mercoledì 14 febbraio 2018

Castellaneta, una città nascosta nelle viscere del colle Archinto. - Angelo Loreto

Castellaneta, una città nascosta nelle viscere del colle Archinto

Di origini antichissime.

CASTELLANETA - C’è un interesse crescente attorno a un aspetto ai più sconosciuti, non solo per la sua posizione logistica, ma soprattutto perché finora nessuno, prima dell’arrivo dell’associazione Amici delle Gravine, aveva mai provato a riscoprirlo. È la Castellaneta sotterranea, l’insieme di grotte, ipogei, camminamenti, fogge e cisterne per il quale appassionati, studiosi, studenti di archeologia e semplici curiosi stanno contattando e partecipando alle iniziative degli Amici delle Gravine che si sono già fatto un nome, in Puglia e non solo, per l’organizzazione di escursioni negli affascinanti canyon pugliesi. E che ora puntano alla valorizzazione prima e alla promozione poi della città che si nasconde nelle viscere del colle Archinto.
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È infatti sotto l’abitato del centro storico che sorge una città dalle origini antichissime, sepolta nel mistero di una realtà che da millenni giace nel più assoluto silenzio. «Da circa due anni – raccontano da Amici delle Gravine - quelle leggende che sin da piccoli ci parlavano di un centro storico basato su una fitta rete di camminamenti sotterranei, hanno iniziato a prendere vita, quella città definita morta oggi sta tornando alla luce. Un sottosuolo prevalentemente tufaceo, cosparso quasi interamente di sotterranei naturali, in alcuni tratti fino al margine della gravina. Tante le domande che ci poniamo e che ci pongono ogni qualvolta entriamo all’interno di questi angoli di vita sotterranea. Camminamenti, cisterne per l’acqua, fogge per la conservazione del grano e derrate, antichi trappeti con le grandi macine e poi magazzini e neviere».
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Tra i più particolari oggi resi fruibili, l’esempio degli ambienti ipogei del Palazzo Viscardi, il primo caratterizzato da una grande cisterna per la raccolta delle acque piovane e varie fogge dove su una in particolare, a calce, restano ancora visibili tre croci. Scendendo nel secondo livello attraverso un scalinata scavata nel tufo, si raggiungono due ambienti, utilizzati come deposito, ed in fine il terzo livello, sicuramente il più particolare, dal quale si accede a una cava per l’estrazione del tufo. Insomma, il centro storico di Castellaneta presenta una struttura urbanistica ben organizzata con strade, scalinate, case popolari e padronali, chiese e monasteri. «Ma è dietro una vecchia porta chiusa da chissà quanto tempo – concludono dall’associazione - che si nasconde la città sotterranea: luce alla mano, si inizia a scende nel ventre del centro storico. Una meraviglia, subito risalta un’architettura “rupestre”, che ricorda quella dei villaggi ancora abitati della Cappadocia in Turchia, una stratificazione millenaria».
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Ecco perché in Sicilia l’acqua delle dighe finisce in mare! - Mario Pagliaro

Ecco perché in Sicilia l’acqua delle dighe finisce in mare!

In questo articolo illustriamo il perché la Sicilia, pur avendo a disposizione 41 dighe, si ritrova senz’acqua. Tutto quello che si dovrebbe fare per scongiurare l’emergenza idrica. L’integrazione tra dighe e produzione di energia ‘pulita’. Come i Consorzi di Bonifica potrebbero abbattere i costi evitando di tartassare gli agricoltori con canoni idrici esosi. 
La questione dei dissalatori.  

La Sicilia vive una seria crisi idrica dovuta alla prolungata carenza di piogge e a storici ritardi infrastrutturali e gestionali. Che adesso, però, vanno colmati rapidamente e bene con una nuova programmazione regionale: tanto lungimirante quanto concretamente efficace.

Anno 2016: si svuota la grande diga Rosamarina di Caccamo, circa 100 milioni di metri cubi di capienza. Vengono progressivamente gettati a mare 40 milioni di metri cubi in linea ‘con una prescrizione ministeriale’ che la Regione esegue proponendosi di identificare “i punti di percolamento anomali” per poi “inviare i dati al Ministero e concordare il percorso da intraprendere”.

Quaranta milioni di metri cubi d’acqua sono 40 miliardi di litri: pari a 210 giorni di consumi domestici dei residenti della città metropolitana di Palermo, 1 milione e 266mila persone nel 2016, assumendo un consumo medio domestico pari a 150 litri al giorno per abitante (Rapporto Ecosistema Urbano 2017, Legambiente)

Lo stesso, nella splendida diga ad arco di gravità di Caccamo alimentata in gran parte dal fiume San Leonardo, era accaduto nel Marzo 2012 “per evitare esondazioni del fiume San Leonardo a seguito del nubifragio”. E poi ancora nel Marzo 2013 e nel Marzo 2015.

Idem in provincia di Caltanissetta lo scorso Novembre: le forti piogge portano il livello dell’acqua accumulata nelle dighe Comunelli (tra Gela e Butera) e Disueri al livello di guardia per cui “per motivi di sicurezza sono state avviate manovre di alleggerimento mediante lo scarico a mare dell’acqua in eccesso”.

Quale sia il motivo per cui in Sicilia si svuotino le dighe buttando l’acqua a mare lo spiegava nel 2002 l’allora presidente della Regione siciliana audito dalle Commissioni Agricoltura e Territorio del Senato riunite per un’indagine conoscitiva sulla situazione dell’approvvigionamento idrico con particolare riferimento agli usi agricoli delle acque e all’emergenza idrica nei centri urbani in Sicilia.

In Sicilia, spiegava il presidente della Regione, per il 60 per cento degli invasi non è mai stato realizzato il collaudo tecnico – ovvero un insieme di prove tecniche condotte da ingegneri specializzati attraverso specifiche prove di carico. “Non è questa la sede”, tagliava corto, “per cercare di risalire alle responsabilità, sempre difficili da ricostruire in una vicenda tanto complessa… Senza collaudi, la capacità di invasamento di queste strutture diminuisce almeno del 30 per cento, perché il Servizio nazionale dighe non autorizza l’invasamento secondo la capacità massima”.

“I collaudi”, aggiungeva, “purtroppo non si fanno. Lo so che è difficile crederlo, ma per il collaudo delle dighe la legge prevede lo svuotamento degli invasi, prima di effettuare le prove di carico. Quest’anno alcuni invasi risultano vuoti, per cui qualche collaudo probabilmente si farà”.

Inoltre, spiegava ancora l’allora presidente della Regione più grande d’Italia, la capacità degli invasi siciliani è ulteriormente ridotta a causa del progressive accumulo sul fondale dei detriti trasportati dalle acque piovane attraverso i canali di scolo:

“L’accumulo di detriti riduce almeno del 25 per cento la capacità complessiva degli invasi siciliani”.

E infatti, il maggiore quotidiano regionale riportava lo scorso Novembre come la diga Comunelli risultasse “da anni interrata per il 90% della sua capacità e l’arrivo delle piene potrebbe portare l’acqua a superare lo sbarramento artificiale, tracimando a valle in maniera incontrollata. Da qui la decisione di aprire sin da ora gli scarichi, come si fa da tempo. Stessa decisione per la diga Disueri che necessiterebbe di interventi di manutenzione e di consolidamento della struttura portante che presenta lesioni pericolose”.

Le dighe in Sicilia – La Sicilia ospita un numero sorprendente di dighe in esercizio – ben 41 – la cui capacità sfiora gli 1,13 miliardi di metri cubi (fonte: F. Greco, Servizio 4 “Gestione Infrastrutture per le Acque”, Dipartimento dell’Acqua e dei Rifiuti, Regione Siciliana, Situazione attuale e prospettive di intervento per la manutenzione delle dighe in Sicilia, 2017).

Con l’eccezione della provincial di Messina, tutte le province della Sicilia ospitano dighe e relativi bacini artificiali. Molte, ad esempio l’Ancipa a Troina e il lago Arancio a Sambuca, sono anche centrali idroelettriche.

Solo il 51% del volume complessivo di queste acque (578 milioni di metri cubi) è gestito direttamente dalla Regione; le altre, da società private che le hanno avute in concessione dalla Regione. Il 28% delle acque gestite direttamente dalla Regione – ben 161 milioni di metri cubi – però non è autorizzato.

Ciò significa che la Regione nelle dighe che gestisce direttamente può raccogliere un massimo di 417 milioni di metri cubi d’acqua. Ed ecco spiegato perché è costretta ad aprire le paratie e disperdere l’acqua, nel caso in cui l’acqua in una certa diga superi il volume autorizzato.

A prescrivere la massima capienza di una diga in Sicilia come nel resto d’Italia è l’ex Servizio nazionale dighe, oggi divenuto una specifica Direzione generale del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.

La mappa (che potete visionare nella foto sotto)mostra come restino ancora da completare le dighe Blufi e Pietrarossa, cui si è aggiunta – al posto dell’Ancipa oggi regolarmente in esercizio – la diga Cannamasca al confine fra le province di Agrigento e Caltanissetta.



Il cemento, poi, con il tempo deperisce, specie quello di cinquanta anni fa, ovvero prima che venissero migliorati dai chimici gli additivi multifunzionali per cementi e calcestruzzi. E così, praticamente, tutte le dighe siciliane hanno bisogno di interventi per risolvere le criticità che determinano i bassi volume autorizzati.

In una presentazione tenuta lo scorso anno al seminario sulle dighe in Sicilia organizzato dall’Associazione idrotecnica italiana in collaborazione con l’Ordine degli ingegneri di Palermo, il dirigente del Servizio “Gestione infrastrutture per le acque” della Regione spiegava come sia necessario intervenire per migliorare la tenuta idraulica; ripristinare la piena funzionalità degli organi di scarico e delle opere funzionali (ad esempio, le vasche di dissipazione o le case di guardia); e infine per stabilizzare sponde e pendii prossimi alla diga.

Ad esempio, per stabilizzare la sponda in sinistra della diga Disueri occorrerà rivestire a sponda con un pacchetto impermeabilizzante in geomembrana per arrestare la rapida dissoluzione dei gessi abbondanti nelle rocce del Nisseno.

Attuare con urgenza gli interventi sulle dighe esistenti già identificati dalla Regione consentirà di recuperare la piena capacità degli invasi, aumentando di molto la disponibilità di acqua per gli usi civili ed agricoli.

Per uscire poi in via definitiva dal continuo ripetersi delle crisi idriche in Sicilia, la Regione dovrà innanzitutto invertire il recente approccio gestionale, e poi realizzare altri 3 interventi.

Dai tagli agli investimenti – La prima cosa da fare è invertire le politiche gestionali, sostituendo ai tagli realizzati nel corso degli ultimi anni un forte aumento degli investimenti.

Nel 2010, la Regione allocava 9,5 milioni di euro per la gestione di 17 dighe. Nel 2016, con 24 dighe da gestire, le risorse in bilancio erano pari a 3,1 milioni. In altre parole, i fondi disponibili in bilancio per gestire le dighe sono diminuiti del 78% in 7 anni, raggiungendo la cifra di 130mila euro per diga.

Analogamente, il personale della Regione nella struttura organizzativa addetta alle dighe, spiegava ancora il dirigente del Servizio nel suo intervento seminariale, solo nel 2017 ha perso 7 delle 176 unità di personale a causa dell’elevata età media lavorativa che ha portato al pensionamento di alcuni dipendenti.

Occorre quindi aumentare in modo significativo le risorse in bilancio per il Servizio, e rinforzarne lo staff con giovani ingegneri, architetti ed esperti di sostenibilità dello sviluppo, in modo da farne gli attori della nuova programmazione e gestione della risorsa idrica in Sicilia.

Completare le dighe in sospeso e migliorare le condotte mettendole in rete – Nel 2002 al Senato, il presidente pro tempore del governo regionale spiegava come ci fossero 3 invasi di completare: il Blufi, sulle Madonie, i cui lavori erano fermi da 10 anni; l’Ancipa, nell’Ennese; e Pietrarossa, nella zona di Caltagirone, che era allora “quasi totalmente completato, ma con i lavori fermi da oltre 7 anni perché nella fase di ultimazione dei lavori si sono ritrovati i resti di una villa romana”.

La sola diga Blufi, quasi al centro della Sicilia, permetterebbe di canalizzare l’acqua sia ad Est che ad Ovest. Circa metà della diga è già stata realizzata; mentre il potabilizzatore e l’acquedotto a valle sono già pressoché completi. Analogamente, completare i lavori della diga Pietrarossa offrirà alle imprese agricole del vasto territorio di Caltagirone la possibilità di incrementare qualità e quantità delle produzioni agricole locali.

La distribuzione geografica delle piogge in Sicilia presenta forti differenze zonali per cui occorre continuare a mettere in rete fra di loro gli invasi, come già avviene ad esempio con il Lago Arancio di Sambuca che è collegato alle dighe Poma e ‘Mario Francese’ (Garcia); oppure con i collegamenti tra i grandi acquedotti interconnessi fra diverse province che portano l’acqua del lago Ancipa usando le condotte Madonie Ovest per trasportare grandi volumi d’acqua verso territori carenti.

Occorre ripristinare subito le condotte degli acquedotti malfunzionanti. Ad esempio, finanziando al più presto il ripristino integrale dell’acquedotto Nuovo Scillato che, alla fine degli anni Ottanta, iniziò a portare a Palermo e a molti Comuni costieri della provincia le acque della formidabile sorgente Scillato che affiorano a quota 376 metri, a monte di Scillato, con una portata variabile tra 600 e 900 litri al secondo.

Come avviene in molte zone della sismica Sicilia, le tubazioni in acciaio dell’acquedotto iniziarono a danneggiarsi a causa dei continui movimenti franosi indotti da un sisma. Le continue rotture fra il 2009 e del 2013 portarono nel 2013 all’interruzione del servizio.

Nel 2017, con un investimento contenuto (quasi 1,6 milioni di euro), l’azienda pubblica del servizio idrico del capolouogo siciliano (AMAP) ha fatto realizzare la riparazione delle tubazioni comprese fra due contrade utilizzando l’innovativa tecnologia dell’hose lining in cui non è più necessario rimuovere le vecchie tubazioni: ma si utilizzano quelle esistenti inserendovi una tubazione polimerica flessibile costituita da fibre di Kevlar, un polimero che resiste alla trazione 5 volte più dell’acciaio, comprese fra due strati di polietilene leggero.

In questo modo è stato possible ripristinare il collegamento idrico che adesso porta nuovamente a Palermo e ai Comuni costieri alcune centinaia di litri d’acqua al secondo fino ad allora dispersi.

Recupero delle acque depurate – La seconda grande innovazione da portare a termine consiste nel realizzare le opere necessarie al riuso delle acque reflue depurate che, spiegavano i funzionari regionali nell’audizione del 2002 al Senato, “consentirebbero di recuperare per usi irrigui, nel breve periodo, ben 122.092.938 di metri cubi di acqua all’anno” liberando un’enorme quantità di acqua per uso idropotabile.

In attuazione di quanto previsto dal Decreto legislativo n. 152 del 1999 (“Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento”), la Regione già nei primi anni 2000 aveva individuato 32 interventi finalizzati, al costo di 99 milioni di euro, a realizzare le infrastrutture di collegamento tra i depuratori e le vasche di accumulo, a loro volta già collegate con le aree attrezzate per l’irrigazione.

Promozione della raccolta distribuita delle acque piovane – Il terzo intervento che la Regione deve intraprendere è quello di promuovere concretamente e ovunque nel territorio regionale, a partire dalle isole e dalle città, l’adozione diffusa dei sistemi di recupero dell’acqua piovana con cui intercettare l’acqua piovana subito dopo la sua caduta, in prossimità di dove viene poi consumata.

I sistemi hanno un costo molto contenuto, ed allocando una piccola parte delle enormi risorse comunitarie dedicate allo sviluppo sostenibile sarà possibile co-finanziarne l’acquisto da parte di famiglie, aziende ed amministrazioni pubbliche.

I serbatoi dove contenere l’acqua raccolta – invece che sui tetti come avviene in numerosi centri abitati della Sicilia – si spostano alla base degli edifici dove vengono progressivamente riempiti con l’acqua piovana. Utilizzando l’acqua piovana raccolta per tutti gli usi domestici non potabili, una famiglia può facilmente coprire il 50 per cento del proprio fabbisogno idrico. E notevolissimi vantaggi possono conseguire pure le aziende, partendo dagli hotel e dalle altre strutture ricettive.

Solarizzare i bacini – Infine, l’altra cosa da fare è coprire parte degli invasi artificiali gestiti dai Consorzi di bonifica con i sistemi fotovoltaici galleggianti come avviene ad esempio in numerosi bacini del Consorzio di bonifica “Valle del Liri” nel comprensorio di Cassino nel Lazio (foto sotto).



La tecnologia, ormai usata in tutto il mondo – dalla Cina al Regno Unito – è stata inventata proprio in Italia dove le centrali solari galleggianti sulle acque dei Consorzi di bonifica sono già una cinquantina.

In questo modo, si abbattono i costi elevati della bolletta elettrica sostenuti dai Consorzi di bonifica e dagli agricoltori che ricevono dai bacini l’acqua irrigua necessaria alle coltivazioni. E si dimezza, in corrispondenza della superficie coperta dai pannelli solari, anche la quantità di acqua perduta per evaporazione durante la prolungata stagione calda.

Dissalatori? – Nel corso degli ultimi dieci anni Israele (chi scrive si è formato scientificamente in Israele e collabora attivamente con numerosi scienziati israeliani) ha risolto i suoi cronici problemi idrici realizzando enormi dissalatori basati sulla tecnologia ad osmosi inversa, fra cui quello di Sorek, a sud di Tel Aviv, che con i suoi 627mila metri cubi di acqua prodotti ogni giorno è, attualmente, il più grande al mondo.

Ma Israele è un Paese quasi interamente pianeggiante con precipitazioni medie intorno ai 550 mm annui, e un’ampia zona desertica al suo interno (il deserto del Negev).

La Sicilia, che persino nel siccitoso 2016 ha superato i 630 mm di pioggia, ospita enormi catene montuose dove sono conservate straordinarie risorse idriche: come ben sanno le molte aziende che ne imbottigliano una piccola parte prelevandola dalle fonti dell’Etna, dei Nebrodi, o delle Madonie.

I dissalatori hanno senso economico, sociale ed ambientale in zone desertiche, semidesertiche e nelle isole, dove a fronte dei moderni di livello di consumo idrico, e ai picchi dovuti alle presenze turistiche estive, la risorsa raccolta con le piogge è insufficiente. E infatti, da Pantelleria a Lampedusa a Linosa, i vecchi dissalatori sono stati da poco sostituiti da quelli ad osmosi inversa, con un taglio dei consumi elettrici di circa due terzi.

Realizzare dissalatori di grandi dimensioni come quelli con cui Israele oggi produce poco meno del 50 per cento del proprio fabbisogno idrico richiederebbe investimenti molto elevati mentre quelli di esercizio sono calati a tal punto che in Israele producono acqua potabile dall’acqua di mare al costo di 50 centesimi di euro per metro cubo.

Investendo adesso sulle dighe e sulle loro interconnessioni; sul miglioramento delle reti idriche esistenti basato su tecnologie innovative come l’’hose lining e il relining applicate a tutte le tubazioni che in Sicilia sprecano l’incredibile percentuale del 52% dell’acqua che vi è immessa (il doppio di quanto se ne spreca in Piemonte e il triplo della Lombardia, “Giornata mondiale dell’acqua: le statistiche dell’Istat”, 2017); e sulla generazione distribuita basata sui sistemi di raccolta dell’acqua piovana, la Sicilia risolverà in pochi anni i suoi problemi idrici in via definitiva.


sabato 10 febbraio 2018

Italo e Alitalia, trova le differenze. - Antonello Caporale

Italo e Alitalia, trova le differenze
Italo è una gran bella storia di successo. Un gruppo di imprenditori ha scelto di investire nel trasporto ferroviario, grazie alla legge che toglieva al soggetto pubblico il monopolio, e in quattro anni di attività hanno fatto bingo. Ogni euro speso è rientrato e altri nove euro si sono aggiunti come premio. Due miliardi e 500 milioni il prezzo pagato da un fondo di investimenti americano. Sono i soldi del successo, il premio a chi vede lontano e rischia di suo.
Un altro gruppo di imprenditori ha scelto di investire sul trasporto aereo acquistando Alitalia. L’affare si è rivelato poco petaloso. I debiti sono cresciuti, le tratte sono diminuite, i conti sono saltati per aria. Cosicché gli imprenditori hanno salutato i dipendenti, lasciati all’imbarco, e se la sono data a gambe. Il governo sta provvedendo alla vendita, non prima di aver sganciato 600 milioni di euro, detti elegantemente prestito ponte, somma che poi è salita a 900 milioni di euro.
Morale: se l’affare è buono, l’imprenditore raccoglie i frutti e non divide il bottino con nessuno. Quando l’affare si rivela cattivo, un colpo di tosse, un passo di lato, e Dio provvede. Poi chiamalo capitalismo.

Flat Tax, il re è nudo. Pronti a vivere come in Belize ?? - Rosanna Spadini

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O il sole o il welfare? Non vale più. Ora il treno della Flat Tax è partito, quello che contribuirà al definitivo massacro del welfare e dei diritti. Non è presente in nessun Paese dell’Europa occidentale, dove la qualità della vita è ancora mediamente alta. È presente invece nell’Europa dell’est e nel terzo mondo. La Flat Tax è una bufala, sarebbe meglio chiamarla «flop tax», perché è dannosa per il welfare, riveste la funzione di un Robin Hood al contrario, è incostituzionale, ed è altamente sconsigliabile per il mantenimento di un sistema fiscale attento alla ridistribuzione della ricchezza.
La tassa è iniqua perché non è progressiva, così come prevede la Costituzione, e mentre i milioni di contribuenti della fascia media risparmieranno poche decine di euro all’anno, i 130mila fortunati che dichiarano tra 90 e 100mila euro, avranno un beneficio molto più tangibile, perché è una tassa che favorisce le classi benestanti.
L’articolo 53 della Costituzione per altro dice che «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».
La palude si addensa sulla proposta del Centrodestra, perché non ci sono ancora accordi condivisi sul livello effettivo della tassa che dovrebbe sostituire Irpef e Ires. Fissandola al 20% gli introiti fiscali calerebbero di 95,4 miliardi. Però Forza Italia sostiene che «si finanzierebbe da sola», così com’è avvenuto in Belize, Kazakhistan, Transnistria e un atollo polinesiano.
La Russia ha adottato l’aliquota unica nel 2001, aumentando del 16% le sue entrate, ma il Fondo monetario internazionale (Fmi) spiega che non ci sono prove del legame tra crescita e riforma fiscale. La scommessa sul nostro Paese è però un azzardo. Forse la tassa piatta potrebbe aiutare a portare alla luce i redditi da lavoro autonomo, ma rischia di aprire una voragine nei conti pubblici e far pagare la crisi alle famiglie.
Un’aliquota unica per persone fisiche e imprese al posto di Irpef e Ires, però tra una proposta e l’altra si agitano decine di miliardi. Per il Berlu, a giorni alterni, sarà «di poco superiore al 20%» o «del 20-22-25%».
Nel frattempo il Giornale della famiglia Berlusconi contesta le affermazioni del Sole24Ore sulla perdita di gettito che deriverebbe dalla riforma fiscale «la flat tax al 25% funziona benissimo, per dire, nel paradiso fiscale di Trinidad e Tobago. Mentre i contribuenti dell’arcipelago polinesiano di Tuvalu devono accontentarsi del 30%».

Matteo Salvini e Armando Siri

Sul valore dell’aliquota che dovrebbe sostituire i cinque scaglioni Irpef si stanno ancora «facendo i calcoli», ha ammesso l’ex condannato in un’intervista al Corriere, ed anche se l’idea era del ’94, i conti ancora non tornano. Nel frattempo la Lega ne ha fatto uno dei propri cavalli di battaglia, nella versione super light al 15% sostenuta da Salvini e Armando Siri, ex giornalista dei tg Mediaset e novello guru economico.
Nel libro «Flat tax», edito da Passaporta, Armando Siri  spiega come con la sua proposta lo Stato in un anno avrebbe mancate entrate complessive (tra persone e imprese) per 63 miliardi di euro. Liquidità però che resterebbe nelle tasche di famiglie e delle imprese stesse che aumenterebbero la domanda interna e la capacità di investimento. Oltre a procurare una semplificazione drastica di tutta la burocrazia a monte. 
Ma non era Claudio Borghi, il teorico del NoEuro, il santone leghista in materia economica? Sì, ma per l’emisfero nord, per quello sud c’è Armando Siri. E poi c’è anche Alvin Rabushka, della scuola dei Chicago Boys, professore a Stanford e già consigliere di Reagan, il vero profeta della «flat tax». Come diceva appunto Reagan, si tratta di «affamare la bestia», cioè lo Stato, e quello italiano è sempre stato particolarmente famelico, dicono i leghisti, da Romaladrona in giù.

Quel Matteo Salvini da Milano, fasciato di felpe parlanti, che ha varcato la linea del Po per sfondare mercati del centro sud, studi televisivi e soprattutto i like di Facebook.


«Occorre un piano strategico nazionale per il Sud, non soltanto per il Ponte sullo Stretto, e noi questo piano lo stiamo elaborando» dice Siri «Lui l’ho conosciuto ai tempi della candidatura di Roberto Maroni alla presidenza della Lombardia. Non è la figura rozza dipinta dai media, ha un ego permeabile ai buoni consigli, sa ascoltare con leale sincerità e, cosa più importante, mostra un coraggio intuitivo che Renzi non ha» e ancora «ormai destra e sinistra sono emisferi chiamati a comunicare e collaborare, come avviene nel luogo mediano del cervello chiamato corpo calloso, altrimenti diventano spastici e si annientano a vicenda». Insomma, basta con la nevrosi della democrazia.
Siri ha comunque le idee molto chiare, perché la cura della schizofrenia contemporanea per lui non è anti o post-politica, invece è pre-politica. In parole povere, non siamo più in grado di gestire correttamente l’eccesso di aggressioni patogene esterne (flussi migratori, debito pubblico, disoccupazione di massa, chiusura di aziende, crisi bancarie), e così siamo costretti ad usare vaccini super potenti, per la pandemia in atto. L’uomo italico esigerebbe un vasto programma di recupero dei valori umanistico rinascimentali, si dovrebbe ripartire da Marsilio Ficino, con un forte ideale anelito a farsi ubermensh.

I casi di «successo» dell’aliquota unica nel mondo sono tanti. Dei 38 Stati, otto sono membri dell’Unione europea, quelli di più recente adesione, quali Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia. Poi oltre alla Russia, ci sono paradisi fiscali come l’Isola di Jersey, quella di Guernsey, le Seychellese Trinidad e Tobago, regimi autoritari come il Kazakistan, repubbliche ex sovietiche come Turkmenistan e Kirghizistangli Stati non riconosciuti della Transnistria e del Nagorno Karabakh, il Sud Sudan. Non mancano l’Iraq e l’Abkhazia, il Belize e la nazione polinesiana di Tuvalu, 10mila abitanti disseminati su nove isolette per 26 chilometri quadrati complessivi.

Alvin Rabushka

L’aliquota unica sembra però non funzionare bene in tutte le stagioni. Tra il 2010 e il 2013 Islanda e Slovacchia hanno abbandonato la tassa piatta, sull’onda della crisi finanziaria che ha messo in difficoltà i loro conti pubblici. Il governo di Bratislava ha deciso di fare retromarcia dopo nove anni e nel gennaio 2013 ha affiancato l’aliquota unica al 19% con un secondo scalino al 23%.
Nei primi quattro anni dall’introduzione della flat tax l’economia slovacca è cresciuta a tassi del 10%, ma sono aumentate anche le differenze di reddito. Con la crisi tra i cittadini slovacchi, ha spiegato Andrea Peichl, ricercatore dell’istituto per il Lavoro di Bonn, è aumentata la richiesta di una maggiore ridistribuzione del reddito che, in assenza di altri interventi, non si può ottenere tramite questa tassazione.
«La flat tax aiuta i ricchi? Sono contento» ha detto Matteo Salvini, a margine di una sua visita al mercato di via Pagano a Milano. E poi «Noi non tradiremo mai, non andremo mai al governo con Renzi, la Boldrini, i grillini, con Gentiloni» ha replicato a chi gli ha chiesto che cosa farebbe la Lega in caso il centrodestra non ottenesse la maggioranza dei seggi in Parlamento.
Ma i benefici della tassa piatta non si ridurrebbero alla crescita economica, perché troncando le imposte si stimolerebbe il lavoro così come l’emersione dei redditi in «nero», in quanto tutti i contribuenti sarebbero più disponibili a pagare le tasse, con una magica riduzione dell’evasione fiscale.
Le ultime dichiarazione dei redditi in Italia ci dicono che su 40 milioni di contribuenti solo 31.000 dichiarano più di 300.000 euro l’anno di reddito lordo, arrivano invece a 400.000 quelli che sfiorano i 100.000 euro. Quindi i redditi sono principalmente sotto questa soglia. In più come sostiene il centro di ricerca della Cgia di Mestre la tassazione delle imprese tra imposte dirette e indirette raggiunge anche il 64,8% sui profitti, percentuale che mette il nostro Paese al primo posto fra tutti quelli dell’area euro (affaritaliani.it).
Di conseguenza gli investitori sono più propensi ad investire altrove, dove la tassazione è più bassa. Quindi il sistema sistema burocratico fiscale necessita di riforme urgenti, però la tassa piatta appare troppo iniqua per risolvere il problema.
Perché applica la teoria liberista di Margaret Thatcher «Non ci può essere libertà se non c’è libertà economica», confermando la fede nella «mano invisibile» di Adam Smith e dando la definitiva mazzata turbo liberista al sistema.
Intanto la partitocrazia, assolutamente incapace di smentirsi, ha prodotto una legge elettorale che non può dar luogo a nessuna maggioranza, per avere piena disponibilità di fare scempio del voto degli elettori, attraverso consociazioni, lottizzazioni e inciuci vari, e per poter dar vita all’unico governo possibile delle larghe intese, sempre alle dipendenze della finanza nazionale ed estera.
Al mercato delle promesse e dei voti della campagna elettorale, le propagande partitocratiche sono vuote millanterie, perché i guai del Paese possono essere risolti solo da forze politiche oneste, coerenti e credibili.
Ebbene la tassa piatta, nonostante un sistema di deduzioni fisse che la renderebbe progressiva nelle fasce medio basse di reddito, è un regalo alla finanza nazionale e internazionale.
Una riduzione del carico fiscale sarebbe fondamentale per la crescita, dato che lo Stato italiano tassa più di quanto spende, quindi sarebbe necessario riportare il carico fiscale a livelli normali, però attraverso un deficit da finanziare sovranamente.
Le affermazioni di Salvini, secondo le quali ci sarebbe un sistema di deduzione fortemente progressiva, non reggono, perché questa progressività riguarderebbe soltanto le fasce di reddito inferiori e sfumerebbero fino ad azzerarsi man mano che le entrate aumentano.
L’attuale sistema tributario nazionale non ha voluto impedire l’accentramento costante di capitali nelle mani di poche persone, e la tassa piatta è l’ennesima truffa neoliberista, mascherata da fata turchina, risolutrice dei problemi e vendicatrice degli oppressi, in realtà continuerebbe a garantire i privilegi dei soliti noti.
In definitiva un’eventuale  politica espansiva finirebbe per accrescere i patrimoni di pochi, mantenendo l’oligarchia finanziaria al timone del Paese a danno del resto della popolazione.
Come ha notato Luigi Marattin dell’Università di Bologna: «Il ragionamento (comunque sbagliato) dell’emersione del sommerso vale per le imposte dove è concentrata evasione e elusione. In Italia si tratta soprattutto dell’Iva, che secondo molte stime nasconde più di 100 miliardi di evasione. La “flat tax” riguarda invece l’Irpef, un’imposta la cui platea di contribuenti è per circa il 90% è costituita da lavoratori dipendenti e pensionati. Vale a dire, contribuenti che non possono evadere, visto che hanno le trattenute direttamente in busta paga. Quindi la “magia” dell’emersione del sommerso sarebbe comunque assolutamente marginale».
Alla fine insomma perché il leader della Lega ha stretto questo patto di belzebù con il Berlu? Forse perché l’ex carcerato deve risparmiare sulle tasse, ed ha pensato bene di scaricarle sul groppone degli italiani, usando uno dei soliti giochetti illusionistici ?

PROF. STEPHEN F. COHEN: RIPENSARE PUTIN - UNA LETTURA CRITICA. - di cdcnet


Recentemente ho avuto il piacere di assistere ad una breve presentazione del Professor Stephen F. Cohen intitolata “Rethinking Putin“, tenuta all’annuale crociera Nation il 2 dicembre 2017. Nella sua breve presentazione, Cohen fa un ottimo lavoro nello spiegare cosa Putin NON è e questo include (ma, per favore, guardate il video originale prima di procedere).

Non è l’uomo che ha de-democratizzato la Russia (l’hanno fatto Eltsin e la Casa Bianca)
Non è il leader che ha creato corruzione e cleptocrazia in Russia (l’hanno creata Eltsin e la Casa Bianca)
Non è un leader criminale che ha ordinato l’omicidio di oppositori o giornalisti (nessuna prova)
Non ha ordinato l’hacking dei server DNC (nessuna prova)
Non era anti-USA o anti-occidente all’inizio (è cambiato nel tempo)
Non è un leader neo-sovietico (è molto critico di Lenin e Stalin)
Non è un leader aggressivo in politica estera (è stato un leader reattivo)
Non è in alcun modo definito dai suoi anni al KGB.


Il professor Cohen ha concluso il suo discorso suggerendo alcune cose che potrebbero far parte di una futura sincera biografia:
Da giovane ed inesperto leader posto al timone di uno stato al collasso:
ha ricostruito, stabilizzato e modernizzato la Russia in modo da prevenire futuri crolli
ha dovuto ripristinare il “verticale” del potere: “democrazia gestita” (cioè ordine ristabilito)
ha avuto bisogno di una storia consensuale che rattoppasse le ere zarista, sovietica e post-sovietica senza imporre una sola versione della storia
ha avuto bisogno del sostegno occidentale per modernizzare l’economia russa
ha voluto che la Russia fosse una grande potenza, ma non una superpotenza
non ha mai favorito l’isolazionismo da cortina di ferro; è un internazionalista (più europeo del 90% dei russi, perlomeno all’inizio).


La tesi chiave è questa: Putin ha iniziato come leader europeista filo-occidentale, e col tempo si è riallineato ad una visione del mondo molto più tradizionale e russa. Oggi è più in linea con gli elettori russi.
Il professor Cohen ha concluso affrontando due argomenti che, presumo, il suo pubblico aveva molto a cuore: ha detto che, contrariamente alla propaganda occidentale, le cosiddette leggi “anti-gay” in Russia non sono diverse dalle leggi presenti in 13 stati USA. In secondo luogo, che “col consenso generale di tutti, nessuno lo nega, gli ebrei in Russia sotto Putin stanno meglio di quanto non siano mai stati. Hanno più libertà, meno antisemitismo ufficiale, più protezione, più ammirazione ufficiale per Israele, più interazione, più libertà di spostamento”.

Tutte cose molto interessanti, specialmente se elargite ad un pubblico americano liberal-progressista di sinistra (con, probabilmente, un’alta percentuale di ebrei). Sinceramente, la presentazione del professor Cohen mi fa pensare a cosa avrebbe potuto provare Galileo quando fece le sue “presentazioni” davanti al tribunale dell’Inquisizione (gli articoli ed i libri di Cohen ora sono anche sull’equivalente moderno dell’Index Librorum Prohibitorum). In realtà, il professore è semplicemente fedele a sé stesso: si è opposto ai folli durante la vecchia guerra fredda ed ora si oppone agli stessi folli nella nuova Guerra Fredda. 

Per tutta la vita, Cohen è stato un uomo di verità, coraggio ed integrità – un pacificatore nel senso delle Beatitudini (Matteo 5:9). Così, pur non essendo sorpreso dal suo coraggio, ne sono immensamente colpito. Alcuni potrebbero pensare che fare una breve presentazione su una nave da crociera non sia un segno di gran coraggio, ma io non sono d’accordo. Certo, nessuno gli sparerebbe alla nuca come, ad esempio, avrebbero fatto le ChK-GPU-NKVD sovietiche, ma io sostengo che questi metodi di “imporre” un singolo consenso ufficiale fossero molto meno efficaci dei loro equivalenti moderni: le tecniche di imposizione della conformità (vedi: Asch Conformity Experiment) così prevalenti nella moderna società occidentale. Basta vedere i risultati: nella società sovietica si leggeva e pensava di più (in qualsiasi senso) di quanto non si faccia oggi nel moderno Impero anglo-sionista (chiunque si ricordi della cattiva vecchia Unione Sovietica lo confermerà). Come dice una battuta: in una dittatura, ti viene detto di “star zitto”, mentre in una democrazia sei incoraggiato a “continuare a parlare”. Come volevasi dimostrare.

Passando ai punti di discussione del professor Cohen, i numeri 1, 2, 3 e 4 sono fatti di base. Nulla da aggiungere – Cohen sta mettendo le cose in chiaro. Il punto 5 è molto più interessante e controverso. Per prima cosa, stiamo parlando di opinioni/intenzioni, difficili da giudicare. Putin è mai stato filo-occidentale? Chi lo può sapere? Forse i suoi amici più intimi? La mia convinzione è che questa domanda debba essere considerata in combinazione con il punto 8: il passato di Putin nel KGB.

In Occidente, c’è ancora molta ignoranza sul vecchio KGB sovietico. Per l’americano medio, un “agente del KGB” è un ragazzo di nome Vladimir, con gli occhi grigio-blu acciaio, che picchia i dissidenti, ruba i segreti tecnologici occidentali e spia le mogli dei politici (e a volte le porta a letto). È un comunista irriducibile, che sogna di bombardare o di invadere gli Stati Uniti e parla con un forte accento russo. 

In alternativa, c’è Anna Kushchenko (a.k.a Anna Chapman) – una subdola bambola del sesso che seduce gli uomini occidentali fino ad indurli a tradire la propria patria. Questi stereotipi sono corretti quanto James Bond è una rappresentazione accurata dell’MI6. La realtà non potrebbe essere più diversa.

Il KGB sovietico era prima di tutto un’enorme burocrazia con direzioni, reparti e sezioni completamente diversi e separati. Sì, una tale Direzione si occupava di dissidenti ed attivisti antisovietici (principalmente il 9° dipartimento della 5a Direzione), ma anche in questa (famigerata) quinta direzione c’erano alcuni dipartimenti che, in coordinamento con altre Direzioni e Dipartimenti del KGB, si occupavano di còmpiti più legittimi come, ad esempio, l’individuazione precoce di organizzazioni terroristiche (7° Dipartimento). Altre Direzioni del KGB si occupavano della sicurezza economica (6a Direzione), della sicurezza interna e del controspionaggio (2a Direzione) o persino della protezione dei funzionari (9a Direzione).
Putin era un ufficiale (non un “agente” – gli agenti sono reclutati al di fuori del KGB!) della Prima Direzione Principale (PGU) del KGB: intelligence straniera. Lo stesso Putin ha recentemente rivelato che lavorava nel Dipartimento più delicato del PGU, il “Dipartimento S”, dedicato agli “illegali”. Questo è molto importante. Il PGU era così separato da tutte le altre Direzioni del KGB che aveva il proprio quartier generale a sud di Mosca. Ma anche all’interno del PGU, il Dipartimento S era il più segreto e separato. Avendo passato molti anni da attivista antisovietico ed avendo avuto faccia a faccia con funzionari del KGB (di vari Consigli Direttivi), posso confermare che non solo il KGB nel suo complesso sceglie le menti russe più brillanti, ma che il PGU ottiene le migliori di queste, e solo le migliori di quel gruppo selezionato sono arrivate ​​al leggendario Dipartimento S. Ora diamo un’occhiata a quale tipo di competenze era richiesto agli ufficiali PGU (oltre agli ovvi due: essere molto brillanti ed affidabili).
Innanzitutto, deve essere uno specialista di alto livello nella sua area di competenza (nel caso di Putin la Germania, ovviamente, ma anche del resto d’Europa e, poiché l’Europa occidentale era – ed è tuttora – una colonia statunitense, Stati Uniti). Dato che ai sovietici veniva detto che l’Occidente era il nemico, quelli del PGU dovevano capire come e perché l’Occidente fosse quel nemico.

In termini pratici, ciò implica non solo conoscere e comprendere le culturali, politiche, sociali ed economiche del sistema di governo del nemico, ma anche i reali rapporti di potere all’interno dello stesso. Tale comprensione è utile non solo per affrontare e valutare l’utilità potenziale di ciascuna persona con cui si interagisce, ma anche per capire in quale àmbito questa persona debba operare. L’immagine di ufficiali PGU bigotti comunisti è ridicola: questi uomini erano molto istruiti (avevano accesso illimitato a tutte le fonti di informazione occidentali, incluse quelle anti-sovietiche, report confidenziali e tutta la letteratura antisovietica immaginabile) ed erano ultra realisti/pragmatici. 
Ovviamente, come in qualsiasi organizzazione, i massimi dirigenti erano spesso nominati dalla politica, ed i burocrati e gli agenti di controspionaggio erano molto meno sofisticati. Ma, per ufficiali come Putin, capire veramente la realtà della società occidentale era un’abilità vitale.
Secondo, un buon ufficiale PGU deve essere piacevole; molto, molto piacevole. Essere apprezzato dagli altri è un’abilità cruciale anche per un buon ufficiale dell’intelligence. In termini pratici, ciò significa che lui/lei non solo deve capire cosa fa scattare l’altro, ma anche come indirizzarlo nella giusta direzione. Per gli “illegali”, si trattava anche di essere il loro miglior amico, confessore, sostegno morale, guida e protettore. Non puoi farlo se non piaci alla gente. Questi ufficiali dell’intelligence sono quindi maestri del mostrarsi buoni amici e compagni; sono bravi ascoltatori e si fanno piacere. Inoltre capiscono esattamente cosa vuoi sentire e vedere, e quali parole ed azioni ti rilassano e ti inducono a concedere fiducia.
Combina ora queste due cose: hai un uomo che è il miglior specialista sull’Occidente e che è ben addestrato per venir apprezzato dagli occidentali. Quant’è probabile che quest’uomo avesse molte illusioni sull’Occidente, tanto per cominciare? E supponiamo che un uomo come lui avesse avuto dei dubbi – li avrebbe mostrati?
Il mio istinto mi dice che questo è alquanto improbabile.
La cosa più probabile è che Putin abbia interpretato il ruolo del “miglior amico dell’Occidente” il più a lungo possibile, e poi l’ha terminato quando non era chiaramente più produttivo. E sì, nel farlo si è riallineato all’opinione pubblica russa tradizionale, ma questo è stato solo un utile effetto collaterale, non la causa o l’obiettivo di quel riallineamento.
Guardate i punti 9-13 (li riassumerei come “aggiustare la Russia”). Hanno tutti molto senso, anche che “era un leader giovane ed inesperto”. C’è un’enorme differenza tra l’essere un abile agente PGU ed essere l’uomo che governa la Russia. Ed anche se Putin avesse effettivamente perso alcune delle sue illusioni, sarebbe stato principalmente perché l’Occidente stesso è cambiato molto tra gli anni ’80 e gli anni 2010. Ma Putin deve aver sempre saputo che per implementare i punti 10-13 di Cohen aveva bisogno dell’aiuto dell’Occidente, o, se ciò non fosse stato possibile, perlomeno l’interferenza/resistenza minima dell’Occidente. Credere però che un uomo, che ha avuto pieno accesso alle reali informazioni sulle due guerre cecene, avrebbe avuto ancora qualche illusione sui reali sentimenti dell’Occidente verso la Russia è profondamente fuorviante. Chiunque abbia vissuto in Russia negli anni ’90 alla fine si sarebbe reso conto che l’Occidente voleva che tutti i russi fossero schiavi, o, più precisamente, e nelle parole del senatore McCain – “benzinai”. 
Lo stesso Putin ha detto così quando ha dichiarato, parlando degli Stati Uniti, “loro non vogliono umiliarci, vogliono sottometterci. Vogliono risolvere i loro problemi a nostre spese, subordinarci alla loro influenza”.
Ha poi aggiunto che “nessuno nella storia ci è mai riuscito, e nessuno ci riuscirà mai”.

Innanzitutto, sostengo che Putin abbia compreso benissimo gli obiettivi dell’Occidente. In secondo luogo, dico anche che non l’abbia improvvisamente “scoperto” nel 2014. Penso che lo sapesse da sempre, ma che abbia iniziato a dirlo apertamente dopo il colpo di stato, appoggiato dagli Stati Uniti, in Ucraina. Inoltre, nel 2014, Putin aveva già raggiunto i punti 9-13 e non aveva più bisogno così tanto dell’Occidente.
Ora vediamo i punti 6 (la visione di Putin del periodo sovietico), 12 (storia consensuale) e 14 (la Russia come una grande potenza ma non una superpotenza). E ancora, consideriamo il fatto che i funzionari del PGU avevano accesso totale a qualsiasi libro di storia, archivi segreti, memorie, ecc. E che erano molto liberi di parlare in pragmatici termini di analisi su tutti i temi storici con i loro insegnanti e colleghi. Qui sostengo che sul passato sovietico Putin non avesse più illusioni di quelle che aveva sull’Occidente. Il fatto che definisse lo scioglimento dell’Unione Sovietica (che, ricordiamolo, avvenne in modo totalmente antidemocratico!) una “catastrofe” “completamente inutile”, non implica in alcun modo che non fosse assolutamente consapevole di tutto gli orrori, le tragedie, i rifiuti, la corruzione, il degrado ed il male in generale del regime. 

Tutto ciò mostra però che è anche conscio delle immense vittorie, risultati e successi che anche hanno fatto parte di quell’era. Infine, e soprattutto, mostra che si rende conto di quale disastro assoluto, un cataclisma di proporzioni veramente cosmiche, la disgregazione dell’Unione Sovietica abbia rappresentato per tutto il popolo dell’ex URSS,; e quale incubo assoluto sia stato per la Russia vivere un decennio pieno come colonia servile dello zio Sam. Sono sicuro che Putin abbia studiato abbastanza Hegel per capire che gli orrori degli anni ’90 siano stati il risultato delle contraddizioni interne dell’era sovietica, proprio come l’era sovietica è stata il risultato delle contraddizioni interne della Russia zarista. In parole povere, ciò significa che conoscesse benissimo i pericoli insiti nell’impero e che abbia deciso, assieme alla grande maggioranza dei russi, che la Russia non sarebbe mai più dovuta diventare un impero. Un paese forte, rispettato e sovrano? Sì. Un impero? Mai più. Neanche per idea!

Questa conclusione fondamentale è anche la chiave della sua politica estera: è “reattiva” per natura semplicemente perché agisce solo in risposta a quando qualcosa influenza la Russia. Si potrebbe dire che tutte le nazioni “normali” siano “reattive” perché non possono fare altrimenti. Intromettersi ovunque, in ogni combattimento o conflitto, è ciò che fanno gli imperi basati sulle ideologie messianiche, non i paesi normali, indipendentemente da quanto grandi o potenti siano. Per tutte le allucinazioni malate e paranoiche dei russofobi occidentali su una “rinascita della Russia”, la realtà è che i diplomatici russi hanno spesso menzionato quali siano veramente gli obiettivi della politica estera di Mosca: rendere i nemici neutrali, i neutrali partner, i partner amici e gli amici alleati. 

Ed è per questo che il professor Cohen ha assolutamente ragione, Putin non è affatto un isolazionista – vuole un nuovo ordine internazionale multipolare di paesi sovrani; non perché sia un ingenuo idealista, ma perché questo è ciò che è pragmaticamente utile per la Russia ed il suo popolo. Si potrebbe dire che Vlad sia un internazionalista patriottico.

Passiamo ora ad omosessuali ed ebrei. 
Innanzitutto, entrambe le affermazioni fatte da Cohen sono corrette: le due categorie stanno alla grande nella Russia moderna. Potrei anche dire che non siano mai state meglio. Naturalmente, sia io che il professore ci basiamo sui fatti e siamo molto superficiali quando lo diciamo. E, siccome in passato ho discusso in dettaglio di entrambi questi argomenti, non ne tratterò qui. Vorrei piuttosto soltanto dire che in ambo i casi stiamo parlando di una piccola minoranza, il cui trattamento è, per un motivo o per l’altro, considerato come LA misura dell’umanità, della gentilezza, della civiltà e della modernità di un paese. Ok, a ciascuno il suo. Se in Occidente, il trattamento di queste due minoranze è l’Unico ed il Più Importante Argomento nell’Universo – bene. A me personalmente non interessa molto (soprattutto perché non ritengo di dover trattare con un’attenzione speciale nessuna delle due). Detto questo, vorrei anche affermare che la preoccupazione principale di Putin non è nemmeno rivolta ad una specifica minoranza. Tuttavia, ed è qui che la cosa è davvero molto interessante, il suo interesse per la maggioranza non implica affatto alcun tipo di disprezzo o mancanza di rispetto per le libertà fondamentali ed i diritti delle minoranze (e, in questo caso, non solo due minoranze trattate come “più uguali di altre”).
È qui che vari esponenti di destra ed Alt-Right “perdono” completamente Putin. Il Putin che a Mosca, ad un’assemblea di ebrei ortodossi, ha detto che l’80-85% dei leader bolscevichi era ebreico, il Putin che ha schiacciato gli oligarchi (in gran maggioranza ebrei) dell’era Eltsin non appena è arrivato al potere, ed il Putin che ha completamente ignorato tutti gli attacchi isterici di Netanyahu sul ruolo russo in Siria è anche lo stesso Putin che ha fatto di tutto per proteggere gli ebrei russi all’interno del paese e che ritiene che ebrei e russi siano per sempre uniti dal ricordo comune degli orrori della seconda guerra mondiale.

[nota a margine: personalmente desidero che la Russia denunci Israele per quella che è, un illegittimo e razzista stato canaglia votato al genocidio e all’espansione. Ma non ho parenti in Russia. Né sono il presidente di un paese con legami molto forti con le comunità ebraiche di lingua russa in tutto il mondo. Io personalmente non rispondo a nessuno se non alla mia coscienza e a Dio, mentre Putin deve rispondere a chi l’ha eletto e lo sostiene].

La colpa per associazione, la punizione di tutti per le azioni di alcuni, il trovare un capro espiatorio, la feroce persecuzione delle minoranze in nome di qualche ideale – tutto questo è già stato provato in passato, sia in Russia che in Occidente. I nazisti lo fecero, così come i sovietici. E sia i nazisti che i sovietici inflissero orrori indicibili ai molti popoli dell’Unione Sovietica ed oltre. Putin è ben conscio dei pericoli del nazionalismo, tanto quanto lo è di quelli dell’imperialismo, e lo ha ripetuto molte volte: la Russia non può permettersi altri conflitti nazionalistici, che hanno quasi completamente distrutto il paese negli anni ’90. Basta guardare l’Ucraina moderna per vedere cosa una Russia dilaniata dalle ideologie nazionaliste sarebbe potuto diventare, non avesse il presidente dato un giro di vite, con forza, ai vari nazionalisti (compresi e soprattutto quelli russi).

Lungi dal ricorrere ad una (dichiaratamente potente) lobby ebraica in Russia, Putin sta, in effetti, cercando di riunire quanti più popoli e minoranze possibili per il suo progetto di una Nuova Russia; e quel progetto include ebrei russi, non solo per il loro bene, ma principalmente per il bene del paese. Lo stesso vale per un’altra minoranza cruciale in Russia: i musulmani. Anche loro costituiscono una parte fondamentale del progetto che Putin ha in mente. Certamente, razzisti, nazionalisti ed altra gente poco brillante continueranno a sognare di espellere tutti gli ebrei (e i musulmani). Non succederà (anche perché non è fisicamente possibile), Putin e chi lo sostiene combatteranno tali progetti con ogni strumento legale a propria disposizione. Anche qui, si potrebbe dire che sia un internazionalista patriottico.

Nel frattempo, l’Occidente è ancora bloccato nelle sue vecchie divisioni ideologiche: da una parte imperialismo, nazionalismo ed esclusivismo messianico; dall’altra, una totale resa al postmodernismo, all’odio della propria cultura, alle futili politiche sulle minoranze ed al relativismo morale. Pertanto, non sorprende affatto che entrambi i campi tradizionali dell’Occidente abbiano completamente frainteso Putin e non riescano a capire cosa abbia in mente di fare.
Il professore Cohen ha ragione: il vero Putin non ha nulla, assolutamente nulla in comune con quello fasullo che i media occidentali raccontano al suo pubblico infinitamente credulone e zombificato. Ahimè, nessuno ascolterà Cohen, almeno fino a quando il regime di Washington e la struttura di potere che lo sostiene, ed i cui interessi rappresenta, non si infrangeranno. Ma credo fortemente che il professor Cohen alla fine passerà alla storia come l’esperto americano di Russia più intellettualmente onesto e coraggioso.

The Saker
Fonte: www.unz.com
Link: http://www.unz.com/tsaker/professor-stephen-f-cohen-rethinking-putin-a-critical-reading/
8.02.2018
Traduzione per www.comedonchisaciotteorg a cura di HMG

http://www.comedonchisciotte.net/modules.php?name=News&file=article&sid=6234