sabato 8 giugno 2019

Graziano Mesina scarcerato: sentenza di condanna a 30 anni non depositata.

Graziano Mesina scarcerato: sentenza di condanna a 30 anni non depositata

Mesina, conosciuto anche con il soprannome di Grazianeddu, era finito in carcere sei anni fa perché ritenuto a capo dell'organizzazione che si occupa di traffico internazionale di droga.

Scarcerato per decorrenza dei termini. Così è tornato in libertà Graziano Mesina, uno dei più importanti esponenti del banditismo sardo in carcere a Nuoro per traffico internazionale di droga. La scadenza è dovuta al fatto che le motivazioni della sentenza d’appello non sono state ancora depositate, facendo così decadere la misura cautelare. Mesina risulta già uscito dal carcere di Badu ‘e Carros accompagnato dalle sue avvocate, Maria Luisa Venier e Beatrice Goddi, ed è ora atteso nella stazione dei Carabinieri di Orgosolo.
“Finalmente respiro l’aria del mio paese. Sono felicissimo, non me lo aspettavo”, ha dichiarato Mesina al suo arrivo a Orgosolo, intorno alle 17.30, insieme all’avvocato Goddi. “È tutto cambiato in sei anni. Stavo andando alla vecchia caserma, anche quella è nuova”, ha detto sorridendo prima di entrare nella nuova sede che ospita la stazione dei Carabinieri. Mesina avrà l’obbligo di firma giornaliero e non potrà uscire dalla propria abitazione dalle 22 alle 6.
“Dal giorno del suo arresto nel giugno del 2013 ad oggi sono sei anni esatti e Graziano Mesina è ancora in attesa di giudizio – ha dichiarato il suo legale, Maria Luisa Venier – Deve uscire dal carcere per decorrenza dei termini della custodia cautelare. La legge dice che un cittadino in Italia non può essere detenuto più di sei anni in condizione di misura cautelare. Mesina è ancora in attesa di giudizio. La sentenza della Corte d’appello di Cagliari con le motivazioni non è stata ancora depositata. Per cui la Corte d’appello ha disposto la scarcerazione. Ora resta libero fino alla sentenza definitiva della Cassazione”, ha concluso l’avvocato.
Mesina, 77 anni, conosciuto anche con il soprannome di Grazianeddu, era finito in carcere sei anni fa perché ritenuto a capo dell’organizzazione che si occupa di traffico internazionale di droga. Era stato processato e con sentenza d’appello a Cagliari, nel 2018, e condannato a 30 anni di reclusione. L’arresto del 2016 aveva provocato anche la revoca della grazia chiesta nel 2003 e ottenuta nel 2004 su autorizzazione dell’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.
Nato a Orgosolo nel 1942, Mesina è stato uno dei principali esponenti del banditismo sardo nel Novecento, coinvolto in numerosi crimini che gli erano costati l’ergastolo e protagonista anche di innumerevoli evasioni. Al processo d’appello a Cagliari aveva rilasciato alcune dichiarazioni nelle quali si era dichiarato innocente. “Quando ho commesso reati – aveva detto davanti alla Corte – me ne sono sempre fatto carico e non sono mai stato capo neppure negli anni Sessanta. Ma dopo la grazia non ho mai fatto nulla di ciò di cui vengo accusato”.

venerdì 7 giugno 2019

Giudice firma la sua assoluzione, Renzi la promozione a capo della Corte dei Conti. - Thomas Mackinson | 26 Febbraio 2015

Giudice firma la sua assoluzione, Renzi la promozione a capo della Corte dei Conti

Martino Colella, classe 1945, magistrato napoletano di lungo corso a un passo dalla pensione (che scatterà il 31 dicembre) giura: "Nessun collegamento tra le due vicende".

Il giudice firma la sua assoluzione in appello, Renzi la sua nomina a capo della Corte dei Conti. Sei giorni dopo la pubblicazione della sentenza che ha definitivamente assolto il Presidente del Consiglio per la vicenda dei portaborse assunti in Provincia il Governo, su proposta dello stesso Renzi e per decreto, ha ratificato la nomina del magistrato che presiedeva il collegio giudicante a Procuratore Generale della Corte dei Conti.

Si tratta di Martino Colella, classe 1945, magistrato napoletano di lungo corso a un passo dalla pensione. La sua promozione è arrivata neanche una settimana dopo il deposito della sentenza della I Sezione centrale d’appello di Roma, avvenuto il 4 febbraio, che sollevava il premier da ogni responsabilità sulla vicenda degli incarichi dirigenziali conferiti senza concorso né laurea al personale di staff della sua segreteria che era costata a Renzi due condanne per danno erariale. Non è un dettaglio. Proprio Colella ha firmato, insieme a quattro magistrati, l’assoluzione che il 7 febbraio ha provocato l’esultanza del diretto interessato (“La verità è ristabilita”) e non poche perplessità nel mondo del diritto, giacché le motivazioni sono ricondotte al fatto che era un “non addetto ai lavori” e quindi poteva non percepire l’illegittimità degli atti che autorizzava. Singolare non è solo la pronuncia che, come rilevato da più parti, rischia di spalancare le porte a un sistema diffuso di elusione della responsabilità erariale, mandando assolti i tanti politici “non addetti ai lavori”.

Il punto è che il giudice che presiedeva il collegio che a metà dicembre, in camera di consiglio, ha deciso il proscioglimento dell’imputato Renzi è lo stesso che un mese e mezzo dopo il presidente Renzi ha nominato PG della Corte, cioè capo di coloro che debbono indagare se sussistono ipotesi di danno erariale. La sentenza è stata depositata il 4 febbraio e la nomina è stata ratificata il 10, a margine del Cdm numero 49. “Su proposta del Presidente del Consiglio Matteo Renzi”, si legge nei documenti della riunione, vengono nominati un presidente aggiunto e il capo della Procura Generale della Corte dei Conti, con decorrenza a partire dal 25 marzo 2015. Il primo è Arturo Martucci di Scarfizzi. Il secondo è, appunto, Martino Colella. L’indicazione era stata avanzata il 13 gennaio dal Consiglio di presidenza della Corte dei Conti che ha deliberato all’unanimità e trasmesso i nominativi a Palazzo Chigi.

L’interessato, contattato dal Fatto, si dice certo che le due vicende siano distinte. “La Presidenza del Consiglio riceve la delibera e la formalizza”, spiega Colella che rivendica un cv di prima grandezza sugli altri sei presidenti di sezione in corsa: “Sono stato il più giovane vincitore del concorso per l’Avvocatura di Stato, ho vinto quello d’ingresso alla Corte a soli 26 anni. Dopo il terremoto dell’Aquila ho ricostruito e riorganizzato la sezione, sono presidente d’appello da oltre due anni e nel 2014 ho redatto e sottoscritto 115 sentenze (una è quella che ha assolto Renzi, ndr). Renzi non l’ho mai visto né sentito”. Di più, Colella giura di non aver ricevuto affatto regali dall’attuale Governo, anzi: “L’incarico che mi danno, grazie a questo governo, non comporta alcun guadagno aggiuntivo perché il mio stipendio è già al tetto dei 240mila euro lordi l’anno. Dovrò anzi restituirne 20mila. Sempre grazie a questo governo, poi, andrò in pensione il 31 dicembre prossimo rinunciando ai migliori anni della carriera”. Proprio così, l’altro aspetto curioso della vicenda è che il nuovo incarico durerà soltanto nove mesi e mezzo. Non è ancora partito, e già si parla del successore.

Sia come sia, le domande restano tutte: tra 600 magistrati contabili, possibile che sia stato scelto proprio quello che ha presieduto il collegio che un mese e mezzo prima ha mandato assolto il premier? Potevano ignorarlo i consiglieri della Corte? Proviamo dall’altra parte: poteva non sapere Renzi che stava ratificando la nomina del suo giudice a Berlino? Proprio alla luce delle motivazioni della sentenza vergate dal collegio di Colella si direbbe che sì, tutto è possibile. Così come non si era accorto di aver firmato delle nomine illegittime di portaborse, perché in fondo non era un addetto ai lavori, è possibile che non si sia accorto di aver promosso il giudice che lo ha assolto. Renzi, presidente di Provincia e del Consiglio. Ma sempre a sua insaputa.
Dal Fatto Quotidiano del 26 febbraio 2015.
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO. 
Nomina del Procuratore Generale, precisazione su articolo di stampa.
Relativamente a quanto riportato in un articolo di stampa nel quale sono contenute alcune illazioni particolarmente gravi e prive di ogni fondamento nei confronti della Corte dei conti, l’Ufficio stampa precisa quanto segue.La nomina del Procuratore Generale della Corte dei conti è disposta dal Consiglio di presidenza – a seguito di un’apposita procedura concorsuale – e formalizzata con un Decreto del Presidente della Repubblica, controfirmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Nello specifico, alla procedura concorsuale bandita dal Consiglio di presidenza il 17 dicembre 2014, hanno partecipato sette Presidenti di Sezione della Corte dei conti. All’esito delle audizioni personali degli interessati e valutati i fascicoli e i curricula dei singoli candidati, il Consiglio di presidenza, nell’adunanza del 13-14 gennaio 2015, ha nominato, all’unanimità, Procuratore Generale della Corte dei conti il Presidente di Sezione dott. Martino Colella, peraltro già primo nella graduatoria parziale elaborata sulla base dell’anzianità di servizio e della professionalità specifica, in considerazione dell’elevatissimo spessore professionale e dell’indiscusso prestigio dello stesso.
Corte dei conti – Ufficio stampa
LA REPLICA DELL’AUTORE. 
Riceviamo la nota e volentieri pubblichiamo. Rileviamo che la ricostruzione dell’articolo e della nota sono sostanzialmente identici nella definizione delle date e delle procedure che hanno portato il presidente Colella a capo della Procura Generale della Corte dal prossimo 25 di marzo. Proprio per fornire una ricostruzione esatta dei fatti e anche una spiegazione delle circostanze con cui è avvenuta la procedura abbiamo provveduto a contattare il presidente Collela dando ampio spazio alla sua posizione in merito. Aggiungiamo, per completezza, quello che la nota non dice. E cioé che a sei giorni dal deposito della sentenza, avvenuto il 4 febbraio, il Presidente del Consiglio ha formalizzato la delibera di nomina del magistrato che a metà dicembre ha presieduto il collegio che l’ha mandato assolto.
T.M.

giovedì 6 giugno 2019

Noa.

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Dover ascoltare i vescovi che disquisiscono sul caso Noa, stuprata da bambina e morta a causa dei disturbi provocati dallo stupro, è insopportabile!
Molti bambini restano profondamente turbati dalle porcate che commettono proprio i ministri della chiesa nei loro confronti. Che facciano un mea culpa e tacciano.

Cetta.

Fucilati dai giornali, un prezzo che i Cinque Stelle pagano caro. Mai vista tanta stampa ostile. - Paolo Di Mizio



Il M5S non ha organi di stampa amici, se si eccettuano un paio di testate non ostili (tra le quali questa), e tanto meno televisioni amiche. È evidente che fin dalla campagna elettorale dell’anno scorso, e anche prima, è stato il M5S, non la Lega, l’oggetto principale dell’aggressione da parte dei giornaloni (tutti pro-Pd) e dell’apparato mediatico nel suo insieme.
Perché? Perché la Lega è omologata al sistema politico preesistente, quello del pre-grillismo per intenderci. Quindi la Lega è un avversario (del Pd e dei giornaloni), ma un avversario “naturale”: si muove nello stesso ring, fa parte dello stesso universo, rientra in una funzione antitetica (tesi-antitesi, sinistra-destra), fisiologica in un sistema di potere. Invece i 5 Stelle sono un corpo estraneo e, perciò, potenzialmente, una minaccia mortale. Sono i barbari che invadono la Cristianità e non hanno rispetto per la Croce.
Il potere economico, che controlla l’editoria, lo ha capito subito. Tutta l’artiglieria è stata subito puntata ad alzo zero contro i grillini. Non solo i giornaloni amici del Pd (Corriere della SeraLa StampaLa RepubblicaIl Sole 24 OreL’Espresso), ma anche tutti gli altri giornali di complemento (Il MessaggeroIl GiornoIl Resto del CarlinoLa NazioneIl Secolo XIXIl GazzettinoIl Mattino di NapoliLa Gazzetta del MezzogiornoIl Giornale di Sicilia, ecc., che per altro fanno capo a tre o quattro editori soltanto).
Anche le batterie della Lega e del centrodestra hanno sparato ad alzo zero: LiberoIl GiornaleIl Tempo di Roma e, pur con ammirevole moderazione, La Verità di Belpietro. Lo stesso dicasi per tutte le reti televisive Rai, Mediaset, Sky e La7, sia nei telegiornali sia negli spazi di dibattito e approfondimento (rassegne stampa e talk show, anche qui con poche eccezioni, come la trasmissione Coffee Break di Andrea Pancani, che da tempi non sospetti ha cercato un equilibrio tra tutte le parti politiche, invitando per questo molto spesso il direttore de La NotiziaGaetano Pedullà).
La grande ingenuità dei grillini è stata quella di credere che, dopo aver occupato la roccaforte del potere politico, e quindi economico, ossia il governo, questa potesse essere detenuta stabilmente senza impossessarsi dei cannoni, ossia di una quota adeguata dei mezzi di comunicazione. Immaginavano che sarebbe bastata la cavalleria leggera dei social media. Ma il risultato si è visto alle elezioni europee: come nella carica di Balaclava, l’artiglieria pesante ha falcidiato la cavalleria leggera: morti e feriti, sei milioni di elettori. Non è stato il solo errore del M5S, ma probabilmente l’unico davvero fatale.
La strada da seguire sarebbe stata ben diversa. Non trasudare disprezzo per i giornali, ma al contrario attuare una strategia dell’attenzione. Far balenare agli editori che dall’ostilità avrebbero avuto qualcosa da perdere (legge sul conflitto d’interessi, per esempio). Non lasciare le leve della Rai nelle mani delle vecchie stratificazioni partitiche. E nel contempo, coltivare un sistema editoriale di area, capace di elaborare e fare “cultura”, ossia di fornire una narrazione diversa. Insomma, sarebbe servita una riflessione più profonda sul tema. Se così fosse stato, oggi il Movimento Cinque Stelle non sarebbe disarmato di fronte al ritorno dei vecchi poteri forti.

“LA NUOVA PD 2” - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 6 giugno 2019



Apprendiamo sgomenti che lo scandalo che investe il Csm è “come quello della P2”. Parola di Giuseppe Cascini, leader della corrente progressista Area, che ringrazia il presidente Sergio Mattarella e il vicepresidente David Ermini per averci salvati dalla nuova P2, spingendo fuori chi ne era stato infettato.
In effetti era dal 1981, cioè dalla pubblicazione delle liste di Licio Gelli, che non rotolavano tante teste al Csm: al momento cinque consiglieri, uno dimissionario perché indagato e quattro autosospesi per aver discusso del nuovo procuratore di Roma con Luca Lotti, Cosimo Ferri e Luca Palamara. Cioè con due deputati del Pd e col leader della corrente Unicost. Dei tre, gli intrusi erano i primi due: Palamara faceva il suo sporco mestiere di capocorrente, come tutti i capicorrente da che mondo è mondo e Csm è Csm. Almeno finché le correnti non verranno stroncate con l’unica riforma in grado di neutralizzarle: il sorteggio dei membri togati e la cancellazione della quota parlamentare, che porta nel Csm gl’interessi dei partiti.
Ma torniamo alla “nuova P2”. Se, come dice Cascini, esiste ed è stata respinta con la ritirata delle toghe in contatto con Lotti e Ferri, non si scappa: la “nuova P2” sono Lotti e Ferri. B. e i gialloverdi non c’entrano nulla: c’entra solo il Pd. Eppure del Pd non si parla e il Pd non parla (i possibili motivi del silenzio li spiega Lillo a pag. 4). Se quattro membri del Csm si autosospendono senz’aver commesso reati, ma solo per aver parlato con Lotti e/o Ferri, possibile che il Pd non dica nulla su Lotti e Ferri? Che Zingaretti non chieda loro di dimettersi? E che nessun giornalone associ la “nuova P2” al Pd e chieda al segretario di disinfettarlo dai neopiduisti?
Lotti e Ferri non sono due marziani insospettabili, che nessuno immaginerebbe a impicciarsi in nomine togate. Lotti, lo spicciafaccende di Renzi, è imputato per rivelazione di segreti e favoreggiamento nel processo Consip e ciononostante, o forse proprio per questo, fu promosso da Gentiloni e Mattarella ministro dello Sport (quand’era già indagato) e ricandidato in un posto sicuro alle elezioni del 2018.
Ferri, figlio del ministro dei 110 all’ora, magistrato, ras di Magistratura indipendente, presenza fissa nelle intercettazioni di gravi scandali (P3, Calciopoli, i traffici di B. e Agcom contro Annozero), divenne sottosegretario alla Giustizia in quota B. nel governo Letta, poi restò lì in quota Verdini nei governi Renzi e Gentiloni, infine Renzi lo impose come candidato sicuro alle elezioni del 2018. Eppure lo stesso Renzi l’aveva definito “indifendibile” per un altro scandalo.
Nel 2014 Ferri era stato beccato a inviare centinaia di lettere agli ex colleghi in toga per invitarli, da sottosegretario, a votare al Csm due Carneadi di MI suoi amici, puntualmente eletti. Di Lotti e di Ferri, dunque, si sapeva tutto: due personaggi al di sotto di ogni sospetto. Il Fatto li inserì nella lista degli impresentabili alle elezioni del 4 marzo, ovviamente in beata solitudine: quelli che oggi menano scandalo tacevano e acconsentivano.
Ora indovinate un po’: chi tirò i fili, nel settembre scorso, dell’elezione a vicepresidente del Csm del deputato renziano Ermini, che ora ci avrebbe salvati dalla “nuova P2”? La “nuova P2”. Cioè Lotti e il suo Pd, Ferri e la sua MI, Palamara e la sua Unicost. Il Plenum doveva scegliere fra Alberto Maria Benedetti, un docente mai iscritto a partiti, indicato come laico dai 5Stelle.
Finì 13 a 11: per Ermini votarono il Pd (cioè lui), i 10 togati di MI e Unicost e i due capi della Cassazione (Mammone di MI e Fuzio di Unicost); per Benedetti, i laici di M5S e Lega, i togati di Area e di AeI (Davigo e Ardita).
Fu così che, col plauso dei giornaloni, fra un vicepresidente apolitico e un deputato renziano come Ermini, la maggioranza del Csm preferì il secondo. Quello che aveva passato gli ultimi due anni ad attaccare i magistrati che avevano osato indagare sul padre e i compari di Renzi coinvolti nello scandalo Consip (“Notizie di una gravità inaudita. Prima si prende di mira Renzi e poi si lavora sulle indagini? Ci sono mandanti?”, “Scafarto non può aver fatto tutto da solo… vogliamo i mandanti”, “Inchiesta inquietante per colpire l’allora presidente del Consiglio Renzi”, “Un atto gravissimo, una caccia all’uomo per attaccare un organo dello Stato”). E oggi viene spacciato per il salvatore della patria dalla “nuova P2”, cioè dagli amici che l’hanno fatto eleggere appena otto mesi fa.
Ieri, mentre Zingaretti pigolava “chiedo chiarezza”, solo l’ex procuratore antimafia Franco Roberti, ora eurodeputato indipendente del Pd, ha squarciato il muro dell’omertà e dell’ipocrisia, chiedendo la condanna politica di Lotti e Ferri e ricordando gli effetti devastanti della “riforma” Renzi che prepensionò per decreto centinaia di magistrati per impossessarsi delle Procure-chiave. Se l’indagine su Palamara fosse scattata mesi o anni fa, durante la nomina dei dirigenti di altri uffici giudiziari, avrebbe squadernato le stesse contiguità e complicità fra magistrati e politici, e magari pure le interferenze del Quirinale. Che, ai tempi di Napolitano, interferiva addirittura in pubblico, con lettere e comunicati (dal caso De Magistris allo scontro Robledo-Bruti Liberati allo scandaloso stop al voto sul procuratore di Palermo perché – anche allora – il Csm intendeva bocciare Lo Voi e votare il più titolato Lo Forte): figurarsi in privato.
Ps. Ieri, su Repubblica, Carlo Bonini è tornato a calunniare il Fatto (“macchina del fango”) perché abbiamo dato notizie che lui preferisce occultare. È lo stesso giornale che il 23 maggio, per questa partita scandalosa tutta targata Pd, titolava, restando serio: “Destra e gialloverdi alla conquista della Procura di Roma”.
Vergogniamoci per loro.

Caos procure, Robledo: “Sentenza di Palamara mi allontanò da Milano. Ci fu intervento a gamba tesa di Napolitano”.

Caos procure, Robledo: “Sentenza di Palamara mi allontanò da Milano. Ci fu intervento a gamba tesa di Napolitano”

L'inchiesta degli inquirenti di Perugia - per corruzione, favoreggiamento e rivelazione di segreto - ha riacceso lo scontro tra l'ex procuratore di Milano e l'ex responsabile del dipartimento per i reati contro la pubblica amministrazione: "Bruti Liberati dovrebbe avere il buon gusto di tacere".

L’inchiesta sui magistrati Palamara, Fava e Spina e le conseguenze dell’inchiesta della procura di Perugia – per corruzione, favoreggiamento e rivelazione di segreto – su Csm e Anm ha riacceso lo scontro che è passato alla storia della cronaca giudiziaria come la guerra della procura di Milano. L’ex aggiunto del Dipartimento per i reati contro la pubblica amministrazione, Alfredo Robledo, ricorda come e quanto il Csm ha influito sulla sua carriera: il magistrato dopo una “battaglia” con il procuratore Edmondo Bruti Liberati era stato trasferito a Torino e dopo aver lasciato la magistratura è diventato presidente di una società: “Bruti Liberati, magistrato più noto per l’attività correntizia che per quella giudiziaria, rispetto alla vicenda Palamara dovrebbe avere il buon gusto di tacere. Ricordo solo come nel caso della mia nomina a Procuratore Aggiunto della Procura di Milano mi disse espressamente che avrei dovuto seguire le sue indicazioni perché la mia nomina era stata resa possibile dal voto di differenza di un consigliere di Magistratura Democratica, aggiungendo che lui avrebbe potuto far uscire dall’aula al momento del voto quel consigliere della sua corrente dicendogli di andare a fare la pipì ed io non sarei stato nominato. È tutto agli atti della mia denuncia al Csm – dichiara Robledo, ora numero uno della Impresa Sangalli Srl – Bruti non ha mai smentito queste mie affermazioni. Il Consiglio superiore della magistratura sul punto non fece una piega”. 

L’ex magistrato ricorda come peraltro di quel Consiglio, che di fatto lo punì, “faceva parte Palamara, estensore della sentenza, ritenuta molto ‘controversa’, che mi allontanò da Milano. Sono anche da ricordare l’intervento a gamba tesa del Presidente Napolitano – ha aggiunto Robledo – che condizionò il Consiglio sulle decisioni prese circa le mie documentate critiche a Bruti, e i ripetuti ringraziamenti dell’allora capo del governo, Renzi, alla Procura di Milano, che, mostrando sensibilità istituzionale, aveva reso possibile la realizzazione di Expo 2015″. Nel giugno di cinque anni il Csm aveva rinviato la decisione sullo scontro interno alla Procura di Milano e aveva discusso su una lettera “segreta” dell’allora capo dello Stato. Il presidente della Repubblica, e per Costituzione presidente dello stesso Csm, aveva inviato all’allora vicepresidente Michele Vietti una lettera che richiamava la legge di riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 proprio sul punto degli ampi poteri riconosciuti ai capi delle procure. Ovvero il punto centrale dell’esposto presentato da Robledo contro il procuratore  Liberatiin cui venivano contestati i criteri di assegnazione di fascicoli importanti, dal caso Ruby all’inchiesta Expo.
Le dichiarazioni di Robledo sono arrivate dopo che le agenzie di stampa avevano riportato i commenti e le riflessioni di Bruti Liberati sul caso dell’ex presidente dell’Amn e consigliere del Csm, Palamara, e tutte le due derivazioni di questi giorni – con gli incontri tra toghe e politici e l’ex numero uno della procura milanese: “È un fatto di una straordinaria gravità, ricorda molto la vicenda della P2 del 1981, una vicenda di inquinamento gravissimo. C’è schieramento trasversale tra magistrati e politici” che sembra avere un unico “scopo principale, quello di cancellare una damnatio memoriae, di cancellare la memoria di Pignatone“. Contro Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo, secondo gli inquirenti umbri sarebbe stata orchestrata una manovra per screditarli. 
Ma, aggiunge Bruti durante la trasmissione Agora’ su Rai3, “Qui il problema non è di frequentazioni di magistrati con politici” poiché i magistrati “che hanno alto livello di responsabilità hanno più di un’occasione di incontri istituzionali”. Incontri nei quali, conclude, “si deve parlare dei problemi della giustizia, ma di problemi generali di funzionamento della giustizia, non certo di intervento per una nomina che favorisca o sfavorisca qualcuno. Qui la distinzione è così semplice che credo la capiscano tutti. È una distinzione nettissima”.

Fragalà, il boss diceva: “Riprendiamoci Pomezia”. Con l’aiuto del consigliere del Pd oggi assunto alla Regione. - Vincenzo Bisbiglia e Marco Pasciuti

Fragalà, il boss diceva: “Riprendiamoci Pomezia”. Con l’aiuto del consigliere del Pd oggi assunto alla Regione

Alessandro Fragalà, capo della presunta associazione mafiosa smantellata dalla Dda di Roma, puntava a mettere i suoi uomini in comune. Al progetto, secondo i magistrati, partecipava Omero Schiumarini, "uno di casa", nel 2013 candidato sindaco sconfitto al ballottaggio da Fabio Fucci del M5s. E oggi consigliere comunale dem e dipendente per chiamata diretta della presidenza del consiglio della Pisana.

Il boss nel 2015 puntava a “riprendersi il comune di Pomezia“, conquistato due anni prima dal M5s, e a farlo con l’aiuto di un esponente del Partito democratico. Che oggi è dipendente a chiamata diretta della presidenza del consiglio della Regione Lazio. Dalle carte dell’inchiesta della Dda di Roma che ha portato all’arresto di 31 persone per una lunga serie di accuse tra cui l’associazione di tipo mafioso, emerge la “zona grigia” in cui nell’area sud della Capitale gli interessi di politici e professionisti si mescolano a quelli della criminalità organizzata.
Oggi è consigliere comunale, eletto con il Pd. Nel 2013 Omero Schiumarini aveva corso e perso per diventare sindaco Pomezia in una lista civica appoggiata dai dem. Tra i Fragalà si autodefinisce “uno di casa“. Non risulta indagato, ma secondo i magistrati nel 2015 era “interlocutore privilegiato sin dal momento della detenzione domiciliare” del boss Alessandro, finito di nuovo in manette ieri perché ritenuto capo dell’associazione mafiosa. Mentre quest’ultimo era costretto tra le mura domestiche Omero era andato a trovarlo almeno due volte, il 12 giugno e l’8 settembre, entrambe in compagnia di Astrid, che di Alessandro è figlia e che nel 2009 grazie al politico era diventata presidente di Confcommercio Roma Sud. “L’ho protetta come una sorella – racconta Schiumarini, un passato politico anche in Forza Italia – l’ho nominata presidente dei Commercianti”.
Ma non solo: secondo i pm Schiumarini, che in quella tornata era stato sconfitto al ballottaggio da Fabio Fucci del Movimento 5 stelle, aveva provato a imporre Astrid come assessore in un comune poco distante dove il cognome Fragalà non era noto: “Tu sei stata in lista per fare l’assessore ad Anzio – ricorda il politico alla figlia del boss, finita agli arresti questa mattina – tu quello che sei qui è una cosa, a … a quaranta chilometri … non c’è il collegamento!”. E la famiglia ringraziava sentitamente: “Io ti devo dire ‘Omero grazie’ – gli dice papà Alessandro quel 12 giugno – perché hai preso per mano una ragazza che meritava di essere presa per mano”. E soprattutto perché Schiumarini era un tassello fondamentale del suo piano: “Posizionare membri del sodalizio più ‘presentabili’ – annotano i magistrati – al fine di ottenere ruoli di carattere politico-amministrativo“.
Il disegno dei Fragalà, gente capace secondo gli inquirenti di stipulare un patto “federativo” con i Casalesi, i Fasciani e Senese, è chiaro. Lo illustra il boss in prima persona, e del progetto deve far parte anche un ex consigliere comunale di Pomezia, Fiorenzo D’Alessandri, già consigliere dei Democratici di Sinistra e più volte candidato dal Pd: “Devo dire a Omero che deve collaborare con lui – spiega Alessandro ad Astrid – deve collaborare con lui per riprendersi il comune di Pomezia”.
La strategia è delineata: “Omero si deve mettere da parte – prosegue il patriarca – deve comandare lui però con la faccia di un altro (D’Alessandri, ndr), marcarlo stretto ci favorisce a noi“. Noi inteso come Fragalà. E il nome deve pesare: “A me interessa che lui (D’Alessandri, ndr) c’abbia un Fragalà là dentro, cioè mia figlia”. Perché in questo modo “chiunque va là, vede a mia figlia là dentro dice ‘è coperto’. Chiunque si avvicina a Fiorenzo (dice) ‘cazzo, ho visto Astrid là dentro, ma che ci sta Alessandro dentro?'”. Tradotto: con la presenza di Astrid nei suoi uffici, tutti avrebbero capito che l’ex consigliere comunale era passato sotto la protezione dei Fragalà.
Gli effetti della vicinanza con la famiglia del boss si facevano vedere in breve tempo: “Persone che manco mi guardavano in faccia, che ora salutano, che vanno verso mia moglie a salutare”, confida D’Alessandri a Fragalà l’11 novembre 2015. Ma la presenza non basta. Il capo clan punta più in alto, a entrare nella stanza dei bottoni: vuole che Astrid diventi membro della giunta. “Sceglierà e dirà ‘questa è l’assessore al commercio‘. Perché? Perché sta già là dentro”. In tutto questo Schiumarini ha un ruolo preciso: “Omero deve fare solo praticamente quello che io gli dico di fare – spiega intercettato il 16 ottobre 2015 – Omero deve fare quello che gli dico di fare”. Repetita iuvant, non si sa mai.
Secondo i magistrati il boss poteva stare tranquillo, perché la fedeltà di Schiumarini “non era solo a parole”: “L’ascesa di Astrid Fragalà – annotano i pubblici ministeri nella richiesta delle misure cautelari – era frutto dell’aiuto prestato da Omero, che naturalmente lo rivendicava davanti al capo clan al punto da definirsi ‘uno di casa‘”. E Alessandro delineava i contorni del circolo della fiducia: “Per famiglia io intendo non solo quelli che si chiamano Fragalà e basta, per famiglia intendo persone che possono stare al tavolo con me e possono stare seduti al divano con me”.
Oggi Schiumarini lavora alla Regione Lazio. Dal 1° gennaio 2019 stato assunto con chiamata diretta (articolo 12 del regolamento del Consiglio regionale) a tempo determinato nell’Ufficio Tecnico Europa, che si occupa della gestione dei fondi europei. L’ufficio è di diretta competenza del presidente del Consiglio, che all’epoca dell’inizio del contratto era Daniele Leonori, oggi vice.
Eppure Schiumarini non è un nome sconosciuto, specie negli ambienti giudiziari. Nel 2001 era stato arrestato nell’ambito dell’operazione “Bignè“, la cosiddetta “tangentopoli pometina”, con l’accusa di corruzione in concorso tra gli altri con D’Alessandri, all’epoca capogruppo dei Ds. Nella stessa inchiesta era finito coinvolto Alessandro Fragalà con l’accusa di estorsione aggravata. Nel 2009 il processo finì nel nulla per intervenuta prescrizione e l’intera vicenda si concluse nel 2014, quando la Corte d’Appello di Roma respinse il ricorso presentato da alcuni imputati per vedersi riconosciuta l’assoluzione con formula piena: il tribunale, scrivevano i giudici motivando il rigetto, “ha chiaramente motivato che (…) vi era adeguata prova della reità di tutti gli imputati”.