Settembre 2017 - Davanti alla Commissione parlamentare antimafia il pm Di Matteo spiegò come sono nati i sospetti sui fondatori di Forza Italia per le stragi del 1992-’93.
- Giorni fa gli avvocati di Silvio Berlusconi hanno depositato al processo d’appello per la Trattativa Stato-mafia, per il quale Marcello Dell’Utri è stato condannato in primo grado a 12 anni, la documentazione secondo cui il leader di Forza Italia è indagato a Firenze nell’inchiesta sui mandanti occulti delle stragi del 1993. Matteo Renzi si è detto “attonito”. Secondo lui “sostenere 25 anni dopo, senza uno straccio di prova, che egli sia il mandante dell’attentato mafioso contro Maurizio Costanzo significa fare un pessimo servizio alla credibilità delle istituzioni italiane”. Ecco alcuni motivi per cui dovrebbe essere un po’ meno sorpreso.
Commissione parlamentare antimafia, seduta del 13 settembre 2017, dall’audizione del pm Nino Di Matteo.
Di Matteo: Nell’ultimo periodo, anche grazie a indagini da me e da altri colleghi condotte a Palermo, sono emersi a mio avviso importanti elementi di prova che indicano ulteriormente che la strage (di via D’Amelio, ndr) non fu solo una strage di mafia. Però, proprio in questo momento – e temo che non sia un caso – il dibattito e l’attenzione, invece di concentrarsi sulla necessità di ulteriori approfondimenti in tal senso, si orientano a screditare e delegittimare il mio lavoro e la mia professionalità. (…)
Si finge di dimenticare – e comunque da più parti sistematicamente si ignora – che tra il cosiddetto “via D’Amelio bis” e, ancora più importante, il cosiddetto “via D’Amelio ter” ben ventisei imputati sono stati condannati definitivamente per concorso in strage, nella strage appunto di via D’Amelio. Nel Paese che purtroppo è stato definito “il Paese delle stragi impunite” non mi pare, quello dei ventisei ergastoli definitivi, un risultato irrilevante. Attenzione: ventisei imputati per cui l’affermazione di responsabilità per strage è stata confermata fino alla Cassazione e mai minimamente messa in discussione, neppure dopo le acquisizioni più recenti, che partono dalla collaborazione di Gaspare Spatuzza. Ventisei condanne definitive: non sono stati venticinque anni persi nella ricerca della verità. Il processo di revisione ha riguardato, per quanto concerne le accuse di strage di imputati del cosiddetto “via D’Amelio bis”, sette posizioni. Nessuno dice, nessuno ricorda un dato di fatto che potete facilmente controllare: già all’esito del processo di primo grado di quel troncone “via D’Amelio bis”, sentenze di primo grado del 13 febbraio 1999, sei dei sette soggetti successivamente revisionati erano già stati assolti dalla Corte d’assise di primo grado. Nessuno ricorda, tutti fingono di dimenticare che per tre posizioni di quelle sei erano stati gli stessi pm a chiedere l’assoluzione. (…)
Io ho seguito, tra i processi per la strage, un solo processo dall’inizio delle indagini alla conclusione della sentenza di primo grado: il cosiddetto processo “via D’Amelio ter”. (…) In quel processo sono state irrogate venti condanne per concorso in strage. Quel processo (…) prescinde completamente e assolutamente dalle dichiarazioni di Scarantino Vincenzo. In quel processo, Scarantino Vincenzo non è stato chiamato neppure a testimoniare. (…)
Così parlò Cancemi.
Quella è la sede processuale in cui il pm – all’epoca era un giovane pm che da allora fino a oggi ha cambiato la sua vita ed è costretto a vivere in un certo modo – ha fatto emergere, tra le altre, le piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via D’Amelio e la trattativa Ciancimino-Ros dei carabinieri. Quella, signor presidente, è la sede processuale dove per la prima volta Salvatore Cancemi, un pentito già appartenuto alla commissione provinciale di Cosa nostra, quindi a quella che giornalisticamente viene chiamata “cupola”, in quattro estenuanti udienze affermò che nello stesso contesto temporale – giugno 1992 – nelle stesse riunioni in cui Riina, di fronte agli altri membri della commissione, si assumeva la responsabilità e la paternità di uccidere subito, a meno di sessanta giorni di distanza da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino… Cancemi ha dichiarato in quella sede processuale che in quel momento, in quelle riunioni in cui Riina si assumeva la responsabilità di fare un’altra strage a meno di due mesi da quella di Capaci, citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti che bisognava appoggiare ora e in futuro, e rassicurava gli altri componenti della cupola dicendo che fare quella strage sarebbe stato alla lunga un bene per tutta Cosa nostra, anche per i soggetti già all’epoca detenuti.
Questi sono due degli spunti che ho voluto citare, ma ce ne sono tanti altri, che sono stati alimentati anche recentemente – in particolare il secondo spunto che vi ho detto – da numerose altre acquisizioni che (questo però è il mio avviso) dovrebbero portare a una immediata riapertura delle indagini sui mandanti esterni a Cosa nostra e a un rinnovato impegno collettivo di tutte le Istituzioni nel senso del completamento del percorso di ricerca della verità. (…)
Ancora, presidente, c’è Salvatore Cancemi. Ecco quali sono i tanti spunti. Dal 1993 al 1996, nel momento in cui – credo unico tra i collaboratori di giustizia all’epoca – era sotto la protezione diretta, materialmente custodito, presso una caserma del Ros dei carabinieri… Quando facevamo le citazioni per interrogarlo, non le facevamo tramite il Servizio centrale di protezione, ma il Ros dei carabinieri, non di sua spontanea iniziativa – bisogna dire le cose come stanno – aveva ricevuto personalmente dai procuratori di Caltanissetta Tinebra e di Palermo Caselli l’incarico di custodire materialmente Cancemi. Cancemi viveva al Ros. Dal 1993 al 1996 dice di non sapere nulla della strage di via D’Amelio. Dopodiché, nel 1996 ci chiama e ci dice che aveva partecipato alla strage e, la mattina, ai pedinamenti degli spostamenti del dottor Borsellino. (…) Lui aveva sempre detto che Raffaele Ganci, un altro componente della cupola, gli aveva riferito che Riina aveva parlato con persone importanti e che aveva le spalle coperte da persone importanti. Continuo a chiedere quella cosa e lui risponde, per la prima volta, dicendo: “Ricordo una riunione a casa di Girolamo Guddo, nel giugno del 1992, tra Capaci e via D’Amelio, quando Riina ci disse: ‘Adesso dobbiamo mettere mano – così si esprimono – all’eliminazione del dottor Borsellino’”. Qualcuno degli esponenti chiese: “Perché in questo momento?”. Vi ricorderete tutti che, dopo la prima iniziale reazione che portò al decreto legge 8 giugno del 1992, con l’introduzione del 41-bis, in Parlamento stava maturando chiaramente, e se ne aveva conoscenza da parte dei giornali, una maggioranza contraria alla conversione in legge di quel decreto istitutivo del 41-bis.
Qualcuno a Riina fece notare che fare un’altra strage a ridosso avrebbe comportato delle conseguenze negative, con l’espressione plasticamente raccontata da due collaboratori di giustizia che c’erano alla riunione, Cancemi e Brusca, che Ganci Raffaele utilizzò nei confronti di Riina, dicendo: “Ma che dobbiamo fare, la guerra allo Stato ?”. Riina disse: “La responsabilità è mia. Si deve fare ora. Sarà un bene per Cosa nostra”. Secondo Cancemi, in quel momento avrebbe detto: “Ora e in futuro noi dobbiamo sempre appoggiare Berlusconi e Dell’Utri. Dobbiamo fare riferimento a queste persone. Cosa nostra ne avrà dei benefici”. Signor presidente, mi permetto semplicemente di dire questo a proposito dell’insabbiamento, della Procura para-massonica e via discorrendo. Eravamo due giovani magistrati in particolare all’epoca, io e il dottor Tescaroli, che con quelle dichiarazioni abbiamo chiesto, ottenuto e sostenuto – non siamo stati i soli, perché alcuni magistrati ci appoggiarono – davanti al procuratore capo, dottor Tinebra, che… Adesso, purtroppo, non può confermare, perché è morto. Mi dispiace citare certi particolari, ma è storia. Venne alla riunione con il quotidiano Il Giornale, che in prima pagina titolava “Le balle di Cancemi”. Noi pretendemmo che venissero iscritti per concorso in strage Berlusconi e Dell’Utri, i quali vennero iscritti con i nomi di copertura, a tutela del segreto, che infatti resse per moltissimo tempo, non mi ricordo se Alfa e Beta o Alfa e Omega. Facemmo delle indagini e delle deleghe di indagini che venivano firmate esclusivamente dai due giovani magistrati della Procura, Di Matteo e Tescaroli. Con riguardo agli spunti, non voglio… anche se ho sempre la tentazione di evidenziare le cose che emergono e che riguardano la competenza soprattutto di Caltanissetta e Firenze.
“Il piano per uccidermi”
Con riguardo ai mandanti esterni, prima di passare all’argomento credo più importante, ricorderò sempre il dato che poi è stato ripetuto processualmente anche da un collaboratore di giustizia più recente, Vito Galatolo. Si tratta di quel soggetto, appartenente a una famiglia stragista, che scrisse, nel novembre del 2014, chiedendo di avere un colloquio con me. Io ormai ero alla Procura di Palermo. Come è poi diventato noto a questa Commissione, che si è occupata tempestivamente e molto approfonditamente del caso, questo soggetto, quando fu al cospetto mio e dell’ufficiale di Polizia giudiziaria che mi accompagnava per verbalizzare, non volle verbalizzare niente, ma disse, in maniera molto agitata, che dovevo stare attento, perché l’attentato nei miei confronti era già pronto nei minimi dettagli. Raccontò di aver acquistato e visto l’esplosivo destinato a quell’attentato e, alla mia sommessa domanda “Scusi, ma perché?”, fece un gesto particolare. C’era in quell’auletta della sezione 41-bis del carcere di Parma la fotografia, molto nota, che si trova in molti uffici pubblici, di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Era molto agitato e disse: “La sua situazione è come quella – mi disse, indicando Giovanni Falcone – non come quello, ma come l’altro. A noi com’era avvenuto per l’altro ce l’hanno chiesto. Io ero giovane a quell’epoca, ma sono figlio di mio padre e queste cose le ho sapute”. (…)
Per anni, soprattutto da quando si è pentito Spatuzza, noi abbiamo saputo che il principale protagonista intanto della fase esecutiva della strage di via D’Amelio è stato Giuseppe Graviano. (…) Giuseppe Graviano – lo sappiamo da sentenza definitiva – è stato il principale protagonista degli attentati a Roma, Firenze e Milano del 1993. Oggi sappiamo – noi lo sappiamo da un po’ più di tempo, grazie alla collaborazione che abbiamo sempre avuto con la Procura di Reggio Calabria – che Giuseppe Graviano è stato il principale protagonista dell’accordo con la ’ndrangheta che portò, nei primi mesi del 1994, il 18 gennaio, al duplice omicidio dei due appuntati dei carabinieri a Scilla, Fava e Garofalo, e ad altri attentati, per fortuna falliti, nei confronti dei carabinieri, sempre in territorio calabrese. Soprattutto sappiamo che Giuseppe Graviano è stato il principale protagonista del fallito attentato all’Olimpico del 23 gennaio 1994. Il 27 gennaio, assieme al fratello Filippo, viene arrestato a Milano. Quell’attentato – questo lo sapete meglio di me – è uno dei grandi misteri, in merito non tanto a perché non sia riuscito il 23 gennaio, quanto a perché non sia stato mai più tentato e ripetuto, io dico per fortuna, ma qualcuno… Ci dovremmo chiedere il perché.
Il boss di Brancaccio.
Quando Spatuzza si pentì, fecero scalpore le dichiarazioni sull’incontro al bar Doney, qui a Roma, in via Veneto, incontro che riusciamo a collocare investigativamente proprio pochi giorni prima del 23 gennaio. Spatuzza dice: “Graviano, l’attentato lo dobbiamo fare lo stesso. I calabresi si sono mossi. Dobbiamo dare quest’ultimo colpo. Lo dobbiamo fare lo stesso, tanto ormai comunque ci siamo messi il Paese nelle mani”. Avrebbe fatto i nomi di Berlusconi e Dell’Utri come i soggetti con i quali erano stati stipulati quegli accordi. All’epoca si disse e si scrisse abbondantemente “sì, ma sono delle dichiarazioni de relato. Comunque Spatuzza può essere attendibile, ma dice di avere saputo queste cose da Graviano”. Oggi, con la nostra attività alla Procura di Palermo, con un anno di intercettazioni ambientali dei colloqui tra Giuseppe Graviano e il suo compagno di socialità, c’è la viva voce di Graviano Giuseppe, cioè di quello che era ritenuto il perno di tutte queste vicende, che, quando parla del 1992-93 e delle stragi, parla di cortesie fatte e di contatti politici (si capisce in maniera assolutamente chiara con Berlusconi).
Presidente, mi auguro di sbagliare, rispetto a questa escalation di elementi di prova sul punto, ma temo l’indifferenza, la minimizzazione, lo svilimento ingiustificato della valenza probatoria anche di queste dichiarazioni di Graviano attraverso quella che è, a mio parere, ma questo verrà poi discusso nei processi, la discutibilissima affermazione che è stata prospettata da alcuni difensori, ma fatta propria dalla maggior parte dei giornali, che Graviano sapeva di essere intercettato. A noi risulta il contrario. (…) Ammesso e non concesso che sapesse di essere intercettato, il fatto che si riferisse a quelle vicende e a quelle persone in relazione a quel periodo delle stragi, in ogni caso, in un senso o nell’altro, un significato dovrà pure avere. Presidente, sono veramente tanti gli spunti che dovrebbero ancora essere approfonditi. Molti spunti sono stati il frutto del lavoro, non soltanto mio, per carità, ma di magistrati tra i quali ci sono stato io. Tutto viene concentrato sulla vicenda Scarantino. Si vuole fare credere che tutto il lavoro fatto finora da decine di magistrati non sia servito a nulla. Io temo che questo sia controproducente all’accertamento della verità. Spero che questa mia audizione, finora e per quello che voi mi vorrete chiedere, possa servire anche a stimolare quello sforzo di prosecuzione e completamento del percorso di verità sulle stragi che oggi – lo affermo con molta amarezza, ma con piena consapevolezza e senza enfatizzazione – è rimasto, nel disinteresse generalizzato, sulle spalle di pochi magistrati, pochi investigatori e pochi esponenti della politica. Vi ringrazio per l’attenzione.
Seduta pomeridiana del 19 settembre 2017
Di Matteo: (…) Presidente, (…) vorrei chiedere che si procedesse con la seduta segreta. (…) Credo che dovrò fare riferimento anche a fatti che magari per la Procura di Caltanissetta, di Palermo o di Firenze possono essere di inopportuna diffusione mediatica.
(I lavori procedono in seduta segreta)