venerdì 23 aprile 2021

Il piano Draghi da 221 miliardi. Dal superbonus alla banda larga. -

 

Da sciogliere i nodi della governance. Le misure valgono 3 punti di Pil.


Mario Draghi porta in Consiglio dei ministri un Piano nazionale di ripresa e resilienza da 221,5 miliardi totali, di cui 191,5 riferibili al Recovery fund e 30 miliardi per finanziare le opere "extra Recovery". La spinta stimata alla crescita è di 3 punti di Pil nel 2026.

L'obiettivo, secondo le slide inviate dal ministro Daniele Franco ai colleghi ministri, è non solo "riparare i danni della pandemia" ma affrontare anche "debolezze strutturali" dell'economia italiana. Il grosso del piano è definito, con 135 linee di investimento. E l'impianto "non cambierà", sottolineano dal governo, di fronte alla mole di richieste che emerge in queste ore dai partiti. Il M5s annuncia battaglia sul Superbonus (chiesto a gran voce anche da Confindustria), ma per ora senza ottenere modifiche. Il Pd vuole vederci chiaro sulla Rete unica, FI chiede welfare per le famiglie, la Lega annuncia che presenterà in Cdm "altri progetti da aggiungere" al Pnrr.

E resta da sciogliere il nodo della governance del piano, che agita i ministri. Tutto ciò in un clima sempre più teso in maggioranza, dopo l'astensione della Lega sul decreto per le aperture. All'indomani del netto stop al tentativo di Matteo Salvini di modificare l'accordo raggiunto nel governo sulle aperture, Draghi - che descrivono seccato per quanto accaduto - registra un clima costruttivo nella riunione della cabina di regia sul Recovery che in mattinata vede al tavolo tutti i capi delegazione, incluso il leghista Giancarlo Giorgetti. Non si parla del tema aperture, che vede forte il pressing delle Regioni sulla scuola, ma è chiaro a tutti che il premier non intende tornare indietro. E in serata il decreto bollinato non presenta modifiche sostanziali rispetto a quanto approvato in Cdm, a partire dal coprifuoco. Certo, spiegano da Palazzo Chigi, il governo darà chiarimenti ai dubbi delle Regioni e ogni quindici giorni si faranno verifiche sui dati per decidere eventuali ulteriori aperture. Dunque se i dati sul contagio e sui vaccini continueranno a migliorare, il coprifuoco alle 22 non durerà fino al 31 luglio.

Ma che ci sia un problema, è opinione unanime tra gli alleati di governo. La tensione è altissima. Dal Pd trapela irritazione per il metodo leghista, di lotta e di governo: "O dentro o fuori", è il messaggio di Enrico Letta, che rilancia la proposta di un patto modello Ciampi per la corresponsabilizzazione degli alleati di governo, per cogliere l'occasione storica del Recovery. I Dem affermano che l'uscita leghista riflette la difficoltà di Salvini rispetto a Giorgia Meloni, che guadagna consensi all'opposizione. Certo, affermano fonti parlamentari di centrosinistra, non sarebbe poi così male se la Lega decidesse di uscire dal governo, lasciando con Draghi una maggioranza "Ursula", con la sola FI. Ma la risposta leghista è netta: restiamo assolutamente nel governo. Salvini e Giancarlo Giorgetti negano anche distanze tra di loro: c'è stata, assicurano i loro staff, "sintonia totale" sull'astensione in Cdm. Il tentativo è accreditarsi come interlocutore fondamentale di Draghi in maggioranza. Il leader leghista, che tiene alti i toni, fa sapere che i suoi contatti con il premier sono diretti, annuncia una nuova telefonata (a sera non risulta avvenuta). Come si possa andare avanti con continui strappi, però, ci si interroga a vari livelli nel governo. Il precedente è "grave", ha annotato Draghi. Il rischio è che lo strappo che si ripeta presto. Perché alla vigilia dell'approdo in Cdm del Recovery plan, la Lega fa trapelare irritazione per la consegna dei documenti a ridosso dell'esame e fa sapere, dopo un vertice di Salvini con i ministri, che intende aggiungere alcuni progetti al piano, raccogliendo "richieste dai territori" in particolare sulle infrastrutture. Se si fa il paio con i toni battaglieri del M5s sulla necessità di prorogare il Superbonus fino al 2023, fino a definire l'intervento "essenziale" per sostenere il Pnrr, si concretizza il rischio di un dibattito burrascoso da qui all'invio del Pnrr in Europa il 30 aprile.

Draghi nelle prossime ore farà la sua informativa in Cdm sul Pnrr e ascolterà le proposte che verranno messe sul tavolo, ma il Piano - viene sottolineato da Palazzo Chigi - nell'impianto non è destinato a cambiare. Il via libera arriverà solo dopo un secondo Consiglio dei ministri, che si svolgerà a metà della prossima settimana, dopo l'informativa che il premier svolgerà lunedì e martedì alle Camere. Italia viva, lette le tabelle del piano, esulta: "Prima era un elenco di spese, oggi è un piano per rilanciare il Paese". Ma gli altri partiti chiedono aggiustamenti, spiegando di non aver letto ancora il testo completo del Pnrr (il primo draft sarebbe stato scritto in inglese). Ci sono per la digitalizzazione 42,5 miliardi; per il Green 57 miliardi (il 30% del totale); per infrastrutture 25,3 mld; per istruzione e ricerca 31,9 mld; per inclusione e coesione con 19,1 mld; per la salute con 15,6 mld (in totale 19,7 miliardi, sommando altri fondi). Ma il Pd, rappresentato al tavolo da Andrea Orlando, chiede "attenzione alle clausole per l'occupazione delle donne e dei giovani, al Mezzogiorno, il potenziamento del progetto per l'autosufficienza, la garanzia sulla sicurezza per il cloud dei dati pubblici, la richiesta di chiarimento sulla strategia per la rete unica". Fonti di governo di FI spingono su Sud, Pa, partecipazione degli enti locali all'attuazione del piano. Leu dice no a interventi che possono portare più inquinamento. Da 'fuori', anche Confindustria chiede la proroga del Superbonus. Il dibattito è appena agli inizi.

ANSA

“Renzi sr. mi indicò russo, ma Romeo non me lo ricordo”. - Marco Lillo e Valeria Pacelli

 

Ai magistrati. Chierichetti: “Mi sarò limitata a passare il numero a Lotti, non mi chiese di prendere contatti”.

Lunedì prossimo ci sarà l’udienza preliminare dell’indagine Consip. Il Gup Annalisa Marzano dovrà decidere se e chi dovrà andare a processo e chi dovrà essere prosciolto.

La questione più delicata dal punto di vista politico è quella di Tiziano Renzi. Insieme all’imprenditore campano, Alfredo Romeo, e ad altri rischia il processo per traffico di influenze e turbativa di gara.

Intanto però la Procura di Roma, in questi mesi – dopo la chiusura dell’inchiesta di dicembre scorso – ha svolto un’attività integrativa d’indagine. I nuovi accertamenti nascono da un’informativa depositata nel procedimento napoletano, sempre su Romeo ma per altri fatti, che riguardava i messaggi trovati nel telefonino di Carlo Russo, amico di Tiziano Renzi, anche lui indagato. Il 1° febbraio, dopo l’acquisizione dell’informativa napoletana, è stata interrogata, come persona informata sui fatti, Eleonora Chierichetti, ex collaboratrice di Matteo Renzi quando era sindaco di Firenze e poi approdata nella segreteria di Luca Lotti a Palazzo Chigi. Per capire perché la Procura ha deciso di sentire la Chierichetti, bisogna dunque tornare all’informativa dei carabinieri napoletani. Il 10 aprile 2015, secondo i carabinieri, Tiziano Renzi “comunicava a Russo il numero del cellulare di Eleonora Chierichetti”. Due ore dopo aver ricevuto il contatto da Tiziano Renzi, Russo scrive: “Eleonora buongiorno, scusa se ti disturbo. Posso chiamarti? Grazie, Carlo Russo”. Tre giorni dopo, il 13 aprile 2015, Paola Grittani, collaboratrice di Romeo, invia a Russo il numero della Romeo Gestioni. “Dr. Ecco il numero della segreteria dell’avvocato. Si preoccuperanno di passare la telefonata n. 081******* saluti”. Due minuti dopo, Russo invia quel numero al cellulare della Chierichetti: “081******* avv. Romeo”.

Questi messaggi vanno contestualizzati. Un mese prima di quegli sms, il 4 marzo 2015, Russo porta Alfredo Romeo dal tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi (non indagato, che dice di aver parlato di un finanziamento lecito al Pd, da lui rifiutato). Il 22 aprile 2015 – 8 giorni dopo l’invio del sms di Russo a Chierichetti – Russo e Tiziano Renzi incontrano l’Ad allora in carica di Consip, Domenico Casalino, in un bar di Roma.

Tre mesi dopo quell’sms, Tiziano, Russo e Romeo si incontrano il 16 luglio 2015 a Firenze. Nella settimana successiva, Tiziano organizza un incontro con ‘il colorato’, alias, secondo i pm, l’appena nominato Ad di Consip, Luigi Marroni. Poi, secondo Marroni, Tiziano gli raccomanda Russo e questi gli fa pressioni per la gara Fm4 in favore di una società. Quale? Marroni esclude Romeo ma non ricorda il nome.

Il 1° febbraio scorso la Chierichetti, sentita come testimone, ha spiegato: “Premetto di conoscere Tiziano Renzi sin da quando ero bambina perché siamo dello stesso paese. Durante il governo di cui era presidente suo figlio Matteo, in numerose occasioni(…) ho avuto modo di sentirlo telefonicamente; in particolare spesso Tiziano (…) mi chiamava per chiedere di fissare appuntamenti tra persone che lui mi segnalava e il sottosegretario e poi ministro Lotti. Normalmente non mi specificava le ragioni di questi appuntamenti, solo a volte specificava il ruolo ricoperto da queste persone”.

Tra i “nominativi” indicati da Tiziano Renzi, spiega la donna, c’era dunque Russo. “Anche in epoca successiva, sempre presentandosi come persona accreditata da Tiziano Renzi – aggiunge la donna – Russo chiese più volte, anche in modo insistente, di essere ricevuto da Luca Lotti, tanto nel periodo in cui questi era sottosegretario alla Presidenza quanto nel periodo in cui era ministro. Ricordo perfettamente, come peraltro è successo per altre persone, che Lotti mi disse di non avere interesse a incontrarlo e pertanto, come non di rado mi è accaduto in situazioni simili al fine di interrompere seppure cortesemente questa insistente richiesta di colloqui, ho provveduto a riceverlo io”.

La Chierichetti dice di averlo ricevuto due o tre volte “nell’arco di due o tre anni”, in un bar in Galleria Colonna a Roma. “(…)È possibile che in quelle circostanze, sia pure fugacemente, Russo possa avermi fatto cenno ai motivi di queste sue insistenti richieste di colloquio, ma non ne ho affatto memoria”. Per la Chierichetti, quindi, Lotti non incontrò mai Russo.

Un dato che è un po’ dissonante con una circostanza già rivelata dal Fatto: nell’ottobre 2014, Michele Emiliano chiedeva a Lotti se fosse il caso di incontrare un tal Carlo Russo che si accreditava come amico suo. E Lotti rispondeva via sms: “‘Lo conosciamo (…) Ha un buon giro ed è inserito nel mondo della farmaceutica. Se lo incontri per 10 minuti non perdi il tuo tempo’”.

Ma torniamo al verbale della Chierichetti. Pur non ricordando il contenuto delle conversazioni con Russo, la donna dice di non poter “escludere che in una di queste circostanze possa aver nominato Romeo, ma allora questo nominativo non mi diceva nulla”. “Precedentemente alla diffusione di notizie sulla stampa che legavano Alfredo Romeo a Consip – aggiunge in un altro passaggio del verbale la Chierichetti – e che hanno portato al coinvolgimento nelle indagini di Lotti non sapevo neppure chi fosse Romeo. (…) Quando ricevetti questo numero come era prassi per comunicazioni di questo tipo, mi sarò limitata a comunicarlo a Lotti (…). Dopo aver comunicato questo numero non sono stata onerata di prendere contatti né in quella circostanza né successivamente”. L’ex ministro oggi al Fatto esclude di aver ricevuto il numero di Romeo che mai ha conosciuto.

Al Fatto Romeo a gennaio ha raccontato una versione che stride con quella resa a febbraio al pm da Chierichetti. L’imprenditore ha spiegato che l’obiettivo era invitare Matteo Renzi a un convegno che stava organizzando: “Per il convegno mi aveva chiamato in aprile (2015) anche una signora della Segreteria di Palazzo Chigi. Mi aveva dato assicurazioni ma non se ne fece niente”. Romeo non fa il nome della Chierichetti ma sembra probabile che riferisca a lei.

Il punto è che, se Romeo dice il vero, non era Lotti, bensì Matteo Renzi, il suo ‘obiettivo’ quando nell’aprile 2015 cercava un contatto telefonico con Palazzo Chigi, organizzato da Carlo Russo. Dunque la domanda da fare a Eleonora Chierichetti è sempre la stessa: lei ha dato a qualcuno quel numero? A Lotti, a Renzi o a chi?

Se ci sarà un processo sarà la sede per proporla.

ILFQ

Draghi e Letta augurino lunga vita ai 5stelle. - Antonio Padellaro

 

Secondo lo stupidario politico in voga, l’autoprodotta video-catastrofe di Beppe Grillo, con successiva lapidazione del suddetto, dovrebbe comportare la rapida dissoluzione dei 5stelle, del resto giudicati in avanzato sfacelo. Oltre, di conseguenza, al fallimento di Giuseppe Conte, impegnato nella difficile rifondazione del Movimento. Con il suo definitivo ritorno all’insegnamento, e amen. Esemplare il commento soddisfatto di Matteo Renzi secondo il quale “le parole di Grillo dicono molto su cosa è diventato il Movimento 5 Stelle. O forse è sempre stato così, ma adesso se ne accorgono in tanti. Sipario”. Purtroppo per il neoimpresario di Rignano sull’Arno (con addentellati nei peggiori suq levantini) l’auspicato sipario sugli odiati grillini – ove calasse con la stessa velocità con la quale egli e Maria Elena Boschi, dopo lo storico rovescio, si rimangiarono la promessa di abbandonare per sempre la politica – comporterebbe, tanto per dirne una, l’immediata crisi del governo Draghi. Parliamo di quel capolavoro napoleonico da lui promosso grazie al quale Italia Viva, che prima poteva ricattare ogni giorno il governo Conte, oggi conta come la Superlega di Andrea Agnelli, ovvero una risata. Dalla guerra sulla piattaforma Rousseau alle polemiche sul doppio mandato alle risse tra le correnti, il M5S naviga in acque sicuramente tempestose. Ma resta pur sempre la forza politica prevalente in Parlamento, l’azionista di riferimento nell’attuale maggioranza, il contrappeso sul quale il premier può contare per arginare le nefaste incursioni del salvinismo. Quanto al Pd, è comprensibile che certi suoi illuminati esponenti gongolino nello scommettere sull’implosione grillina, e sentano l’odore del sangue (per dirla con Gad Lerner). Convinti di potersi riprendere quella quota di consensi che il Movimento acquisì a sua volta sottraendoli al Nazareno annichilito dallo choc renziano. Un calcolo del tutto sconclusionato visto che se privati sul piano delle alleanze della sponda 5stelle, con il prossimo voto autunnale nelle grandi città i pidini resterebbero come don Falcuccio, alla mercé del Salvini&Meloni. Ragion per cui fossimo in Draghi e Letta pregheremmo ogni giorno in aramaico per il rinsavimento di Grillo, per il successo di Conte, augurando lunga vita e prosperità al Movimento.

IlFQ

Bongiorno conflitti d’interesse. - Gaetano Pedullà

 

Fosse per certi leghisti dovrebbe dimettersi pure Papa Francesco. Quindi che c’è da meravigliarsi se ieri si sono svegliati con la pretesa di cacciare dal governo la sottosegretaria Macina, coriacea esponente dei 5 Stelle passata per le armi senza bisogno di processo per lesa maestà dell’esimia senatrice avvocatissima Giulia Bongiorno. Che ha fatto di così grave la Macina per meritare di dimettersi, al contrario di quello che fior di leghisti con condanne sul groppone non si sognano di fare?

Ebbene sì: la Macina ha osato mettere il dito nell’eterno conflitto d’interessi che avvolge politica e affari (leggi l’articolo), in questo caso estesi alle professioni. La Bongiorno è infatti un parlamentare – uno dei tanti – che legittimamente per quelle che sono le regole attuali ha diritto a un sontuoso stipendio pubblico e contemporaneamente continua a lavorare. I nostri deputati e senatori, d’altra parte, si sa che dispongono di poteri soprannaturali e quindi possono fare anche due o più attività insieme, tanto chi li sta a sindacare?

E poi  nella gruviera dei regolamenti tutto è permesso, compreso far retribuire da un governo straniero un legislatore nazionale, come fa alla luce del sole Renzi d’Arabia. Nella querelle tra Bongiorno e Macina c’è però di più: c’è il dubbio che il ruolo dell’avvocatessa nel partito di Salvini  possa confliggere con la difesa della presunta vittima dello stupro di cui è accusato il figlio del fondatore dei 5S, Movimento politicamente contrapposto alla Lega.

Dubbio che la Bongiorno ha tutto il diritto di considerare una grave insinuazione, ma che oggettivamente riecheggia nella testa di chi assiste alla vicenda giudiziaria di Grillo Jr, che inevitabilmente è anche una vicenda politica. Dunque, invece di chiedere dimissioni a vanvera, la Lega farebbe meglio a impegnarsi per fare approvare una legge seria sul conflitto d’interessi, e in vista del taglio dei parlamentari – che concentrerà più responsabilità in meno persone – far decidere una volta per tutte a chi è eletto dal popolo se vuole lavorare per i cittadini o per se stesso. Miliardari e professionisti non saranno più incentivati a mettersi a disposizione della Patria? Chissà che per quanto hanno dato molti di loro nessuno ne sentirà la mancanza.

La Notizia.

“B. delinquente e malavitoso”: ecco perché si può dire. - Vincenzo Iurillo

 

Sì, preferirebbe essere adulato come ‘Cavaliere’ o ‘Presidente’, e un bell’‘Onorevole’ ci starebbe sempre bene, giacché ha riconquistato l’agibilità politica e uno scranno in europarlamento. Silvio Berlusconi, però, dovrà farsene una ragione: definirlo “delinquente” non è diffamatorio, non è ingiurioso, non è sbagliato. Nemmeno se aggiungiamo “terrorista”, “malavitoso”, “pregiudicato” e se ricordiamo che “ha gettato una minorenne nelle braccia di una puttana” ed è “sospettato di avere cominciato la sua carriera di imprenditore grazie ai soldi della mafia” e le tante altre prodezze che sappiamo.

Lo dice il giudice civile di Roma Damiana Colla nelle motivazioni della sentenza con cui il magistrato ha rigettato la citazione civile di Berlusconi contro Massimo Fini, Marco Travaglio, Peter Gomez e la società editrice del Fatto Quotidiano, condannandolo a pagare più di 10.000 euro di spese legali ai nostri avvocati Caterina Malavenda e Valentino Sirianni.

In dodici pagine, il giudice spiega che si può dare del delinquente a Berlusconi purché sia chiaro il contesto della critica generale e politica in cui si inserisce il sostantivo, in un quadro dove si sottolinea che il fatto è vero: delinquente è colui che delinque, Berlusconi è stato condannato con sentenza passata in giudicato per frode fiscale, quindi per sillogismo aristotelico Berlusconi è un delinquente. E i sei articoli di Massimo Fini pubblicati nel 2018 sul Fatto, prima e dopo le elezioni politiche celebrate con lo spauracchio della presenza in campo dell’uomo di Arcore, sono rimasti nel recinto della critica politica.

I legali di Berlusconi invece sostenevano che gli articoli erano “caratterizzati da contenuti non solo diffamatori nella sostanza, ma anche apertamente ingiuriosi e illeciti nella forma, in quanto tutti costellati da gratuite e immotivate offese ad personam, esorbitanti da ogni possibile limite di tolleranza”. Ed è qui che il giudice inizia a fare coriandoli delle tesi dell’ex premier. “Nulla è specificamente allegato da parte attrice – scrive la dottoressa Colla – circa la ‘sostanza’ diffamatoria di ogni articolo, concentrandosi piuttosto l’attore sul requisito formale della continenza espositiva”.

In parole povere: Berlusconi sottolinea i presunti insulti, ma trascura la parte in cui dovrebbe provare di essere vittima di menzogne. E non può fare altro, perché per quanto aspre e urticanti, le parole di Fini si muovono sul terreno di fatti e notizie vere. E quindi sono critiche legittime. Quando Fini dà del “terrorista” a Berlusconi parte dal dato, vero, che B. ha appena definito “criminale” la sentenza che lo ha condannato, “che gli impedisce di fare il premier”. Quindi, come i brigatisti, delegittimando quella sentenza, non riconosce le istituzioni dello Stato. Ecco perché Fini non è sanzionabile quando paragona B. a Vallanzasca preferendo il secondo al primo perché Vallanzasca “non ha mai contestato il diritto dello Stato a punirlo”. È una critica legittima anche questa.

Berlusconi inoltre non può lamentarsi di essere chiamato “delinquente naturale”: lo afferma la sentenza del Tribunale di Milano sulle “enormi evasioni off shore”. Il resto è riferibile alle vicende di Ruby e Nicole Minetti, e al ruolo di Marcello Dell’Utri nel patto tra l’ex senatore e la mafia per proteggere B. e i suoi interessi economici in cambio di fiumi di denaro.

La sintesi migliore della sentenza a nostro avviso è in questo passaggio: “Il giudizio critico manifestato dall’autore è dunque interamente frutto delle numerose vicende giudiziarie che hanno coinvolto l’attore, con gli esiti più diversi, ma dei quali non era necessario dare conto (…), in ragione del fatto che esso non ha a oggetto cronaca giudiziaria, ma l’espressione di un complessivo e ragionato giudizio critico soggettivo”.

IlFQ

giovedì 22 aprile 2021

I ristori ai soliti signori delle grandi mostre. - Nicola Borzi

 

A Mondadori e Sole la fetta più grande.

Dal Maestro delle storie di Isacco ad Assisi, forse un giovane Giotto, sino a Van Dijck e Jouvenet, la vicenda biblica di Giacobbe che carpisce con l’astuzia la benedizione del padre Isacco destinata invece per diritto al primogenito Esau è un topos che per secoli ha tenuto banco nella pittura. Nessuno ha mai dedicato al tema un’esposizione antologica, ma da qualche mese la discussione sulla furbizia infuria nel settore delle mostre. Il ministero della Cultura retto da Dario Franceschini, che gestisce 4,24 miliardi di aiuti pubblici per l’emergenza Covid, già dall’anno scorso ha versato decine di milioni alle società organizzatrici di eventi saltati a causa della pandemia. Una manna dal cielo per un comparto che come altri ha visto crollare i ricavi. Ma c’è chi sostiene che alcuni avrebbero ricevuto quella benedizione senza averne titolo.

In Italia nessuno ha dati precisi sul mondo delle mostre. Manca un registro degli eventi, non si conoscono numero degli spettatori né giro d’affari complessivo. L’unica fonte parziale sono le statistiche Siae, che però mischiano mostre e fiere, come il Salone del Mobile di Milano. Secondo i dati preliminari, nel 2020 gli eventi sono calati a 27.913, quasi 50mila in meno rispetto al 2019 (-64%) con appena 5,8 milioni di ingressi (20 milioni in meno, -78%), per un incasso al botteghino crollata a 46 milioni da 196 milioni (-77%).

A fronte di questo disastro, i contributi a fondo perduto per il ristoro di mostre d’arte cancellate annullate o rinviate valgono sinora 71,4 milioni. Una boccata d’ossigeno la cui suddivisione ha deciso i sommersi e i salvati tra gli operatori del settore. La ripartizione, gestita tramite 7 decreti ministeriali, non è stata calcolata sulle perdite di bilancio subìte dagli operatori (quando sono stati distribuiti i primi sostegni non erano ancora disponibili i rendiconti 2020) ma in base ad autodichiarazioni sulla differenza in corso d’anno tra i fatturati 2020 e 2019. L’attività delle mostre però varia di anno in anno con risultati incerti, perché nulla assicura il successo di un evento. Così sono stati risarciti incassi presunti da parametri precedenti. Inoltre gli operatori hanno ottenuto anche altri sostegni, come la cassa integrazione per i dipendenti.

La direzione Musei del Mibact con i suoi decreti ha stabilito che potevano fare domanda gli operatori “che abbiano subito un calo di fatturato per la cancellazione, l’annullamento o il rinvio, a causa dell’emergenza Covid, di almeno una mostra d’arte in Italia o all’estero in calendario tra il 23 febbraio e il 30 settembre 2020”. Erano ammessi ai contributi i soggetti la cui “attività prevalente sia l’organizzazione di mostre d’arte” e le imprese di logistica, trasporto e allestimento che dalle mostre d’arte avessero ricevuto oltre il 50% del fatturato. Tra i requisiti c’erano l’assenza di procedure fallimentari, la regolarità contabile contributiva e fiscale e la possibilità di contrattare con la Pubblica amministrazione. Gli aiuti per legge non sono tassabili come reddito e dunque entrano tutti nelle componenti positive dell’utile netto.

Una buona fetta dei sostegni agli organizzatori di mostre, oltre 65 milioni, sono stati già erogati tra il 2019 e il marzo scorso. La fetta maggiore è andata a pochissime imprese: i primi 8 gruppi (su 38) hanno ricevuto l’85% della somma, oltre 39 milioni sui 50,1 destinati alla categoria. Anche tra i gruppi dei servizi i primi 6 beneficiari (su 19) hanno ricevuto quasi l’83% del sostegno al segmento: 12,7 milioni su 15,3. Ma a scatenare le polemiche è stato soprattutto il fatto che la parte del leone nella suddivisione degli aiuti è andata alle imprese collegate a due editori, Electa della Mondadori e 24Ore Cultura del Sole. Questi due operatori da soli si sono portati a casa quasi il 40% di tutti i sostegni alla filiera, poco meno di 20 milioni su 50,1. Electa primeggia nella classifica dei beneficiari: da sola ha ricevuto il 30% dei fondi agli organizzatori di mostre, 15,1 milioni su 50,1, dei quali 10,9 versati già nel 2020. 24Ore Cultura lo scorso anno ha ricevuto aiuti per 3,52 milioni e altri 1,24 a marzo, il 9,5% del settore. Contributi detassati che hanno sostenuto i bilanci consolidati 2020 dei relativi gruppi editoriali quotati.

Secondo il bilancio, Mondadori Electa nel 2019 ha realizzato 60,2 milioni di ricavi e 8 milioni di utile. L’organizzazione delle mostre valeva 3,2 milioni, i proventi da biglietteria 20,8: in totale 24 milioni, il 40% dei ricavi. La vendita di libri ha generato incassi per 28,84 milioni, il 48% del totale. I ricavi vari “pesavano” per il 2,8%, mentre quelli da gestione museale 5,23 milioni, il 9%. Un operatore del settore che chiede l’anonimato si domanda “come abbia fatto Electa a dichiarare quale attività primaria l’organizzazione di mostre. Dalle visure risulta che l’attività prevalente indicata è la “gestione di luoghi e monumenti storici e attrazioni simili” ed “edizione di libri”. Eppure hanno già ottenuto aiuti pari a oltre il 60% dei ricavi da eventi realizzati nel 2019”. Il tema del concetto di attività prevalente è dibattuto, tuttavia i pareri legali convergono sul fatto che a dirimerne l’attribuzione non sia il codice Ateco aziendale, dunque la forma, ma la sostanza ovvero la fonte predominante dei ricavi.

Quanto a 24Ore Cultura Srl, nel bilancio al 31 dicembre 2019 segnava ricavi per 12,21 milioni e un utile di 808mila euro. I ricavi dai biglietti delle mostre erano pari a 5,79 milioni, il 47% del totale. Servizi e sponsorizzazioni, vendite di libri e altri prodotti, cointeressenze, gestione del parcheggio del museo Mudec generavano ricavi per 6,42 milioni, il restante 53%. “Eppure 24Ore Cultura ha già ottenuti aiuti per 4,76 milioni, l’82% dei suoi ricavi del segmento del 2019”, sottolinea la fonte.

Tra i maggiori beneficiari compaiono poi diverse società del gruppo Arthemisia di Iole Siena che hanno ottenuto aiuti totali per 9,1 milioni, il 18,2% del settore, Mondo Mostre con 4,1 milioni, l’Associazione Civita con 2,6 e Metamorfosi di Pietro Folena per quasi un milione. “Se si guarda all’attività prevalente Mondo Mostre, Civita o Arthemisia paiono aver titolo per i ristori”, spiega il nostro interlocutore. Ma tra le varie imprese presiedute da Iole Siena in passato ci sono stati fallimenti e concordati e una dura vertenza fra Artemisia e 24Ore Cultura ha portato la società del Sole a varare l’azione di responsabilità contro l’ex ad Natalina Costa, accusata di aver danneggiato l’impresa a favore di Artemisia. Forse un motivo per cui mancano mostre sulla furbizia che dribbla il diritto c’è.

IlFQ

Quousque tandem. - Marco Travaglio

 

Mentre la Superlega del calcio frana in testa ai suoi aedi (massima solidarietà a Sambuca Molinari e Johnny Riotta, che si erano tanto spesi sul quotidiano casualmente edito dai padroni della Juve), anche la Superlega della politica scricchiola. E non è colpa di Draghi, che ce la mette tutta, pur col piglio distaccato dell’amministratore delegato. È colpa di chi gli ha tirato il pacco, Mattarella in primis, illudendolo che bastasse ammucchiare nel governo tutti i partiti tranne uno per cancellarne le differenze di idee e di interessi. Non era così. Infatti ieri la Lega, non contenta di avere strappato le imprudenti riaperture al 26 aprile, s’è astenuta sulla proroga del coprifuoco. E non si vede che ci stiano a fare 5Stelle, Pd e Leu in una maggioranza dove, se c’è da cantare, tocca a Salvini e, se c’è da portare la croce, tocca ai giallorosa. Il giochino non può durare, anche perché prima o poi si voterà. Salvini l’ha capito e, tallonato dalla Meloni, si abbarbica al potere per tenere le mani sul bottino del Recovery, ma si finge morto appena c’è da perdere voti. Gli altri quando lo capiranno? Appena inizia il semestre bianco, ci divertiamo.

L’altro nodo che viene al pettine è quello dei vaccini. E qui Draghi c’entra. Ne aveva annunciati 500mila al giorno dopo la metà di aprile, personalmente e per interposto generale Figliuolo. Siamo al 22 aprile e l’altroieri ne sono stati somministrati 300mila. Ora, dopo due mesi di “accelerate” sui giornali, siamo in continua frenata. E, come vaticinò Bersani al cambio della guardia fra Arcuri e Figliuolo, è inevitabile fare un confronto. Dal 6 al 20 gennaio (governo Conte, commissario Arcuri) l’Italia era davanti a Germania, Spagna e Francia per vaccinati in rapporto alla popolazione, e in certi giorni anche per numeri assoluti. A fine gennaio fu superata di pochi decimali dalla Spagna, ma restò sempre davanti a Germania e Francia. Il 13 febbraio Draghi si insedia e il 2 marzo caccia Arcuri e lo rimpiazza con Figliuolo. Il passaggio di consegne al Commissariato fra la struttura Invitalia e l’armata interforze dura un mese. Arcuri e i suoi garantiscono una decina di giorni di presenza, durante i quali (3-13 marzo) l’Italia resta seconda dietro la Spagna e davanti a Francia e Germania, poi se ne tornano nella loro sede. Il 13 marzo Figliuolo vara il nuovo Piano vaccini e l’Italia inizia a precipitare: terza il 14 e 15 marzo, scavalcata anche dalla Germania; poi, con rare eccezioni, sempre ultima. I dati dell’altroieri sono impietosi: Spagna 20,19% di abitanti vaccinati, Germania 20,07, Francia 18,73, Italia 18,24. Abbiamo perso due mesi. E per peggiorare. Chi se ne va prima: Salvini o Figliuolo?

IlFQ