sentenza proviamo sollievo” ha concluso.
    La richiesta del procuratore generale Oscar Cedrangolo di annullamento della sentenza, arrivata venerdì, aveva spiazzato tutti, facendo riemergere la paura di un nuovo capitolo in un processo senza fine. Il legale di Stasi, Fabio Garda, che ora dovrà comunicare al suo assistito la decisione della Corte Suprema, ha definito la condanna “una cosa allucinante”. “Quanto detto ieri dal pg è la realtà dei fatti”, ha aggiunto l’avvocato, “è una pena che non sta né in cielo né in terra, come ha detto il pg, se uno ha fatto una cosa del genere deve avere l’ergastolo”. “Come si fa a mettere in carcere una persona quando c’è una sentenza che è completamente illogica”, ha concluso.
    Dopo 8 anni, la vicenda giudiziaria che sembrava infinita è finita: un anno fa dopo due assoluzioni in primo e secondo grado, la condanna a 16 anni, arrivata dopo 7 anni di processo. Il 24 novembre il sostituto procuratore genarale, Laura Barbaini, aveva chiesto 30 anni includendo l’aggravante della crudeltà, esclusa nella sentenza degli ermellini, che avevano applicato lo sconto per il rito abbreviato, pari a un terzo della pena. Stasi era stato anche condannato a versare 350 mila euro di risarcimento a ciascuno dei genitori di Chiara e 300 mila euro al fratello Marco, in totale un milione di euro.
    Era il 13 agosto 2007 quando Alberto Stasi, studente della Bocconi, chiamò il 118 per denunciare la morte della fidanzata Chiara Poggi, 26 anni, massacrata nella villetta di Garlasco, dove la ragazza viveva con la famiglia. “Un’ambulanza in via Giovanni Pascoli a Garlasco”, “credo abbiano ucciso una persona. Ma forse è viva… non lo so”, disse all’operatore. Quando i soccorsi arrivarono il cadavere era riverso sulle scale della cantina con il cranio fracassato.
    Due giorni dopo il funerale, il 20 agosto, Alberto Stasi riceve un avviso di garanzia: il reato contestato è quello di omicidio volontario. Poi la perquisizione della casa, i sequestri delle sue tre auto e due biciclette, il cambio degli avvocati e il ritrovamento di tracce del Dna compatibile con quello di Chiara che portano alla firma del fermo per omicidio volontario da parte del pm Rosa Muscio, non convalidato dal gip, Giulia Pravon, in mancanza di prove.
    Infine gli appelli, che sembravano non finire più. L’assoluzione in primo e secondo grado: nel 2009 per “mancanza di prove”, confermata nel 2011, annullata nel 2013 e rovesciata il 17 dicembre 2014 con la condanna a 16 anni, confermata, infine oggi.