Marie Madeleine Ingoba e Claudio Descalzi
Il primo burrascoso vertice di maggioranza per le nomine nelle società partecipate (Eni, Enel, Poste, Leonardo, Terna, Mps, Enav ecc.) ha visto Pd e 5Stelle scontrarsi su un duplice casus belli: da un lato la pretesa del Pd di tenersi tutte le poltrone più importanti con la scusa che il Quirinale spinge per non cambiare nulla in nome della “continuità”; dall’altro la richiesta dei 5Stelle di rimpiazzare alcuni manager di peso in cambio della rinuncia alla loro battaglia contro l’imbarazzante amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi. La pretesa del Pd è bizzarra: il partito di maggioranza relativa sono i 5Stelle che han vinto le elezioni del 2018, non il Pd che le ha perse; e la contrarietà del Quirinale a ogni cambiamento, se confermata, sarebbe un abuso di potere: la Costituzione non assegna al capo dello Stato alcuna voce in capitolo sulle partecipate, che invece spettano al premier e al governo. Ma altrettanto bizzarra è la posizione dei 5Stelle, che si sono rassegnati alla conferma degli Ad di quasi tutte le società più rilevanti, incluso l’imbarazzante Descalzi, ma a titolo di risarcimento per averlo “ingoiato” rivendicano un bel po’ di presidenze (con funzioni poco più che decorative).
A noi, come a tutti i cittadini, dell’etichetta partitica dei manager pubblici non importa nulla. Purché si tratti di persone capaci, oneste e al di sopra di ogni sospetto: cioè inattaccabili sul piano professionale, morale, deontologico e naturalmente penale. Per questo, da mesi, ci sgoliamo a spiegare perché Descalzi è del tutto incompatibile con la carica di Ad dell’Eni. E qualche miserabile verme annidato nei soliti giornalacci arriva a insinuare che la nostra battaglia di principio celi un nostro interesse per “piazzare” all’Eni questo o quel personaggio: prima si parlò dell’economista Luigi Zingales (ex consigliere indipendente di Eni e docente a Chicago), ora si parla di Lucia Calvosa, docente di Diritto commerciale, già consigliere indipendente di Mps, poi di Telecom e ora di Seif (la società del Fatto). Ovviamente, malgrado la stima che non solo noi nutriamo per Zingales e Calvosa, non ci occupiamo delle loro carriere professionali, anche se troviamo curioso che non vengano chiamati a discolparsi gli sponsor di manager inquisiti e imputati, ma noi perché abbiamo amministratori cristallini e incensurati. Da cittadini e giornalisti, però, siamo interessati a una seria bonifica di un gruppo strategico come l’Eni, da troppi anni in mano a personaggi che si dividono fra la politica energetica nazionale e i processi per presunte corruzioni e sicuri conflitti d’interessi.
Quindi, per i senza memoria, ripetiamo i cinque motivi che dovrebbero indurre Conte, Gualtieri, 5Stelle, Pd, Iv, Sinistra e (se è interessato) Mattarella ad accompagnare Descalzi alla porta.
1. Descalzi è imputato a Milano di corruzione internazionale per la più grande tangente della storia italiana (1,1 miliardi), pagata da Eni nel 2011 per ottenere un giacimento in Nigeria e finita sui conti di politici, mediatori, faccendieri, manager.
2. L’Eni è indagato anche per le accuse di Piero Amara, suo avvocato esterno, arrestato nel 2018. Amara racconta di aver ricevuto mandato e denaro dai vertici Eni per orchestrare nel 2015 un “complotto” per depistare le indagini milanesi sulle corruzioni Eni in Nigeria e in Algeria, salvando Descalzi dalle accuse. Non solo: nel marzo 2016 incontrò a Roma Claudio Granata (braccio destro di Descalzi) e l’ex manager Vincenzo Armanna per organizzare un depistaggio sul depistaggio: Armanna, in cambio di denaro, avrebbe dovuto ritrattare le accuse contro Descalzi e scaricare tutto su due manager licenziati.
3. Secondo Amara, la security Eni avrebbe dossierato, pedinato e intercettato Zingales, la Litvack, il giornalista Claudio Gatti (che indagava su Eni) e i pm milanesi De Pasquale, Spadaro e Storari.
4. L’Eni è sotto inchiesta a Milano anche per una corruzione internazionale in Congo: avrebbe girato quote dei suoi giacimenti alle società Aogc (legata al presidente Denis Sassou Nguesso) e Wnr (legata a “persone vicine a Eni e al suo management”). Anche quella, per la Procura, era una tangente per politici congolesi e manager italiani.
5. La moglie congolese di Descalzi, Marie Madeleine Ingoba, controllava – secondo i pm, tramite schermi esteri – 5 società denominate “Petro Service” che han prestato servizi all’Eni del marito in cambio di circa 300 milioni di dollari tra il 2007 e il 2018. La signora Descalzi controllò quelle società direttamente dal 2009 al 2014. Poi, l’8 aprile 2014, sei giorni prima che Renzi indicasse Descalzi come Ad Eni, la Ingoba vendette la lussemburghese Cardon Investments che controlla le 5 Petro Services ad Alexander Haly, ritenuto dai pm un socio-prestanome della coppia Descalzi-Ingoba. Di recente, in vista del rinnovo dei vertici Eni, è filtrata la notizia di una separazione dei due coniugi, evidentemente consci del loro mega-conflitto d’interessi. Che, a prescindere dal processo e dalle inchieste in corso, basta e avanza a sconsigliare la riconferma di Descalzi al comando del primo gruppo industriale italiano.
FQ 18 aprile
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