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venerdì 19 luglio 2024

In memoria e ricordo della strage di Via d'Amelio... Vincenzo Musacchio

 

A trentadue anni dal tragico evento, ancora troppe zone oscure sull'accaduto e sui mandanti. Abbiamo diritto alla verità invece di sterili commemorazioni.
Sono passati trentadue anni dalla strage di via d’Amelio e i depistaggi e le tante zone oscure contrastano fortemente con le commemorazioni che ormai sono diventate routine. Dopo oltre un trentennio stiamo ancora brancolando nel buio sulla verità riguardante la strage contro Borsellino e gli uomini della sua scorta
Nessuna verità sui mandanti è mai venuta a galla. Dopo il più grande depistaggio di Stato della storia repubblicana dovremmo domandarci a cosa servono le passerelle politiche nei luoghi delle stragi quando le mafie e una corruzione dilagante infestano stabilmente il nostro Paese. Mi sembra di sentire ancora la voce di Borsellino che ha dedicato la sua vita al raggiungimento di uno scopo: combattere la mafia senza se e senza ma! Assieme al suo amico Giovanni Falcone non si sono mai piegati a quel sistema marcio. Hanno sempre operato con la schiena dritta e il sorriso sul volto. Voglio ricordare Paolo Borsellino come il magistrato che con il suo esempio ha dimostrato che la mafia si può battere.
Dopo trentadue anni da quel 19 luglio abbiamo diritto alla verità. Perché si è voluto far tacere chi stava per colpire duramente e inesorabilmente Cosa Nostra e tutti i suoi apparati paralleli? Con il pool antimafia palermitano e poi con il maxiprocesso si è dato un colpo mortale alla mafia e una forte scossa alle coscienze dei cittadini. Il messaggio fu: “le mafie si possono sconfiggere”.
Ogni tanto penso a cosa direbbe Paolo Borsellino della attuale lotta alla mafia. Cosa direbbe di una società civile sempre più amorfa e di una persistente indifferenza sociale. Cosa rimane oggi dopo tutto questo tempo? Giustizia, verità o solo sterile ricordo e inutili commemorazioni? A cosa è servito il sacrificio di servitori dello Stato che hanno sempre adempiuto il loro dovere anche a costo della propria vita? Noi cittadini siamo consapevoli o complici di un’illegalità diffusa che pervade la nostra società? Oltre le mafie c’è anche la mafiosità, mai davvero combattuta e troppo spesso insita nei nostri comportamenti quotidiani. Alle sterili commemorazioni sostituiamo azioni concrete finalizzate al bene comune. Riflettiamo sul valore della verità e della giustizia e solo dopo possiamo commemorare onorando la memoria dei nostri caduti. La strage di via d’Amelio deve farci riflettere e comprendere che la linea di demarcazione tra mafia e mafiosità sia ben più sottile di quello che si pensi.
Le nuove mafie si insinuano tra politica economia, finanza e società civile, riconoscerle oggi è molto più difficile che in passato quindi è più che mai necessario per combatterla come strumenti e persone all’altezza del compito. Nell'anniversario vorrei chiedere semplicemente un po’ di giustizia e di verità e conoscere i veri mandanti di quella ignobile strage. Mi auguro prima di lasciare questa terra di riuscirvi.

domenica 2 gennaio 2022

L’ultima intervista a Borsellino e i dubbi che ancora restano. - Peter Gomez

 

Inutile girarci intorno. La vera storia dell’ultima, o meglio della penultima, intervista a Paolo Borsellino in cui il giudice parla di Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e del boss Vittorio Mangano è da sempre l’anello mancante nelle indagini sulle stragi di mafia del 1992.

In questi anni, mentre Berlusconi e Dell’Utri venivano messi sotto inchiesta e poi archiviati, pm, investigatori e giornalisti si sono spesso chiesti se quell’intervista, mai mandata in onda fino al 2000, abbia rappresentato la miccia che convinse Cosa Nostra a uccidere Borsellino solo 57 giorni dopo Falcone. Un’accelerazione, decisa da Totò Riina e confermata da molti pentiti, insensata dal punto di vista logico. Perché far saltare in aria Borsellino meno di due mesi dopo la morte del suo amico Giovanni, come era perfettamente prevedibile, avrebbe spinto lo Stato a reagire con forza inaudita e a instaurare il 41-bis, il cosiddetto carcere duro per i mafiosi. Detto in altre parole, gli investigatori si sono domandati se per caso qualcuno nella primavera-estate del ’92 abbia avvertito il gruppo Berlusconi dell’esistenza del filmato (l’intervista a Borsellino è del 19 maggio, Falcone muore il 21) e se poi Dell’Utri o altri abbiano parlato di quelle dichiarazioni con qualche esponente dei clan.

L’interrogativo è diventato ancora più pressante in questi ultimi anni dopo che, nel 2016, il boss stragista Giuseppe Graviano, intercettato in carcere, si è lasciato sfuggire con un amico l’ormai celebre frase “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza”. Adesso, grazie a uno scoop de L’Espresso, sull’intervista sappiamo qualcosa in più. Fabrizio Calvi, che con Jean Pierre Moscardo incontrò Borsellino per conto della pay-tv francese Canal plus, ha raccontato ai colleghi del settimanale quanto gli confidò, con imbarazzo, Moscardo. Secondo Calvi, un emissario di un manager del gruppo Fininvest offrì 1 milione di dollari per avere quel filmato e altre 50 ore di girato che dovevano far parte di un documentario su Berlusconi e la mafia. Calvi e Moscardo oggi sono morti. Non è insomma possibile sapere se l’offerta (sempre che ci sia realmente stata) risalga al ’92 o agli anni successivi, quando le parole di Borsellino rappresentavano un tassello importante delle indagini che avrebbero portato alla condanna di Dell’Utri per fatti di mafia. E nemmeno si può sapere se la proposta sia stata accettata.

In attesa che le Procure tentino di fare chiarezza, noi però ci facciamo un’altra domanda. Meno da questurini e più da giornalisti. Ma come diavolo è possibile che Canal plus abbia deciso di non mandare in onda l’intervista? Nell’estate del ’92, in tutto il mondo, tv e giornali non parlavano d’altro che degli attentati di Cosa Nostra contro Falcone e Borsellino. Ovunque venivano mandati in onda servizi su servizi. La scelta di tenere quell’intervista in un cassetto, sebbene in quel momento rappresentasse uno scoop mondiale, è qualcosa che cozza contro qualsiasi logica editoriale e giornalistica. Per questo contiamo che nei prossimi giorni qualche collega chieda a Canal plus una spiegazione ufficiale. E per ora ci limitiamo a questo commento: gli scoop non vanno mai tenuti nei cassetti. Perché altrimenti chiunque è autorizzato a pensare che quello non sia stato giornalismo, ma solo una manovra oscura o peggio ancora un ricatto.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/12/29/lultima-intervista-a-borsellino-e-i-dubbi-che-ancora-restano/6439842/

sabato 25 settembre 2021

Due grandi uomini.

 

Straziante, ma vero...
Queste due persone sono morte per difendere la giustizia.
Ma le leggi fatte da uomini senza alcuna dignità hanno reso inutili le loro morti e hanno ucciso anche la Giustizia.
cetta

mercoledì 18 dicembre 2019

Famiglia Borsellino contro manifesto Fratelli d'Italia: "Uso improprio immagine nostro padre." - Elvira Terranova.

Famiglia Borsellino contro manifesto Fratelli d'Italia: Uso improprio immagine nostro padre

Duro commento dei figli, 'Iniziativa improvvida, diffidiamo partito a usare immagine e nome.'

La famiglia di Paolo Borsellino si scaglia contro un manifesto di Fratelli d'Italia che pubblicizzava un incontro che si è tenuto ieri sera al Comune di Podenzano, nel piacentino. Tra gli interventi previsti quello di tre parlamentari del partito di Giorgia Meloni, Tommaso Foti, Wanda Ferro e Andrea Del Mastro.
"Con riferimento ai manifesti elettorali del movimento politico 'Fratelli d'Italia' che indebitamente recano l'effige di nostro padre e la dicitura 'Borsellino vive', oltre a dissociarci decisamente da questa improvvida iniziativa diffidiamo pubblicamente i responsabili del partito politico dall'utilizzare in qualsiasi forma e modo l'immagine e il nome di Paolo Borsellino", dicono i figli del giudice ucciso nella strage di via D'Amelio, Manfredi, Lucia e Fiammetta Borsellino.
"Ci riserviamo per ogni altro aspetto di adire le vie legali per l'uso improprio e illegittimo che è stato fatto dell'immagine e del nome di nostro padre", annunciano all'Adnkronos.



Sono così adusi a bypassare le leggi che loro stessi fanno, che commettono reati senza rendersene conto. E' illegale, infatti, utilizzare le immagini di persone senza il consenso degli interessati o di chi ne fa le veci.

lunedì 30 settembre 2019

“Dai pentiti a Graviano. Perché vanno indagati Berlusconi e Dell’Utri”.

“Dai pentiti a Graviano. Perché vanno indagati Berlusconi e Dell’Utri”

Settembre 2017 - Davanti alla Commissione parlamentare antimafia il pm Di Matteo spiegò come sono nati i sospetti sui fondatori di Forza Italia per le stragi del 1992-’93.


- Giorni fa gli avvocati di Silvio Berlusconi hanno depositato al processo d’appello per la Trattativa Stato-mafia, per il quale Marcello Dell’Utri è stato condannato in primo grado a 12 anni, la documentazione secondo cui il leader di Forza Italia è indagato a Firenze nell’inchiesta sui mandanti occulti delle stragi del 1993. Matteo Renzi si è detto “attonito”. Secondo lui “sostenere 25 anni dopo, senza uno straccio di prova, che egli sia il mandante dell’attentato mafioso contro Maurizio Costanzo significa fare un pessimo servizio alla credibilità delle istituzioni italiane”. Ecco alcuni motivi per cui dovrebbe essere un po’ meno sorpreso.
Commissione parlamentare antimafia, seduta del 13 settembre 2017, dall’audizione del pm Nino Di Matteo.
Di Matteo: Nell’ultimo periodo, anche grazie a indagini da me e da altri colleghi condotte a Palermo, sono emersi a mio avviso importanti elementi di prova che indicano ulteriormente che la strage (di via D’Amelio, ndr) non fu solo una strage di mafia. Però, proprio in questo momento – e temo che non sia un caso – il dibattito e l’attenzione, invece di concentrarsi sulla necessità di ulteriori approfondimenti in tal senso, si orientano a screditare e delegittimare il mio lavoro e la mia professionalità. (…)
Si finge di dimenticare – e comunque da più parti sistematicamente si ignora – che tra il cosiddetto “via D’Amelio bis” e, ancora più importante, il cosiddetto “via D’Amelio ter” ben ventisei imputati sono stati condannati definitivamente per concorso in strage, nella strage appunto di via D’Amelio. Nel Paese che purtroppo è stato definito “il Paese delle stragi impunite” non mi pare, quello dei ventisei ergastoli definitivi, un risultato irrilevante. Attenzione: ventisei imputati per cui l’affermazione di responsabilità per strage è stata confermata fino alla Cassazione e mai minimamente messa in discussione, neppure dopo le acquisizioni più recenti, che partono dalla collaborazione di Gaspare Spatuzza. Ventisei condanne definitive: non sono stati venticinque anni persi nella ricerca della verità. Il processo di revisione ha riguardato, per quanto concerne le accuse di strage di imputati del cosiddetto “via D’Amelio bis”, sette posizioni. Nessuno dice, nessuno ricorda un dato di fatto che potete facilmente controllare: già all’esito del processo di primo grado di quel troncone “via D’Amelio bis”, sentenze di primo grado del 13 febbraio 1999, sei dei sette soggetti successivamente revisionati erano già stati assolti dalla Corte d’assise di primo grado. Nessuno ricorda, tutti fingono di dimenticare che per tre posizioni di quelle sei erano stati gli stessi pm a chiedere l’assoluzione. (…)
Io ho seguito, tra i processi per la strage, un solo processo dall’inizio delle indagini alla conclusione della sentenza di primo grado: il cosiddetto processo “via D’Amelio ter”. (…) In quel processo sono state irrogate venti condanne per concorso in strage. Quel processo (…) prescinde completamente e assolutamente dalle dichiarazioni di Scarantino Vincenzo. In quel processo, Scarantino Vincenzo non è stato chiamato neppure a testimoniare. (…)
Così parlò Cancemi.
Quella è la sede processuale in cui il pm – all’epoca era un giovane pm che da allora fino a oggi ha cambiato la sua vita ed è costretto a vivere in un certo modo – ha fatto emergere, tra le altre, le piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via D’Amelio e la trattativa Ciancimino-Ros dei carabinieri. Quella, signor presidente, è la sede processuale dove per la prima volta Salvatore Cancemi, un pentito già appartenuto alla commissione provinciale di Cosa nostra, quindi a quella che giornalisticamente viene chiamata “cupola”, in quattro estenuanti udienze affermò che nello stesso contesto temporale – giugno 1992 – nelle stesse riunioni in cui Riina, di fronte agli altri membri della commissione, si assumeva la responsabilità e la paternità di uccidere subito, a meno di sessanta giorni di distanza da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino… Cancemi ha dichiarato in quella sede processuale che in quel momento, in quelle riunioni in cui Riina si assumeva la responsabilità di fare un’altra strage a meno di due mesi da quella di Capaci, citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti che bisognava appoggiare ora e in futuro, e rassicurava gli altri componenti della cupola dicendo che fare quella strage sarebbe stato alla lunga un bene per tutta Cosa nostra, anche per i soggetti già all’epoca detenuti.
Questi sono due degli spunti che ho voluto citare, ma ce ne sono tanti altri, che sono stati alimentati anche recentemente – in particolare il secondo spunto che vi ho detto – da numerose altre acquisizioni che (questo però è il mio avviso) dovrebbero portare a una immediata riapertura delle indagini sui mandanti esterni a Cosa nostra e a un rinnovato impegno collettivo di tutte le Istituzioni nel senso del completamento del percorso di ricerca della verità. (…)
Ancora, presidente, c’è Salvatore Cancemi. Ecco quali sono i tanti spunti. Dal 1993 al 1996, nel momento in cui – credo unico tra i collaboratori di giustizia all’epoca – era sotto la protezione diretta, materialmente custodito, presso una caserma del Ros dei carabinieri… Quando facevamo le citazioni per interrogarlo, non le facevamo tramite il Servizio centrale di protezione, ma il Ros dei carabinieri, non di sua spontanea iniziativa – bisogna dire le cose come stanno – aveva ricevuto personalmente dai procuratori di Caltanissetta Tinebra e di Palermo Caselli l’incarico di custodire materialmente Cancemi. Cancemi viveva al Ros. Dal 1993 al 1996 dice di non sapere nulla della strage di via D’Amelio. Dopodiché, nel 1996 ci chiama e ci dice che aveva partecipato alla strage e, la mattina, ai pedinamenti degli spostamenti del dottor Borsellino. (…) Lui aveva sempre detto che Raffaele Ganci, un altro componente della cupola, gli aveva riferito che Riina aveva parlato con persone importanti e che aveva le spalle coperte da persone importanti. Continuo a chiedere quella cosa e lui risponde, per la prima volta, dicendo: “Ricordo una riunione a casa di Girolamo Guddo, nel giugno del 1992, tra Capaci e via D’Amelio, quando Riina ci disse: ‘Adesso dobbiamo mettere mano – così si esprimono – all’eliminazione del dottor Borsellino’”. Qualcuno degli esponenti chiese: “Perché in questo momento?”. Vi ricorderete tutti che, dopo la prima iniziale reazione che portò al decreto legge 8 giugno del 1992, con l’introduzione del 41-bis, in Parlamento stava maturando chiaramente, e se ne aveva conoscenza da parte dei giornali, una maggioranza contraria alla conversione in legge di quel decreto istitutivo del 41-bis.
Qualcuno a Riina fece notare che fare un’altra strage a ridosso avrebbe comportato delle conseguenze negative, con l’espressione plasticamente raccontata da due collaboratori di giustizia che c’erano alla riunione, Cancemi e Brusca, che Ganci Raffaele utilizzò nei confronti di Riina, dicendo: “Ma che dobbiamo fare, la guerra allo Stato ?”. Riina disse: “La responsabilità è mia. Si deve fare ora. Sarà un bene per Cosa nostra”. Secondo Cancemi, in quel momento avrebbe detto: “Ora e in futuro noi dobbiamo sempre appoggiare Berlusconi e Dell’Utri. Dobbiamo fare riferimento a queste persone. Cosa nostra ne avrà dei benefici”. Signor presidente, mi permetto semplicemente di dire questo a proposito dell’insabbiamento, della Procura para-massonica e via discorrendo. Eravamo due giovani magistrati in particolare all’epoca, io e il dottor Tescaroli, che con quelle dichiarazioni abbiamo chiesto, ottenuto e sostenuto – non siamo stati i soli, perché alcuni magistrati ci appoggiarono – davanti al procuratore capo, dottor Tinebra, che… Adesso, purtroppo, non può confermare, perché è morto. Mi dispiace citare certi particolari, ma è storia. Venne alla riunione con il quotidiano Il Giornale, che in prima pagina titolava “Le balle di Cancemi”. Noi pretendemmo che venissero iscritti per concorso in strage Berlusconi e Dell’Utri, i quali vennero iscritti con i nomi di copertura, a tutela del segreto, che infatti resse per moltissimo tempo, non mi ricordo se Alfa e Beta o Alfa e Omega. Facemmo delle indagini e delle deleghe di indagini che venivano firmate esclusivamente dai due giovani magistrati della Procura, Di Matteo e Tescaroli. Con riguardo agli spunti, non voglio… anche se ho sempre la tentazione di evidenziare le cose che emergono e che riguardano la competenza soprattutto di Caltanissetta e Firenze.
“Il piano per uccidermi”
Con riguardo ai mandanti esterni, prima di passare all’argomento credo più importante, ricorderò sempre il dato che poi è stato ripetuto processualmente anche da un collaboratore di giustizia più recente, Vito Galatolo. Si tratta di quel soggetto, appartenente a una famiglia stragista, che scrisse, nel novembre del 2014, chiedendo di avere un colloquio con me. Io ormai ero alla Procura di Palermo. Come è poi diventato noto a questa Commissione, che si è occupata tempestivamente e molto approfonditamente del caso, questo soggetto, quando fu al cospetto mio e dell’ufficiale di Polizia giudiziaria che mi accompagnava per verbalizzare, non volle verbalizzare niente, ma disse, in maniera molto agitata, che dovevo stare attento, perché l’attentato nei miei confronti era già pronto nei minimi dettagli. Raccontò di aver acquistato e visto l’esplosivo destinato a quell’attentato e, alla mia sommessa domanda “Scusi, ma perché?”, fece un gesto particolare. C’era in quell’auletta della sezione 41-bis del carcere di Parma la fotografia, molto nota, che si trova in molti uffici pubblici, di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Era molto agitato e disse: “La sua situazione è come quella – mi disse, indicando Giovanni Falcone – non come quello, ma come l’altro. A noi com’era avvenuto per l’altro ce l’hanno chiesto. Io ero giovane a quell’epoca, ma sono figlio di mio padre e queste cose le ho sapute”. (…)
Per anni, soprattutto da quando si è pentito Spatuzza, noi abbiamo saputo che il principale protagonista intanto della fase esecutiva della strage di via D’Amelio è stato Giuseppe Graviano. (…) Giuseppe Graviano – lo sappiamo da sentenza definitiva – è stato il principale protagonista degli attentati a Roma, Firenze e Milano del 1993. Oggi sappiamo – noi lo sappiamo da un po’ più di tempo, grazie alla collaborazione che abbiamo sempre avuto con la Procura di Reggio Calabria – che Giuseppe Graviano è stato il principale protagonista dell’accordo con la ’ndrangheta che portò, nei primi mesi del 1994, il 18 gennaio, al duplice omicidio dei due appuntati dei carabinieri a Scilla, Fava e Garofalo, e ad altri attentati, per fortuna falliti, nei confronti dei carabinieri, sempre in territorio calabrese. Soprattutto sappiamo che Giuseppe Graviano è stato il principale protagonista del fallito attentato all’Olimpico del 23 gennaio 1994. Il 27 gennaio, assieme al fratello Filippo, viene arrestato a Milano. Quell’attentato – questo lo sapete meglio di me – è uno dei grandi misteri, in merito non tanto a perché non sia riuscito il 23 gennaio, quanto a perché non sia stato mai più tentato e ripetuto, io dico per fortuna, ma qualcuno… Ci dovremmo chiedere il perché.
Il boss di Brancaccio.
Quando Spatuzza si pentì, fecero scalpore le dichiarazioni sull’incontro al bar Doney, qui a Roma, in via Veneto, incontro che riusciamo a collocare investigativamente proprio pochi giorni prima del 23 gennaio. Spatuzza dice: “Graviano, l’attentato lo dobbiamo fare lo stesso. I calabresi si sono mossi. Dobbiamo dare quest’ultimo colpo. Lo dobbiamo fare lo stesso, tanto ormai comunque ci siamo messi il Paese nelle mani”. Avrebbe fatto i nomi di Berlusconi e Dell’Utri come i soggetti con i quali erano stati stipulati quegli accordi. All’epoca si disse e si scrisse abbondantemente “sì, ma sono delle dichiarazioni de relato. Comunque Spatuzza può essere attendibile, ma dice di avere saputo queste cose da Graviano”. Oggi, con la nostra attività alla Procura di Palermo, con un anno di intercettazioni ambientali dei colloqui tra Giuseppe Graviano e il suo compagno di socialità, c’è la viva voce di Graviano Giuseppe, cioè di quello che era ritenuto il perno di tutte queste vicende, che, quando parla del 1992-93 e delle stragi, parla di cortesie fatte e di contatti politici (si capisce in maniera assolutamente chiara con Berlusconi).
Presidente, mi auguro di sbagliare, rispetto a questa escalation di elementi di prova sul punto, ma temo l’indifferenza, la minimizzazione, lo svilimento ingiustificato della valenza probatoria anche di queste dichiarazioni di Graviano attraverso quella che è, a mio parere, ma questo verrà poi discusso nei processi, la discutibilissima affermazione che è stata prospettata da alcuni difensori, ma fatta propria dalla maggior parte dei giornali, che Graviano sapeva di essere intercettato. A noi risulta il contrario. (…) Ammesso e non concesso che sapesse di essere intercettato, il fatto che si riferisse a quelle vicende e a quelle persone in relazione a quel periodo delle stragi, in ogni caso, in un senso o nell’altro, un significato dovrà pure avere. Presidente, sono veramente tanti gli spunti che dovrebbero ancora essere approfonditi. Molti spunti sono stati il frutto del lavoro, non soltanto mio, per carità, ma di magistrati tra i quali ci sono stato io. Tutto viene concentrato sulla vicenda Scarantino. Si vuole fare credere che tutto il lavoro fatto finora da decine di magistrati non sia servito a nulla. Io temo che questo sia controproducente all’accertamento della verità. Spero che questa mia audizione, finora e per quello che voi mi vorrete chiedere, possa servire anche a stimolare quello sforzo di prosecuzione e completamento del percorso di verità sulle stragi che oggi – lo affermo con molta amarezza, ma con piena consapevolezza e senza enfatizzazione – è rimasto, nel disinteresse generalizzato, sulle spalle di pochi magistrati, pochi investigatori e pochi esponenti della politica. Vi ringrazio per l’attenzione.
Seduta pomeridiana del 19 settembre 2017
Di Matteo: (…) Presidente, (…) vorrei chiedere che si procedesse con la seduta segreta. (…) Credo che dovrò fare riferimento anche a fatti che magari per la Procura di Caltanissetta, di Palermo o di Firenze possono essere di inopportuna diffusione mediatica.
(I lavori procedono in seduta segreta)

venerdì 19 luglio 2019

Stragi Falcone e Borsellino.

Strage di capaci.jpg
Strage di Capaci, con la quale morì Falcone. 

Risultati immagini per stragi falcone e borsellino
Strage di via D'Amelio, con la quale morì Borsellino.

  Sono ancora tanti i misteri che aleggiano sui fatti che hanno distrutto sicurezza e serenità nel paese, e chissà quanto tempo passerà, ancora, per ristabilire il senso di fiducia nelle istituzioni, viste le circostanze che si verificano giornalmente. 
  Non so voi, ma io sento sempre più intensamente quella sensazione di impotenza, che fa star male, nei confronti della parte peggiore del paese che si è impossessata dei gangli del potere economico e decisionale.
  Il compito di chi vuole porre fine a questa situazione demoralizzante è assai arduo e pericoloso, perchè quella parte del potere che lucra su tutto è appoggiata da bande di servili yesmen che si accontentano delle briciole perse lungo la via da chi li manovra pur di partecipare al lauto banchetto e che si prodigano per far loro spazio spianandogli la strada delle istituzioni.

by Cetta

domenica 10 aprile 2016

Inchiesta petrolio, Gemelli intercettato. "Quelli della Total ce li abbiamo". - Nini Femiani



Il compagno della Guidi esultava al telefono dopo il convegno con ministri e petrolieri. Al via gli interrogatori. 
Napoli, 4 aprile 2016 - PER L’INTERA mattinata fa capolino solo qualche carabiniere del Noe che entra ed esce dal palazzo di via Nazario Sauro. L’attesa si spezza dopo le dichiarazioni del premier Renzi rimbalzate dal programma In mezz’ora: negli uffici della procura si accende qualche luce e trapela una dichiarazione: «I pubblici ministeri della Procura della Repubblica di Potenza non pensavano di ascoltare il presidente del Consiglio». Perciò, saranno solo il ministro Maria Elena Boschi e l’ex titolare del Mise, Federica Guidi, a essere ascoltate domani o mercoledì durante la trasferta dei pm lucani. Entrambe non indagate, saranno sentite come persone informate sui fatti.
Alla GUIDI, in particolare, sarà chiesto di spiegare il senso di alcune intercettazioni. Non solo quella, ormai nota, dell’emendamento alla legge di Stabilità 2015 e del perché lo abbia annunciato in anteprima al convivente, Gianluca Gemelli. Si parlerà anche di un convegno, l’11 novembre a Roma, della Fondazione ItalianiEuropei, al quale la titolare del Mise partecipò con il ministro dell’Ambiente Galletti e con i vertici della Total. Come sia andato quell’incontro per la Total, lo spiega Gemelli al suo socio Salvatore Lantieri qualche giorno dopo: «...C’erano questi qua di Total...sì, minchia...sì, lui... lui, quello del capo delle relazioni esterne... minchia compare... ringraziamenti, alliccamenti che non ti dico... quelli che li abbiamo...ce li abbiamo...».
In quei giorni sembra essere scoppiato un feeling tra il Mise e i petrolieri francesi, tanto che il dirigente Total Giuseppe Cobianchi riferisce a Gemelli: «A parte la Basilicata, lei sa che c’è una parte importante del progetto che si sviluppa a Taranto... e lì la situazione è anche abbastanza complessa diciamo, quindi stiamo cercando...vediamo, speriamo bene...so che anche a livello centrale con i ministeri, insomma i colleghi di Roma hanno contatti continui, frequenti, quindi mi auguro che quello che viene dichiarato a livello governativo possa trovare applicazione insomma...». Con chi avvengono queste «frequentazioni»? Chiederanno i pm alla Guidi. Chi garantiva le coperture politiche al «livello centrale» che tratta con Total?
DEFINITO, per il momento, il versante politico, l’inchiesta si allarga e si stratifica in più filoni. Oggi, intanto, scattano gli interrogatori di garanzia per i sei arrestati ai domiciliari (cinque dipendenti Eni più l’ex sindaco Pd di Corleto Perticara) mentre i magistrati dell’accusa sono intenzionati a presentare appello contro la decisione del gip, Michela Tiziana Petrocelli, che ha rigettato la richiesta di arresto per Gianluca Gemelli, compagno di Federica Guidi, indagato con l’accusa di corruzione e traffico di influenze per la vicenda dell’affidamento di appalti e consulenze nel giacimento Total di ‘Tempa Rossa’.
Oltre ai filoni già aperti con gli arresti – quello dei conferimenti di rifiuti «taroccati» e illeciti da parte dell’Eni di Viaggiano e quelli del traffico di influenze e della corruzione per il giacimento Total di ‘Tempa Rossa’ – c’è un nuovo versante che si sta spalancando, agitando lo spettro del disastro ambientale. Saranno effettuate dai carabinieri dei Noe diffuse indagini epidemiologiche in diverse zone lucane per capire se l’immissione di rifiuti non trattati nelle cavità geologiche o nell’atmosfera abbia creato problemi alla salute.
COLLATERALE, sebbene lontano dalla Lucania, è infine la tranche che interessa l’attività dell’autorità portuale di Augusta, in Sicilia, centro di azione di diverse compagnie petrolifere. In tal caso l’indagato «eccellente» è il capo di Stato maggiore della Marina, ammiraglio Giuseppe De Giorgi.

Gemelli, le intercettazioni: "Borsellino andrebbe eliminata" - Emanuele Lauria e Marco Mensurati

Gemelli, le intercettazioni: "Borsellino andrebbe eliminata"

La frase riportata in un rapporto della Questura di Potenza, in una conversazione con Alberto Cozzo. La figlia del giudice ucciso dalla mafia: "Meschinità"

ROMA. "La Borsellino, gli altri come lei, andrebbero eliminati ". Così parla Gianluca Gemelli, l'imprenditore di Augusta accusato di aver sfruttato la sua relazione con l'ex ministro Federica Guidi per ottenere vantaggi nei propri affari. È il 5 maggio del 2015 e Gemelli è al telefono con Alberto Cozzo, commissario dell'autorità portuale di Augusta. Cozzo è preoccupato per un'interrogazione parlamentare di Claudio Fava, esponente di Sinistra italiana e vicepresidente della commissione Antimafia, sull'attività dell'Authority. Teme che quell'atto possa minacciarne la riconferma in una carica in scadenza.

I due, secondo gli investigatori, hanno un obiettivo comune: quello di mantenere un assetto, al vertice dell'ente, che possa consentire a Gemelli di perseguire i propri interessi in uno dei porti industriali più grandi del Mediterraneo. Quell'atto parlamentare di Fava è indigesto, anche perché Cozzo sottolinea che i fatti denunciati - un appalto sospetto - risalgono a un periodo precedente al suo insediamento.

Quando Gemelli domanda a quale corrente appartenesse Fava, figlio di un giornalista ucciso da Cosa nostra, Cozzo risponde: "Fava è amico della Chinnici, sono tutti questi dell'Antimafia, il giro quello è...". E Gemelli, non sapendo di essere intercettato, aggiunge: "Ah minchia, l'Antimafia praticamente, perché questi qua... guarda quelli che utilizzano i cognomi dei martiri per fare carriera, fanno ancora più schifo degli altri... lei, la Borsellino, questa è gente che proprio andrebbe eliminata... però dicono sono bravissime persone... e va bè, se lo dite voi...".

"Andrebbe eliminata", dice proprio così Gemelli, riferendosi a Lucia Borsellino, figlia del magistrato Paolo Borsellino (ucciso dalla mafia il 19 luglio del 1992) ed ex assessore regionale alla Salute nell'Isola. Una frase, quella riportata in un rapporto della Questura di Potenza, che conferma come la Borsellino non fosse particolarmente amata dalle lobby siciliane. Ma che rimarca, in particolare, l'insofferenza di Gemelli e della sua combriccola nei confronti dei parenti delle vittime di mafia che fanno politica. Un'insofferenza espressa con parole agghiaccianti. La Borsellino replica seccamente: "Non intendo commentare queste meschinità - afferma la figlia del giudice assassinato - non competendo a me valutare le motivazioni per cui accadono. Io lavoro con i valori che mi appartengono. Se ciò dà fastidio io e la mia famiglia ce ne faremo una ragione".

domenica 19 luglio 2015

Borsellino ucciso perché indagava sulla trattativa, trovato il fascicolo. E spuntano nomi “pesanti”. - Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza

La ricostruzione dei giornalisti del Fatto, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, mette i brividi: Borsellino è stato ucciso perché stava indagando, formalmente, sulla trattativa Stato-Mafia. La conferma arriva dal ritrovamento di un fascicolo assegnato a Borsellino in data 8 luglio 1992 (11 giorni prima di essere ucciso…) in cui viene fuori l’ufficialità dell’indagine e i nomi delle persone coinvolte. Nomi pesanti. Nomi di capimafia. Nomi di politici. Nomi di esponenti dei servizi segreti.

In piena stagione stragista, a metà giugno del ‘92, un anonimo di otto pagine scatenò fibrillazione e panico nei palazzi del potere politico-giudiziario: sosteneva che l’ex ministro dc Calogero Mannino aveva incontrato Totò Riina in una sacrestia di San Giuseppe Jato (Palermo). Una sorta di prologo della trattativa. Su quell’anonimo, si scopre oggi dai documenti prodotti dal pm Nino Di Matteo nell’aula del processo Mori, stava indagando formalmente Paolo Borsellino. Con un’indagine che il generale del Ros Antonio Subranni chiese ufficialmente di archiviare perché non meritava “l’attivazione della giustizia”.
IL DOCUMENTO dell’assegnazione del fascicolo a Borsellino e a Vittorio Aliquò, datato 8 luglio 1992, insieme alle altre note inviate tra luglio e ottobre di quell’anno, non è stato acquisito al fascicolo processuale perché il presidente del Tribunale Mario Fontana non vi ha riconosciuto una “valenza decisiva” ai fini della sentenza sulla mancata cattura di Provenzano nel ‘95, che sarà pronunciata mercoledì prossimo.
Ma le note sono state trasmesse alla Procura nissena impegnata nella ricostruzione dello scenario che fa da sfondo al movente della strage di via D’Amelio. In aula a Caltanissetta, infatti, nei giorni scorsi, Carmelo Canale ha raccontato che il 25 giugno 1992, Borsellino, “incuriosito dall’anonimo” volle incontrare il capitano del Ros Beppe De Donno, in un colloquio riservato alla caserma Carini, proprio per conoscere quel carabiniere che voci ricorrenti tra i suoi colleghi indicavano come il “Corvo due”, ovvero l’autore della missiva di otto pagine.
Quale fu il reale contenuto di quell’incontro? Per il pm, gli ufficiali del Ros, raccontando che con Borsellino quel giorno discussero solo della pista mafia-appalti , hanno sempre mentito: una bugia per negare l’esistenza della trattativa, come ha ribadito Di Matteo ieri in aula, nell’ultima replica. Tre giorni dopo, il 28 giugno, a Liliana Ferraro che gli parla dell’iniziativa avviata dal Ros con don Vito, Borsellino fa capire di sapere già tutto e dice: “Ci penso io”.
Il primo luglio ‘92, a Palermo il procuratore Pietro Giammanco firma una delega al dirigente dello Sco di Roma e al comandante del Ros dei Carabinieri per l’individuazione dell’anonimo. Il 2 luglio, Subranni gli risponde con un biglietto informale: “Caro Piero, ho piacere di darti copia del comunicato dell’Ansa sull’anonimo. La valutazione collima con quella espressa da altri organi qualificati. Buon lavoro, affettuosi saluti”.
NEL LANCIO Ansa, le “soffiate” del Corvo sono definite dai vertici investigativi “illazioni ed insinuazioni che possono solo favorire lo sviluppo di stagioni velenose e disgreganti”. Come ha spiegato in aula Di Matteo, “il comandante del Ros, il giorno stesso in cui avrebbe dovuto cominciare ad indagare, dice al procuratore della Repubblica: guardate che stanno infangando Mannino”.
Perché Subranni tiene a far sapere subito a Giammanco che l’indagine sul Corvo 2 va stoppata? Venerdì 10 luglio ‘92 Borsellino è a Roma e incontra proprio Subranni, che il giorno dopo lo accompagna in elicottero a Salerno. Borsellino (lo riferisce il collega Diego Cavaliero) quel giorno ha l’aria “assente”. Decisivo, per i pm, è proprio quell’incontro con Subranni, indicato come l’interlocutore diretto di Mannino. È a Subranni che, dopo l’uccisione di Salvo Lima, l’ex ministro Dc terrorizzato chiede aiuto per aprire un “contatto” con i boss.
È allo stesso Subranni che Borsellino chiede conto e ragione di quella trattativa avviata con i capi mafiosi? No, secondo Basilio Milio, il difensore di Mori, che ieri in aula ha rilanciato: “Quell’incontro romano con Subranni è la prova che Borsellino certamente non aveva alcun sospetto sul Ros”.
Il 17 luglio, però, Borsellino dice alla moglie Agnese che “Subranni è punciuto”. Poche ore dopo, in via D’Amelio, viene messo a tacere per sempre. Nell’autunno successivo, il 3 ottobre, il comandante del Ros torna a scrivere all’aggiunto Aliquò, rimasto solo ad indagare sull’anonimo: “Mi permetto di proporre – lo dico responsabilmente – che la signoria vostra archivi immediatamente il tutto ai sensi della normativa vigente”.

sabato 18 luglio 2015

Crocetta: telefonate medico e manager, insulti a Borsellino.

Lucia Borsellino, Matteo Tutino, Rosario Crocetta, Sicilia, Cronaca


Il testo di alcune intercettazioni del Nas agli atti inchiesta.


(ANSA) - PALERMO, 18 LUG - Mentre continua ad essere avvolta dal mistero la presunta conversazione shock tra il medico Matteo Tutino e il Governatore Rosario Crocetta, smentita dalla Procura di Palermo e confermata dal settimanale L'Espresso, cominciano a venir fuori alcune intercettazioni depositate agli atti dell'inchiesta che riguarda il chirurgo plastico, arrestato tre settimane fa con l'accusa di truffa. 
Stralci delle telefonate vengono pubblicate oggi dal Giornale di Sicilia. Nel marzo 2014, dopo la notifica di avvisi di garanzia allo stesso Tutino e al commissario straordinario dell'ospedale Villa Sofia di Palermo Giacomo Samperi, alcune intercettazioni telefoniche tra i due rivelano quanto conflittuale fosse il loro rapporto con l'allora assessore regionale alla Salute, Lucia Borsellino. 

  Samperi, il cui mandato era stato revocato da Borsellino, parla con Tutino e dice di voler fare un esposto contro l'assessore: "La denuncio per illecito... Me ne sto fottendo, pure che si chiama Lucia Borsellino". e Tutino risponde: "Bravo". Il quotidiano riporta anche una frase che Crocetta avrebbe riferito a Tutino a proposito della revoca di Samperi dal suo incarico: "Ora ma viru io cu Lucia" (ora ci penso io, ndr).

    Il 27 marzo 2014 Samperi e Tutino parlano al telefono: "Io credo che ci sia qualcosa sotto in tutto questo e Lucia e il presidente sono in disaccordo...". "Sì, totale - dice Tutino - ma mi ha detto (il presidente, ndr) stai tranquillo".
    I due si definiscono "uomini del presidente" che operano "per la legalità. La legalità prima di tutto - osserva Tutino - E Samperi aggiunge: "Ma a noi quello interessa, prima di tutto...
    Siamo troppo seri noi".

    Dopo la revoca di Samperi, un dipendente del pronto soccorso di Villa Sofia va da Tutino e gli dice di aver saputo dal fratello che "tutto viene da quella b... della Borsellino e il presidente non la vuole fare muovere da lì". E parla di un dirigente dell'assessorato alla Salute "messo lì appositamente perché dà fastidio alla Borsellino".

    Il 25 Marzo 2014 è il periodo in cui sono in ballo le nomine nella sanità e Tutino, parlando con il segretario particolare di Crocetta, Giuseppe Comandatore, dice: "Senti, lui (Crocetta, ndr) mi ha detto che domani gli devo portare la lista dei pretoriani del presidente". "Sì - dice Comandatore - la porti, vieni al palazzo... lo visiti, gli guardi cose e via". "Avremo bisogno di mezz'ora - dice Tutino - perché gli parlerò di ognuno con il curriculum in modo molto... Sono fedelissimi". (ANSA).

martedì 7 ottobre 2014

Borsellino ucciso perché indagava sulla trattativa, trovato il fascicolo. E spuntano nomi “pesanti”. - Sandra Rizzo e Giuseppe Lo Bianco



La ricostruzione dei giornalisti del Fatto, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, mette i brividi: Borsellino è stato ucciso perché stava indagando, formalmente, sulla trattativa Stato-Mafia. La conferma arriva dal ritrovamento di un fascicolo assegnato a Borsellino in data 8 luglio 1992 (11 giorni prima di essere ucciso…) in cui viene fuori l’ufficialità dell’indagine e i nomi delle persone coinvolte. Nomi pesanti. Nomi di capimafia. Nomi di politici. Nomi di esponenti dei servizi segreti. 

In piena stagione stragista, a metà giugno del ‘92, un anonimo di otto pagine scatenò fibrillazione e panico nei palazzi del potere politico-giudiziario: sosteneva che l'ex ministro dc Calogero Mannino aveva incontrato Totò Riina in una sacrestia di San Giuseppe Jato (Palermo). Una sorta di prologo della trattativa. Su quell'anonimo, si scopre oggi dai documenti prodotti dal pm Nino Di Matteo nell'aula del processo Mori, stava indagando formalmente Paolo Borsellino. Con un'indagine che il generale del Ros Antonio Subranni chiese ufficialmente di archiviare perché non meritava "l'attivazione della giustizia".
IL DOCUMENTO dell'assegnazione del fascicolo a Borsellino e a Vittorio Aliquò, datato 8 luglio 1992, insieme alle altre note inviate tra luglio e ottobre di quell'anno, non è stato acquisito al fascicolo processuale perché il presidente del Tribunale Mario Fontana non vi ha riconosciuto una "valenza decisiva" ai fini della sentenza sulla mancata cattura di Provenzano nel ‘95, che sarà pronunciata mercoledì prossimo.
Ma le note sono state trasmesse alla Procura nissena impegnata nella ricostruzione dello scenario che fa da sfondo al movente della strage di via D'Amelio. In aula a Caltanissetta, infatti, nei giorni scorsi, Carmelo Canale ha raccontato che il 25 giugno 1992, Borsellino, "incuriosito dall'anonimo" volle incontrare il capitano del Ros Beppe De Donno, in un colloquio riservato alla caserma Carini, proprio per conoscere quel carabiniere che voci ricorrenti tra i suoi colleghi indicavano come il "Corvo due", ovvero l'autore della missiva di otto pagine.
Quale fu il reale contenuto di quell'incontro? Per il pm, gli ufficiali del Ros, raccontando che con Borsellino quel giorno discussero solo della pista mafia-appalti , hanno sempre mentito: una bugia per negare l'esistenza della trattativa, come ha ribadito Di Matteo ieri in aula, nell'ultima replica. Tre giorni dopo, il 28 giugno, a Liliana Ferraro che gli parla dell'iniziativa avviata dal Ros con don Vito, Borsellino fa capire di sapere già tutto e dice: "Ci penso io".
Il primo luglio ‘92, a Palermo il procuratore Pietro Giammanco firma una delega al dirigente dello Sco di Roma e al comandante del Ros dei Carabinieri per l'individuazione dell'anonimo. Il 2 luglio, Subranni gli risponde con un biglietto informale: "Caro Piero, ho piacere di darti copia del comunicato dell'Ansa sull'anonimo. La valutazione collima con quella espressa da altri organi qualificati. Buon lavoro, affettuosi saluti".
NEL LANCIO Ansa, le "soffiate" del Corvo sono definite dai vertici investigativi "illazioni ed insinuazioni che possono solo favorire lo sviluppo di stagioni velenose e disgreganti". Come ha spiegato in aula Di Matteo, "il comandante del Ros, il giorno stesso in cui avrebbe dovuto cominciare ad indagare, dice al procuratore della Repubblica: guardate che stanno infangando Mannino".
Perché Subranni tiene a far sapere subito a Giammanco che l'indagine sul Corvo 2 va stoppata? Venerdì 10 luglio ‘92 Borsellino è a Roma e incontra proprio Subranni, che il giorno dopo lo accompagna in elicottero a Salerno. Borsellino (lo riferisce il collega Diego Cavaliero) quel giorno ha l'aria "assente". Decisivo, per i pm, è proprio quell'incontro con Subranni, indicato come l'interlocutore diretto di Mannino. È a Subranni che, dopo l'uccisione di Salvo Lima, l'ex ministro Dc terrorizzato chiede aiuto per aprire un "contatto" con i boss.
È allo stesso Subranni che Borsellino chiede conto e ragione di quella trattativa avviata con i capi mafiosi? No, secondo Basilio Milio, il difensore di Mori, che ieri in aula ha rilanciato: "Quell'incontro romano con Subranni è la prova che Borsellino certamente non aveva alcun sospetto sul Ros".
Il 17 luglio, però, Borsellino dice alla moglie Agnese che "Subranni è punciuto". Poche ore dopo, in via D'Amelio, viene messo a tacere per sempre. Nell'autunno successivo, il 3 ottobre, il comandante del Ros torna a scrivere all'aggiunto Aliquò, rimasto solo ad indagare sull'anonimo: "Mi permetto di proporre - lo dico responsabilmente - che la signoria vostra archivi immediatamente il tutto ai sensi della normativa vigente".
(art. del 14 luglio 2013)

http://www.infiltrato.it/inchieste/borsellino-ucciso-perche-indagava-sulla-trattativa-trovato-il-fascicolo-e-spuntano-nomi-pesanti#sthash.caqvABFm.dpuf

sabato 18 maggio 2013

Borsellino, Sky mostra un’agenda rossa accanto al corpo del magistrato.



In un video realizzato dai vigili del fuoco, e mostrato da SkyTg24, subito dopo la strage di via d’Amelio a Palermo, si vedrebbe un’agenda rossa accanto al corpo di Paolo Borsellino. Agenda poi mai ritrovata. “Se fosse vero sarebbe pazzesco”, dice il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari.

http://tv.ilfattoquotidiano.it/2013/05/18/borsellino-sky-mostra-immagini-dellagenda-rossa-del-magistrato-in-via-damelio/232985/

mercoledì 1 maggio 2013

Borsellino/quater. Il mistero della valigetta: l’agente di scorta di Ayala: ''Il giornalista Cavallaro non c’era''.


Lunedì era stato ascoltato proprio il giornalista del Corriere della Sera Felice Cavallaro, ieri è stata la volta di Rosario Farinella a quel tempo caposcorta di Giuseppe Ayala che quel giorno era con l'ex magistrato. Fu Farinella a prendere la valigetta del giudice Borsellino dall'auto. "Siamo andati in via D'Amelio in auto –ha raccontato ai pm della procura di Caltanissetta – e quando è scoppiata la bomba, in casa il giudice era solo.". Notizia che differisce da quanto raccontato da Cavallaro che ha detto di aver chiamato in casa di Ayala dopo avere sentito il botto e che al telefono rispose la sua compagna.
Ma non solo in questo differiscono le dichiarazioni. L'ex agente della scorta continua il suo racconto: "Eravamo vicini all'auto del dottore Borsellino; il giudice Ayala ha visto la borsa. Io l'ho presa e l'ho tenuta in mano per circa 5 minuti. Poi il giudice ha individuato un ufficiale in borghese e mi ha detto di darla a lui e così ho fatto. Quell'uomo era in abiti civili e non aveva distintivi". Poi ha aggiunto che Felice Cavallaro, in quel frangente, non era presente.
Altri scenari si sono aperti oggi. I pm hanno mostrato a Farinella delle foto del momenti successivi alla strage e l'ex capo scorta, sorpreso ha riconosciuto un uomo, che il giorno della strage, nella confusione, non aveva visto sul luogo: Roberto Campesi. Un uomo – spiega Farinella – che Ayala voleva "infiltrare" tra gli agenti della scorta e che non apparteneva all'arma. "Dopo la strage, tornato dalle ferie, appresi che Campesi era entrato a far parte della scorta – racconta – mi opposi immediatamente a questa cosa, soprattutto perché si trattava di un civile e chiesi informazioni. Mi dissero che addirittura era consuetudine che salisse sulla blindata con Ayala" .
Farinella, in quanto capo scorta, si oppose con forza alla novità fino a rivolgersi al capo ufficio scorte ma senza esito positivo: "Mi rispose che Campesi era persona di fiducia di Ayala e che quindi avrebbe viaggiato con loro. Nacque dunque un contrasto sulla pretesa del giudice che si concluse però con l'allontanamento di Farinelli dalla scorta.
Poi è stata la volta di Giovanni Adinolfi a quei tempi capitano dei Ros a Palermo che ha raccontato di aver parlato con Borsellino pochi giorni prima della strage . Il giudice gli disse di aver saputo dell'arrivo del tritolo ma di essere preoccupato più per la sua famiglie e la sua scorta che non per la sua stessa vita. Il colonnello ha poi riferito di quando il pm De Francisci gli raccontò che il giudice Borsellino aveva saputo che il pentito Mutolo e Marchese avevano detto che Contrada e Signorino erano vicini ad ambienti mafiosi.
Sul pretorio è poi salito il colonnello Marco Minicucci, che allora comandava il nucleo operativo dei carabinieri di Palermo. Ha detto che il capitano Giovanni Arcangioli (l'uomo della foto con la valigetta in mano), la mattina dopo o le ore successive (non ricorda con precisione) gli disse di avere prelevato lui la borsa dalla macchina. Circostanza che ricorda solo nel 2005, interrogato dalla Dia di Caltanissetta.
Il colonnello non si trovava vicino alla blindata quando fu presa la valigetta, che, infatti,  non vedrà mai.
Ad essere ascoltato poi è stato il caposquadra dei vigile del Fuoco Giovanni Farina, che ha dichiarato alla Corte di aver provato ad aprire la portiera dell'auto ma non vi riuscì. "Era impossibile. Mi sono accorto in seguito che era stata aperta da alcuni miei subordinati ma grazie all'intervento della Polizia – racconta – . A mio avviso l'hanno potuta aprire solo con la chiave ".
La prossima udienza è fissata per il 6maggio. Saranno ascoltati il maggiore Carmelo Canale e il magistrato Diego Cavaliero amico di Paolo Borsellino.

giovedì 3 gennaio 2013

"Stato-mafia, spiati i pm dell'inchiesta": il mistero del dossier che scuote Palermo. - Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo


"Stato-mafia, spiati i pm dell'inchiesta":  il mistero del dossier che scuote Palermo


Una lettera anonima fatta arrivare a uno dei sostituti procuratori che si occupano dell'inchiesta sulla trattativa. Nella missiva, ricostruzioni considerate affidabili e accuse: "Un carabiniere rubò l'agenda rossa di Borsellino". Il "protocollo  fantasma" afferma anche che fu nascosto l'archivio del covo di Riina. Ora la Procura vuole indagare.

PALERMO - È una lettera anonima quella che sta aprendo un nuovo fronte d'indagine sulla trattativa fra Stato e mafia. Avverte i magistrati di Palermo che sono spiati, indica dove trovare altre prove del patto, fa i nomi di vecchi uomini politici che potrebbero sapere molto. E denuncia che l'agenda rossa di Borsellino è stata rubata "da un carabiniere". 

L'inchiesta giudiziaria più tormentata di questi mesi si sta ancora rimescolando e rovista adesso in quelle che l'anonimo definisce "catacombe di Stato". Le ultime inedite indicazioni sono in uno scritto che gli investigatori valutano come "attendibile", studiato e steso da qualcuno estremamente informato, uno "dal di dentro" sospettano i pubblici ministeri di Palermo che hanno ordinato accertamenti su tutti i punti segnalati dall'anonimo. Lui, definisce la sua lettera "un esposto". L'ha spedita il 18 settembre scorso a casa di Nino Di Matteo, uno dei sostituti procuratori che insieme ad Antonio Ingroia hanno cominciato l'indagine sulla trattativa. 

Sono dodici pagine con lo stemma della Repubblica italiana sul frontespizio. L'autore, alla sua lunga lettera ha attribuito - come nei documenti ufficiali - una sorta di numero di fascicolo. È in codice: "Protocollo fantasma". 

Se sia tutto vero ciò che scrive o al contrario un tentativo di depistaggio si scoprirà presto, di sicuro al momento i funzionari della Dia di Palermo e quelli di Roma stanno raccogliendo riscontri intorno ai "suggerimenti" dell'anonimo. Uno che sembra a conoscenza di tanti segreti, come se avesse partecipato personalmente ad alcune operazioni poliziesche o sotto copertura. Questi dodici fogli ricordano tanto quell'altra lettera senza firma arrivata fra la strage Falcone e la strage Borsellino nell'estate del 1992 (e recapitata a 39 indirizzi fra i quali il Quirinale, le redazioni dei quotidiani italiani, il Viminale), la prima carta in assoluto dove si faceva cenno a "un accordo" fra Stato e mafia. Annunciando avvenimenti poi accaduti. Come l'arresto del capo dei capi Totò Riina.

Ma adesso vi raccontiamo cosa c'è esattamente nell'ultimo anonimo palermitano. Finisce con una frase misteriosa destinata al magistrato Di Matteo: "Tieni sempre in considerazione che sto lavorando con te, nelle tenebre". E annota subito dopo, in latino: "Impunitas semper ad deteriora invitat". L'impunità invita sempre a cose peggiori. 

Comincia invece con una cronistoria dei cadaveri eccellenti di Palermo: dall'omicidio del segretario del Pci siciliano Pio La Torre - il 30 aprile 1982  -  fino alla mancata cattura di Bernardo Provenzano dell'ottobre 1995 nelle campagne di Mezzojuso, probabilmente per una soffiata. In mezzo le bombe di Capaci e di via D'Amelio. Poi si addentra nel particolare. Iniziando dai pm che indagano sulla trattativa. 

Li mette in guardia da "uomini delle Istituzioni" che li stanno sorvegliando. "Canalizzano tutte le informazioni che riescono ad avere sul vostro conto", scrive. E dice che li riversano "a Roma", in una non meglio identificata "centrale". Fra gli spioni  -  sostiene l'anonimo  -  anche alcuni magistrati. Di certo, strani movimenti si sono registrati a Palermo in queste settimane. Uno, a metà dicembre. Qualcuno è arrivato fin sul pianerottolo dell'abitazione del sostituto Di Matteo, lavorando dentro una cassetta elettrica. Se ne sono accorti i carabinieri della scorta. Nessuno nel condominio aveva disposto lavori nel palazzo, e in quel fine settimana il magistrato era fuori città. Un intruso sapeva anche questo.

Torniamo all'anonimo. Spiega dove cercare nuove prove sul patto. Usa queste parole: "Ci sono catacombe all'interno dello Stato sepolte e ricoperte di cemento armato, ma alcune verità si possono ancora trovare". E specifica i luoghi. Segue una lista di nomi. Uomini politici della prima Repubblica, grandi e piccoli, tutti mai sfiorati fino ad ora dalle investigazioni sulla trattativa. Consiglia di seguire certe tracce, il suo linguaggio è quello di un "addetto ai lavori". Gli investigatori sono convinti che si tratti di qualcuno che, all'inizio degli anni '90, abbia lavorato in qualche reparto investigativo. Conosce minuziosamente alcune vicende. Come quella della cattura di Totò Riina, la mattina del 15 gennaio del 1993. Garantisce che il covo del boss, nel quartiere dell'Uditore, sia stato visitato da qualcuno prima della perquisizione del procuratore Caselli. E ripulito di un tesoro, l'archivio del capo dei capi di Cosa Nostra. "Nascosto a Palermo per qualche tempo e poi portato via", scrive ancora l'anonimo. 

E infine dice di sapere chi ha rubato dalla sua borsa l'agenda rossa di Paolo Borsellino, quella sulla quale il procuratore segnava tutto ciò che vedeva e sentiva dalla morte del suo amico Giovanni Falcone. "L'ha presa un carabiniere", giura l'autore della lettera. 

Già qualche anno fa un colonnello dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, era stato messo sotto accusa dai magistrati di Caltanissetta per avere trafugato l'agenda. L'ufficiale era stato fotografato, in via D'Amelio, con la borsa fra le mani. Ma aveva sempre sostenuto di non sapere nulla dell'agenda. Prosciolto dal giudice in fase d'indagine preliminare e prosciolto poi dalla Cassazione, il colonnello è uscito definitivamente dall'inchiesta. In questi ultimi mesi i pm di Caltanissetta (quelli che indagano sui massacri di Palermo) hanno però ricominciato a visionare un filmato del dopo strage, ricostruito con tutte le immagini ritrovate negli archivi televisivi. Cercano sempre l'uomo dell'agenda rossa. E sospettano sempre che sia uno degli apparati investigativi. La caccia è ripartita.

Cosa aggiungere sull'ultimo anonimo? Le indagini, che sembravano solo aspettare il verdetto del giudice Piergiorgio Morosini sulla richiesta di rinvio a giudizio di quei 12 imputati eccellenti prevista per la fine del mese, hanno ricominciato ad agitarsi dopo le confessioni del misterioso personaggio senza volto. Uno che viene dal passato di Palermo.




http://www.repubblica.it/cronaca/2013/01/03/news/stato_mafia_anonima_lettera-49835506/?ref=HREC1-4