Nel 1880 la questione era: “quanto tempo è giusto dedicare al lavoro?” Una faccenda di vita o di morte: stavano costituendosi i diritti di colui che metteva il suo tempo e la sua vita a disposizione di un imprenditore, il lavoratore. Senza il riconoscimento di quei diritti era soltanto schiavitù, le persone erano costrette a lavorare sino allo sfinimento senza alcun riguardo per la loro salute, le loro speranze e la loro sofferenza: le loro vite.
Mi chiedo, che cosa stiamo festeggiando oggi? Entro il 2025, l’automazione e la ricollocazione del lavoro tra uomini e macchine faranno perdere 85 milioni di posti di lavoro in tutto il mondo nelle medie e grandi imprese in 15 settori e 26 economie. I ruoli in aree quali l’immissione dei dati, la contabilità e il supporto amministrativo sono sempre meno richiesti con la crescita dell’automazione e della digitalizzazione. Oggi, i lavoratori non hanno nulla da festeggiare, perché i loro diritti stanno subendo un attacco lento e progressivo. Non in nome dei padroni ma in nome della salvezza dell’economia finanziaria. Lavorare peggio e di più per tenere in piedi concezioni della società e del lavoro, che hanno lo stesso spessore culturale delle dicerie più becere.
Nel futuro le persone lavoreranno quando e quanto sarà vantaggioso per la loro, personale ed unica, produttività. Ed il Covid ci ha sbattuto la realtà in faccia. Molti credono che disporre del tempo del proprio lavoro sia una cosa da grandi scienziati, come Darwin, che difficilmente lavorava più di quattro ore al giorno, o di Poincare, che lavorava anche 2 ore a settimana. Si è portati così a pensare che persone come loro potevano permetterselo, mentre le persone comuni no.
E se la pandemia ha fatto qualcosa di buono, è stato quello di dimostrare che il lavoro non è qualcosa per cui vieni in ufficio, è qualcosa che fai, andando in contro alle esigenze personali di ognuno, dove al centro c’è soltanto l’uomo e non il mercato.
Dobbiamo solo avere più coraggio, perché siamo condizionati dall’idea che “tutti devono guadagnarsi da vivere”, tutti devono essere impegnati in una sorta di fatica perché devono giustificare il loro diritto di esistere.
In questi giorni ho ripreso in mano un libro del 2013, dell’attivista del movimento contro le disuguaglianze Occupy Wall Street, David Graeber: un saggio strepitoso in cui l’autore parte da questo assunto “Siate onesti: se il vostro lavoro non esistesse, quanti ne sentirebbero la mancanza? Qual è il contributo significativo che offre al mondo?” E’ questa la domanda che dobbiamo porci oggi. Una lettura che vi consiglio e che tutti i policy makers, i legislatori, gli amministratori e tutti coloro che “creano occupazione” dovrebbero avere sul comodino.
Il lavoro retribuito, e cioè legato alla produzione di qualcosa, non è più necessario una volta che si è raggiunto la capacità produttiva attuale. Abbiamo una capacità produttiva che è di gran lunga superiore alle nostre necessità. Per rispondere a questa crisi cosmica, per uscirne fuori, tutti cercano il lavoro. Ma siamo sicuri che il problema sia davvero il lavoro?
Appena smetteremo di produrre in sovrabbondanza; appena penseremo con impegno al nostro pianeta; appena si formerà nelle persone un’idea su quanto sia importante esistere ed essere nel mondo; appena gli individui potranno svilupparsi in modo libero; appena metteremo in atto soluzioni capaci di ridistribuire la ricchezza e di superare le disuguaglianze create dal nostro modello economico, potremo dire di vivere in una società evoluta… e sarà davvero una gioia festeggiare quel giorno.
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