Leggendo la sua intervista al Corriere, si stenta a credere che Marta Cartabia abbia davvero detto quel nulla mischiato con niente. Ma soprattutto che sia davvero la ministra della Giustizia, e nel governo dei migliori. Era dai tempi del leghista Roberto Castelli, immortalato da Borrelli come “l’ingegner ministro”, che non si trovava tanta incompetenza mista ad arroganza (le due cose vanno spesso a braccetto, la seconda per nascondere la prima). Con l’aggravante che Castelli era un esperto in abbattimento di rumori autostradali e la Cartabia è un ex presidente della Consulta. Ma proprio questo è il guaio: un Guardasigilli dovrebbe misurarsi, oltreché con gli alti principi del Diritto, con la Giustizia reale. Come minimo, dovrebbe aver messo piede in un tribunale. Non è il caso della Cartabia, che pure, essendo affiliata a Cl come il marito, di imputati e pregiudicati dovrebbe conoscerne parecchi. Invece parla come un topo di biblioteca con la testa fra le nuvole e, non guardando dove mette i piedi, finisce in tutte le buche e i tombini aperti. Basta confrontare i giudizi di Caselli, di Davigo, di altri giudici e persino dell’avvocato Franco Coppi (difensore di B.) con quelli della vispa Teresa per accorgersi che non sa cosa dice. Nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, lo sa benissimo e ha deciso di mandare definitivamente a picco il processo penale per la gioia di qualche interessato (nella maggioranza extralarge dei Migliori c’è l’imbarazzo della scelta, tra imputati e genitori di indagati).
1. La Bonafede, che blocca la prescrizione alla sentenza di primo grado, è “sbilanciata: trascura il diritto degli imputati alla ragionevole durata del processo, che è un principio costituzionale e di civiltà giuridica”. Ora, nel resto d’Europa, la prescrizione decorre dal momento del reato (non da quando viene scoperto) e si interrompe alla richiesta di rinvio a giudizio o al rinvio a giudizio: quindi tutta l’Europa è molto più incivile di noi. E allora di quali “impegni con l’Europa” vanno cianciando Cartabia e Draghi?
2. ”L’Italia ha il più alto numero di condanne della Cedu per violazione della ragionevole durata del processo”. Forse non lo sa, ma la ragionevole durata dipende dai giudici solo in minima parte. Anzitutto dipende da lei: è il Guardasigilli che deve garantire agli uffici giudiziari gli uomini e i mezzi per fare processi rapidi. Poi dipende dal Csm, che impiega mesi se non anni per riempire i vuoti d’organico. Poi dipende dal numero dei processi, che si può abbattere solo depenalizzando i reati inutili (compito dei politici) e con norme che incentivino patteggiamenti e altri riti alternativi e scoraggino le impugnazioni pretestuose e dilatorie.
Cioè la reformatio in peius (oggi il giudice d’appello non può aumentare la pena) e il blocco della prescrizione, per rendere non più convenienti gli appelli infondati e i cavilli allunga-processi. Lei invece regala l’improcedibilità a chi fa durare l’appello più di 2 anni: solo un idiota masochista patteggia o rinuncia a impugnare e a comprare tempo.
3. Nessun problema per il processo sul ponte Morandi perché ”a Genova gli appelli durano in media meno di 2 anni”. La media vuol dire che i più complessi durano di più e i più semplici (al singolo ladruncolo o spacciatore) meno. Quello del Morandi, un unicum come il disastro, sarà una battaglia con decine di imputati, oltre un centinaio di parti civili, perizie e controperizie impossibile da trattare in 2 anni. Quindi sarà tutto improcedibile, con tanti saluti ai 43 morti e grandi feste a casa Benetton.
4. “A Roma l’appello di un caso complesso come Mafia capitale è durato poco più di un anno”. Sì, ma i 2 anni nel suo Salvaladri non si calcolano dalla prima udienza all’ultima, ma a dall’impugnazione (poi passano mesi, anni per il dibattimento). Coppi, che il Tribunale di Roma lo frequenta da mezzo secolo, spiega che anche lì (figurarsi nelle sedi disagiate del Sud), “per un appello se si è fortunati servono 3 o 4 anni. Anche 1 anno massimo per i processi in Cassazione è molto stretto: gli atti impiegano molto tempo ad arrivare a Roma”.
5. “Perché, se a Milano e a Palermo gli appelli durano in media 2 anni, non dovrebbe esserlo anche altrove? Perché a Napoli non dovrebbero riuscire a fare quello che già fanno a Palermo?”. Forse perché il distretto di Napoli ha il record di reati di tutta Europa? Glielo spiega il presidente della Corte d’appello di Napoli: “Oggi trattiamo i processi definiti in primo grado nel 2015-16”. Tutti processi che nascono già morti in partenza in base alla sua Salvaladri.
6. “Fare giustizia nel rispetto delle garanzie”. Bene, brava, bis. Senta un po’ Coppi: “Se i 2 anni concessi per fare il processo d’appello trascorrono senza che si arrivi a una sentenza, che fine fa la sentenza pronunciata in primo grado? Il reato non si può prescrivere perché la prescrizione è interrotta, ma non si può più procedere. Ovviamente la pena inflitta in primo grado non potrebbe essere eseguita… Mi metto nei panni di una parte civile, che in primo grado ha visto riconosciuto il diritto al risarcimento: se l’appello non si celebra in tempo, che se ne fa di questo riconoscimento? Dall’altra parte, l’imputato può ben dire che se si fosse celebrato l’appello sarebbe stato assolto. A questo punto sarebbe stato meglio tenersi la riforma Bonafede e buonanotte. Se non altro aveva il pregio della chiarezza”. Vergogniamoci per lei.
ILFQ