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mercoledì 10 agosto 2016

Buzzi e Boschi, telefonate misteriose. - Ivan Cimmarusti

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Prima della cena elettorale del Pd contatti tra il ministro e il ras di Mafia Capitale "Le abbiamo dato una lettera per Matteo". Alla fondazione di Renzi 15mila euro.

«Abbiamo consegnato alla Boschi la lettera per Matteo». Sono le 22:05 del 7 novembre 2014, giorno della cena elettorale del presidente del Consiglio Matteo Renzi. Il ras delle coop di Mafia Capitale, Salvatore Buzzi, ha partecipato a quella raccolta fondi. Ne parla con una sua amica e racconta dei presunti rapporti che avrebbe avuto con il ministro per le riforme costituzionali e per i rapporti con il Parlamento. La telefonata è contenuta nell’incartamento giudiziario della Procura della Repubblica di Roma, depositato al maxi processo contro la presunta cupola mafiosa capitolina.

Gli atti, dunque, svelano retroscena finora inediti. Tutti legati a quella cena di novembre del 2014 per finanziare il Partito democratico e Matteo Renzi. Un particolare di cui parla anche con Michele Nacamulli, esponente romano del Pd: «Se becchi Renzi gli ricordi che abbiamo finanziato la Leopolda e oggi gli abbiamo dato 15mila euro. Potevamo dirlo alla Boschi cazzo». «Ok», risponde Nacamulli, «la Boschi è qui». C’è da dire che, stando a fonti difensive, i tabulati telefonici nasconderebbero anche altre conversazioni avute tra il ministro Boschi e Buzzi. Conversazioni che non hanno alcun profilo penale ma che si riferiscono a un periodo precedente alla cena di novembre. Tra settembre e ottobre, infatti, Buzzi sembra dialogare col ministro per avere informazioni sulla cena. È pronto a partecipare versando un proprio contributo. D’altronde l’imprenditore era stato per anni il fiore all’occhiello delle coop vicine alla vecchia sinistra di Roma. E con l’arrivo di Renzi intendeva riposizionarsi politicamente e, magari, fare un salto di qualità.

L’obiettivo era di arrivare a incassare appalti sempre più ampi per ingrassare le casse delle cooperative legate a doppio filo al presunto boss, Massimo Carminati. Nei suoi interrogatori, infatti, Buzzi ha precisato che finanziando le campagne elettorali «ti fai un’assicurazione sulla vita, sul futuro». «Ma perché - ha aggiunto - me chiama Renzi a cena, 15mila euro a Renzi (...) ci hanno chiamato i finanziatori». Dai tabulati telefonici, però, risulterebbero suoi contatti direttamente con la Boschi. Un’ennesima grana per il ministro, dopo lo scandalo della Banca Etruria. Stando a quanto emerso, alla cena di autofinanziamento del Partito democratico Buzzi avrebbe pagato la somma pattuita versando il denaro che sarebbe finito nelle casse della Fondazione Open, gestita dall’intimo amico del premier, l’imprenditore Marco Carrai, recentemente tra i papabili a gestire la cybersecurity italiana. D’altronde, nella stessa Fondazione Open risulta esserci la stessa Boschi. 
Le intercettazioni del 6 novembre 2014 sull’utenza di Buzzi confermano il pagamento per la cena elettorale. Al telefono ci sono il ras delle coop e il suo stretto collaboratore Carlo Guarany. I due discutono della cena e decidono di informarsi meglio con Lionello Cosentino, ex segretario del Pd di Roma che a dicembre 2014 è stato commissariato da Matteo Orfini. I giorni successivi alla cena Buzzi continua a discutere della candidatura di Renzi con l’allora direttore generale di Ama, Giovanni Fiscon. Racconta di aver fatto due versamenti (uno da 15mila euro per la cena e un altro da 5mila per la Leopolda).

martedì 15 dicembre 2015

Leopolda 6, Matteo Renzi cerca cento capilista. - Marco Damilano

Leopolda 6, Matteo Renzi cerca cento capilista

Finora dalle kermesse di Firenze erano usciti i fedelissimi destinati a ministeri e aziende di Stato. Quest’anno nei piani c’è la selezione dei futuri deputati. Via i vecchi parlamentari, ecco il nuovo Pd sognato dal premier.


Obiettivo: individuare i candidati, fin da ora. 
Cento nomi bloccati, i capilista. 
E altri 240 da far eleggere con le preferenze. 
Non sono i nomi che correranno alle elezioni amministrative della primavera 2016. 
Nei piani di Matteo Renzi quel voto sarà l’ultimo giro di valzer per il vecchio Pd. 
L’ultima fermata. 
Il capolinea.

Alla sesta edizione dell’ex stazione Leopolda a Firenze, il luogo dove ogni anno si riuniscono gli stati generali del renzismo, l’unico partito veramente riconosciuto dal premier, la partita è già spostata in avanti. Verso le elezioni politiche: nel 2018, quando arriverà la scadenza naturale della legislatura, o più probabilmente prima, tra tredici-quindici mesi. È per quell’appuntamento che deve essere pronto il nuovo Pd. Da cercare alla Leopolda.

Con un’avvertenza: in tutte le edizioni precedenti della kermesse gli emergenti, i personaggi in ascesa raramente sono tornati in posizione di primo piano nell’anno successivo. I leopoldologi, gli studiosi dei micro-spostamenti nella nomenclatura renziana, simili a quelli che in tempi di guerra fredda scrutavano il Cremlino per individuare promossi e sommersi, elencano che nel 2010, prima edizione, anno zero del renzismo, concluse i lavori Pippo Civati, era il gemello di Renzi, ora milita in un altro partito.

Nel 2011 nell’ultima giornata parlò l’ex direttore di Canale 5 Giorgio Gori, qualcuno incautamente osò definirlo il guru di Renzi, ora fa il sindaco di Bergamo. Nel 2012 spopolarono i deputati Andrea Sarubbi e Mario Adinolfi, ma poi non furono neppure ricandidati. Nel 2013 Graziano Delrio affiancò Matteo al tavolo della presidenza. Un sodalizio finito: oggi Delrio è ministro delle Infrastrutture, lontano da Palazzo Chigi. Nel 2014, furono lanciati quattro giovani deputati: Edoardo Fanucci, Lorenza Bonaccorsi, Luigi Famiglietti, Silvia Fregolent. Chi li ha più visti? Anche Andrea Guerra, l’ex amministratore delegato di Luxottica, super-applaudito alla Leopolda, ha avuto vita breve a Palazzo Chigi. Ora si è accasato a Eataly con Oscar Farinetti.

C’era una volta la Leopolda, il regno di Camelot della rottamazione. C’erano una volta Alessandro Baricco e Fausto Brizzi e Pif, gli intellettuali organici, i profeti del nuovo corso. L’operazione è stata compiuta, l’ex sindaco di Firenze ha conquistato il trono, Matteo il giovane regna e governa. E l’appuntamento annuale alla Leopolda cambia pelle, in vista delle elezioni politiche, quando saranno. Nella sesta edizione nessun parlamentare sarà chiamato a intervenire sul palco: brutto segnale per chi spera di essere riconfermato nel prossimo Parlamento.

Via i tavoli di lavoro in cui negli anni precedenti si erano accalcati ministri e semplici militanti, sono stati invitati gli esponenti della società civile che piace al premier, i campioni, i vincenti: Samantha Cristoforetti, Flavia Pennetta, Roberta Vinci, Federica Pellegrini. La consacrazione di un partito di numeri uno. Il contrario di quello che nelle grandi città e nei piccoli comuni si spacca sulle primarie e sulle candidature, il Pd che a Roma, Milano, Napoli non riesce a trovare tra i suoi iscritti un personaggio degno di essere proposto all’elettorato come sindaco. Vano sperare che dalla Leopolda possa arrivare un’indicazione. Non è quella la sfida elettorale che interessa al premier.

La prima regola del renzismo è che tutto può ruotare, tranne il leader. Sempre lo stesso anche il comitato direttivo della fondazione Big Bang che organizza l’evento e che gestisce i finanziamenti privati: presidente l’avvocato Alberto Bianchi, da un anno e mezzo nel cda dell’Enel. E poi ci sono Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Marco Carrai. La Trinità che affianca Renzi a Palazzo Chigi e nelle relazioni con il mondo esterno. Il sancta sanctorum di Matteo che incarna la seconda regola implicita del renzismo realizzato. Tutto al governo, niente al partito.

Dopo due anni di leadership di Renzi il Pd e la Leopolda continuano a essere pianeti che non si incrociano mai. La classe dirigente uscita in cinque anni dall’ex stazione fiorentina ha conquistato ministeri, direzioni generali, consigli di amministrazione, enti pubblici, collegi sindacali: Fabrizio Landi (Finmeccanica), Marco Seracini (Eni), Federico Lovadina (Ferrovie), Simonetta Giordani (Ferrovie), Guelfo Guelfi (Rai).

Più in alto di tutti, quest’anno, è salito Antonio Campo Dall’Orto, leopoldino da sempre, direttore generale della Rai da quattro mesi, in attesa di diventare amministratore delegato di viale Mazzini con l’approvazione definitiva della nuova legge. Con lui nella ex stazione ci sarà la regista Simona Ercolani, Renzi l’avrebbe voluta presidente della Rai, ora è candidata alla direzione di Raiuno. Nell’attesa delle nomine le è stata affidata la direzione creativa della tre-giorni alla Leopolda: luci, inquadrature e tempi di intervento.

Un’occupazione sistematica del potere. Con un’assenza importante: gli incarichi di partito. Forse sono considerati fonte infinita di guai e di rogne da sbrigare, senza nessuna gloria. Tra i leopoldini doc a presidiare il Pd sono rimasti il vice-segretario Lorenzo Guerini e il tesoriere Francesco Bonifazi: ruoli strategici ma più in difesa che in attacco. E i renziani della prima ora rimasti nel partito si sentono snobbati. Dopo qualche ripensamento il deputato Matteo Richetti sarà presente alla Leopolda, ma ha denunciato in pubblico la fine della rottamazione. Molti altri, invece, hanno deciso di restare a casa. Uno sforzo inutile andare a Firenze in cerca di una benedizione per le scalate ai posti di comando del Pd. E tutti quelli che hanno provato a esportare nel Pd a livello locale il modello Leopolda hanno fallito.

La Fonderia delle idee a Napoli, organizzata da Francesco Nicodemo e Pina Picierno, e la Fabbrica del sottosegretario Davide Faraone a Palermo sono iniziative consumate in un fine settimana. Nicodemo è stato assoldato a Palazzo Chigi per la comunicazione internet. E il sito di Faraone siciliaduepuntozero.it, con la scritta "Il futuro è già presente", è fermo al 28 febbraio 2015, come una lapide. L’ultimo dirigente del Pd uscito dalla Leopolda è il segretario cittadino di Milano Pietro Bussolati, renziano da tempi non sospetti, ma nella vicenda delle primarie sul candidato sindaco, Giuseppe Sala, Francesca Balzani o Pierfrancesco Majorino, non l’hanno coinvolto granché.

Eppure gli assenti hanno torto. È dall’edizione 2015 della stazione Leopolda che arriverà il Pd di domani. Le elezioni amministrative di primavera del prossimo anno nei piani di Renzi sono un ostacolo da superare senza troppi danni, sono l’ultimo voto con il vecchio Pd. L’ultima corsa per notabili, apparati, signori della guerra reduci da mille battaglie. Poi si cambia. Alla fine del 2016, nella tabella di marcia del premier, è indicato il referendum confermativo sulla nuova Costituzione che elimina il bicameralismo e il Senato, così come l’abbiamo conosciuto finora. E poi, primi mesi del 2017, le probabili elezioni, in anticipo di un anno rispetto alla scadenza naturale della legislatura. Con l’Italicum, la nuova legge elettorale, il partito che vince conquisterà 340 seggi alla Camera.

Cento saranno i nomi bloccati, i capilista, tutti gli altri dovranno correre per prendere i voti degli elettori con le preferenze. Ecco perché il Pd e il partito della Leopolda, finora rette parallele, sono inevitabilmente destinati a incontrarsi.

I prossimi deputati renziani saranno scelti qui, nella platea di Firenze più che nelle agonizzanti federazioni di partito, come si chiamavano un tempo. I cacciatori di teste renziani sono già all’opera, guidati dal sottosegretario Luca Lotti. Bisogna individuare i nomi dei candidati, fin da ora. Collegio per collegio. I fedelissimi e i nomi da vetrina tra i capilista. I più competitivi saranno inseriti nella seconda parte delle liste dove si devono prendere i voti, le preferenze.

Sarà quello l’esordio del partito renziano che da sempre gioca in casa alla Leopolda. Davanti agli occhi del Capitano Renzi. 
E all’unica che davvero ha i titoli per dirigerlo: Maria Elena Boschi. 
Oggi e soprattutto domani, quando Matteo penserà a lasciare il doppio incarico segretario-premier. 
E il Pd e la Leopolda si riuniranno in un solo partito. 
Guidato da lei.

Leopolda tra disastri e attacchi al Fatto: Renzi non ne indovina una. - Andrea Scanzi

Povero Renzi. Era difficile immaginare un disastro più fragoroso di quello che ha caratterizzato la sesta Leopolda
Al Pacioccone Mannaro non ne è andata bene una. Il caso “salvabanche”, drammaticamente sottovalutato e sempre più inquietante, ora dopo ora, anche per gli enormi conflitti di interesse che lo caratterizzano. 
La decisione di scappare da un incontro all’Università, terrorizzato dalle contestazioni. L’imposizione di una Leopolda blindatissima, con i risparmiatori truffati tenuti a debita distanza come lebbrosi per non sporcare la festa (?), e tutto questo dopo il flop dell’operazione gazebo “Pd coraggio” di una settimana prima.
La Leopolda doveva essere il rilancio della propaganda renziana, tra supercazzole jovanottiane e “visioni” ottimistiche da Smemoranda, ma tutti sono scappati dall’adunanza. Anzitutto i campioni, quelli che dovevano raccontare le “imprese”: una defezione dopo l’altra, dalla Pellegrini alla Cristoforetti. Renzi voleva collezionare selfie con i suoi idoli, ma non ha potuto fare altro che scattarsi qualche foto con i Faraone e Carbone.
La madrina della Leopolda è sempre stata la Boschi, che è però arrivata all’appuntamento crivellata dalle critiche e depotenziata dall’enorme scandalo Etruria. Più di 5mila risparmiatori aretini – la sua città – sono stati rovinati dalla banca di cui il papà (multato 144mila euro per mancati controlli e svariate omissioni) era vicepresidente, il ministro piccola azionista e il fratello Emanuele curava il settore delle posizioni a sofferenza e a incaglio: “un settore”, racconta Davide Vecchi sul Fatto, “che ha bruciato 185 milioni solo di fondi concessi a ex amministratori e sindaci della banca e mai restituiti”.
Ad Arezzo, fino a pochi mesi fa la città più renziana d’Italia, i Boschi non si fanno più vedere. La Boschi, del resto, è anche responsabile dell’harakiri-Bracciali di giugno, un ameno ragazzotto imposto al partito come candidato sindaco che – in un delirio di onnipotenza renziana – doveva vincere facile e “governare 10 anni”. Come no. Infatti ha perso al secondo turno e ancora ad Arezzo tutti ridono. Anche Bracciali è scomparso, ma a dire il vero era scomparso anche quando c’era. E’ di Arezzo pure Marco Donati, uno che su Twitter si firma “marcodonats” (sì, con la “s”), deputato Pd più renziano di Renzi che il 22 novembre – il giorno del decreto salvabanche – scriveva entusiasta su Facebook: “Il provvedimento (..) rappresenta un segnale positivo per il territorio e in particolare per il personale, i correntisti e la clientela degli istituti di credito tra i quali quello aretino”. Un genio vero, che esemplifica una volta di più quel mix di incompetenza, pressappochismo e arroganza che caratterizza quasi sempre questa “nuova classe dirigente”renziana, composta perlopiù dal peggio della generazione nata nei Settanta e inizio Ottanta.
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In questo disastro totale, Renzi è riuscito a peggiorare tutto con la trovata del “vota il titolo peggiore”. Un’idea così scema, sgradevole e controproducente che persino Claudio Velardi, notoriamente renzianissimo, ha riassunto così: “Matteuccio quel gioco è fesso e un po’ di regime”. Una frase che, peraltro, reggerebbe forse anche se si togliesse la parte “quel gioco”.
Lo stesso Ferruccio De Bortoli ha scritto: “Già che c’è, la prossima volta ce lo dica lui che titoli dobbiamo fare”. Ma la risposta si sa già: Renzi ama l’ottimismo, quindi adora titoli come “Voglio tutto” (Panorama), “Renzi ha le palle” (Il Giornale), “Quello strano fluido della Leopolda così il sindaco diventa fidanzato d’Italia” (Repubblica). A Renzi piace il giornalismo stile Pravda, e in questo può stare tranquillo: per un Saviano che ogni tanto si arrabbia, l’intellighenzia de sinistra resta bella zitta e prona. Moretti, ci sei? Benigni, ci sei?
Quello di Renzi alla Leopolda è un vero e proprio Editto Leopoldino, con il Fatto Quotidiano – chiamato “fango quotidiano” da quei quattro o cinque leoni da tastiera col poster in camera della Picierno – al primo posto. E qui, va detto, i renziani dimostrano se non altro una dote vera: hanno un pessimo gusto per gli idoli, ma sui nemici hanno gusti sopraffini. Al di là della conferma che Renzi è un personaggio oltremodo caricaturale, con un’idea di libertà di stampa paragonabile a quella che ha Hannibal Lecter dei vegani, la trovata – patetica e puerile – del “dagli all’untore Fatto Quotidiano” è l’ennesimo autogol. Per questa serie di motivi.
1) Permette a Grillo, e ai M5S, di rivalutare quasi la rubrica “Giornalista del giorno”, che in confronto pare una carezza affettuosa alla stampa italiana.
2) Regala una pubblicità smisurata a quelle stesse testate, e a quegli stessi giornalisti, che Renzi vorrebbe silenziare e che – tramite Sensi – evita come la peste in tivù.
3) Dona a quegli stessi giornalisti odiati un discreto godimento, perché quando si sta sulle palle a certa gente vuol dire che si è sulla strada giusta. Anzi giustissima.
4) Rafforza il paragone “renzismo = berlusconismo”, alimentando con ciò anche il fronte antirenziano, proprio come Berlusconi rinsaldava le fila dei suoi nemici quando insultava i Luttazzi, i Santoro e i Biagi. Fa cioè un ulteriore favore al “nemico”.
5) Mostra il vero volto di Renzi e renzismo: all’apparenza garbato, di fatto allegramente illiberale.
In ultima istanza, l’attacco di Renzi alla stampa sgradita non è solo irricevibile, ma è pure un suicidio politico. E anche questo non stupisce: Renzi è tanto arrogante quanto politicamente fragilissimo. E questo lo rende persino più pericoloso. Non è neanche un uomo solo al comando, ma un bimbominkia lanciato a bomba contro il disastro. Suo e del paese che – senza che nessuno gliel’abbia chiesto – governa, facendo disinvoltamente quel che gli gira e piace. Nella compiacenza pressoché generale dei media.

Renzi dimissioni! Chi non le chiede acconsente. - Paolo Flores d'Arcais




Non era “Scherzi a parte”. 
Era proprio “la Leopolda”, il marchio di fabbrica, il brand, la maison, insomma il format urbi et orbi con cui Renzi ogni anno magnifica se stesso in una sbrodola corriva di italico conformismo, cortigiani baci della pantofola e Te Deum alla finanza. 
Poiché però quest’anno il giornalismo unico e prono, che tanto piace al premier, oltre alla tradizionale eccezione di “Il Fatto Quotidiano” ha registrato su più testate spazi prioritari dedicati a quella pinzillacchera dei risparmiatori truffati e rovinati (uno già indotto al suicidio), anziché la staffetta d’ordinanza di osanna e peana, Renzi ha ritenuto improcrastinabile colpirne uno per educarne cento con la gogna del simpatico gioco “i dieci titoli più inappropriati”: per i vincitori non mancheranno ricchi premi e cotillon, future poltrone, stiano pure sereni.
Ora, quando Renzi è in famiglia per la tombolata o in intimità con i/le sodali del suo giglio magico per il mercante in fiera o monopoli, padronissimo di sostituirvi giochi che alla combriccola paiano più sganascianti. Ma nella vita pubblica, l’osceno spettacolo di Firenze si chiama aggressione alla libertà di stampa, sputi e schiaffi contro l’articolo 21 della Costituzione, e un premier che in tali pratiche si ingaglioffisca deve andarsene subito. Sulla libertà di stampa, come sugli altri diritti fondamentali della Costituzione, non è lecito scherzare. Perché per minimizzare la gravità di quanto operato dal premier contro la libertà di stampa si è costretti a istituire paragoni con la Turchia di Erdogan, dove i giornalisti finiscono in galera, e la Russia di Putin, dove finiscono anche ammazzati, e allora effettivamente sì, si può sostenere che in fondo quella di Renzi è una marachella, birichinata, birbanteria, ragazzata.

Solo che Renzi non è un ragazzino in fregola di bullismo, è il capo del governo, e lo standard con cui misurarlo non possono essere Erdogan e Putin. È immaginabile un Obama, una Merkel, un Hollande, un Cameron che si sbellicano a far insolentire dagli elettori un giornale che li critica? E per scendere molto più in basso, cosa sarebbe successo se fosse stato Berlusconi a sollazzarsi con il giochino dei “titoli inappropriati”? O addirittura: come finirebbero le chance della carriera politica di Marine Le Pen, se si permettesse?
E allora, perché si continua a tollerare Renzi al governo, e la Boschi, e Alfano, e compagnia cantando? Davvero hanno passato il segno. 
Ecco perché è necessario, ineludibile, improcrastinabile, che chi ha voce pubblica dica: BASTA! Renzi a casa! Renzi si deve dimettere!

Noi, che in fatto di ascolto pubblico contiamo pressoché nulla, lo facciamo immediatamente, e invitiamo tutti i lettori a dire “basta!” insieme a noi. 

Ma è indispensabile che chi gode di ascolto vero e dunque conta nell’opinione pubblica (devo fare i nomi? Li sanno tutti), le dimissioni di Renzi le chieda con tutta la forza e il peso massimo della sua voce, facendo da catalizzatore a centinaia di migliaia, a milioni di cittadini, altrimenti le sue critiche rimarranno un elegante esercizio con cui salvarsi l’anima.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/renzi-dimissioni-chi-non-le-chiede-acconsente/

domenica 26 ottobre 2014

Ecco chi c'è dietro la Leopolda: raccolti quasi 2 milioni di euro.



Manca una settimana alla prossima Leopolda, la convention dei renziani organizzata dalla Fondazione Open e che vede in prima linea Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai.
Ma da dove arrivano i 300mila euro necessari a mettere in piedi la manifestazione? Come spiega La Stampa, la fondazione ha già raccolto 2 milioni di euro che provengono soprattutto da alcuni personaggi che gravitano attorno al premier. Primo finanziatore è Davide Serra, che avrebbe tirato fuori 175 mila euro, seguito da Guido Ghisolfi - proprietario dell’azienda chimica Mossi e Ghisolfi -  che avrebbero già sborsato 120 mila euro. Ci sono poi una serie di aziende, come quella alimentare Gf Group (50 mila euro), quella immobiliare Blau Meer srl o Simon Fiduciaria nel cui consiglio c'è Giorgio Gori (20mila euro a testa). 60mila euro arrivano poi dall'imprenditore di Isvafim Alfredo Romeo, mentre il banchiere d'affari Guido Roberto Vitale ha donato 5 mila euro.
E poi ci sono i grandi nomi. Come quello di Fabrizio Landi (10mila euro), fresco di nomina in Finmeccanica e considerato tra i pionieri del business biomedico in Italia, oltre a uno dei nomi forti che avrebbero aiutato l'ascesa di Renzi. O come il finanziere Carlo Micheli o l'azienda di telefonia Telit, Paolo Fresco e la signora Marie Edmée Jacquelin, Renato Giallombardo (uno degli esperti italiani in fusioni, acquisizioni, operazioni di private equity), Jacopo Mazzei fino al manager tv Antonio Campo dall’Orto.