Visualizzazione post con etichetta Default. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Default. Mostra tutti i post

domenica 13 gennaio 2019

Una analisi congiunta con Dmitry Orlov sul collasso degli Stati Uniti. - The Saker



L’Occidente è marcio!   Può essere… ma senti che buon odore…Barzelletta dell’era sovietica
La parola “catastrofe” ha diversi significati, ma il concetto originale greco è quello di una “improvvisa recessione” (in greco katastrophē “ribaltamento, svolta improvvisa” da kata “giù” + strofe “girare”). Per quanto riguarda la parola “superpotenza,” anche per questa esistono diverse definizioni possibili, ma le mie preferite sono: 
questa, “superpotenza è un termine usato per descrivere uno stato con una posizione dominante, caratterizzato dalla sua ampia capacità di esercitare influenza o proiettare forza su scala globale. Ciò si ottiene attraverso una combinazione di forza economica, militare, tecnologica e culturale, nonché con l’opera della diplomazia e della capacità di persuasione. Tradizionalmente, le superpotenze si trovano preminentemente fra le grandi potenze,” 
questa, “una nazione estremamente potente, specialmente una in grado di influenzare gli eventi internazionali e gli atti e le politiche delle nazioni meno potenti,” 
o ancora questa“un organo di governo internazionale, in grado di imporre la propria volontà su quella degli stati più potenti.”
Ho già parlato del visibilissimo declino degli Stati Uniti e del suo impero in molti dei miei articoli, quindi non mi ripeterò qui, se non per dire che la “capacità di esercitare influenza ed imporre la propria volontà” è probabilmente il criterio migliore per misurare l’entità della caduta degli Stati Uniti da quando Trump è salito al potere (il processo era già stato avviato da Dubya e da Obama, ma ha sicuramente accelerato con The Donald). Quello che vorrei fare è usare una metafora per rivisitare il concetto di catastrofe.
Se si posiziona un oggetto in mezzo ad un tavolo e poi lo si spinge fino al bordo, ci vorrà una certa quantità di energia, che possiamo chiamare “E1”. Poi, se il bordo del tavolo è liscio e vogliamo spingere l’oggetto oltre il bordo, basterà una quantità di energia molto più piccola, che possiamo chiamare “E2”. E, nella maggior parte dei casi (se il tavolo è abbastanza grande), si scoprirà anche che E1 è molto più grande di E2, ma che E2, per il fatto di essere avvenuta dopo E1, ha innescato un evento molto più drammatico: invece di planare dolcemente oltre il piano del tavolo, l’oggetto cade di colpo e va in pezzi. Questa caduta improvvisa può anche essere definita una “catastrofe“. Questo capita anche nella storia, prendete l’esempio dell’Unione Sovietica.
Il destino di tutti gli imperi
Alcuni lettori potrebbero ricordare come Alexander Solzhenitsyn avesse ripetutamente dichiarato negli anni ’80 di essere sicuro che il regime sovietico sarebbe crollato e che sarebbe potuto ritornare in Russia. Naturalmente, era stato ridicolizzato in modo caustico da tutti gli “specialisti” e da tutti gli “esperti”. Del resto, perché qualcuno avrebbe dovuto ascoltare un eccentrico esiliato russo con idee politicamente sospette (c’erano voci di “monarchismo” e di “antisemitismo”) quando l’Unione Sovietica era un’immensa superpotenza, armata fino ai denti, con un enorme servizio di sicurezza, con alleati politici e sostenitori in tutto il mondo? Non solo, ma tutti gli specialisti e gli esperti “rispettabili” erano unanimi nel ritenere che, anche se il regime sovietico soffriva di diversi problemi, era ben lungi dal collasso. L’idea che la NATO avrebbe presto sostituito l’esercito sovietico non solo nell’Europa Orientale, ma anche in una parte della stessa Unione Sovietica era assolutamente impensabile. Eppure è successo proprio questo, il tutto molto, molto velocemente. Mi verrebbe da dire che l’Unione Sovietica è completamente crollata in meno di 4 anni: dal 1990 al 1993. Come e perché questo sia accaduto va oltre lo scopo di questo articolo, ma ciò che è innegabile è che nel 1989 l’Unione Sovietica era ancora un’entità all’apparenza potente, mentre, alla fine del 1993, era praticamente sparita (fatta a pezzi dalla stessa nomenklatura che l’aveva governata). Come mai non lo aveva previsto quasi nessuno?
Perché un’analisi condizionata dall’ideologia porta al compiacimento intellettuale, al fallimento dell’immaginazione e, di solito, all’incapacità quasi totale di prendere in considerazione, anche ipoteticamente, i possibili risultati. Questo è il perchè quasi tutti gli “specialisti sovietici” si erano sbagliati (il KGB, al contrario, aveva previsto questo risultato e aveva avvertito il Politburo, ma i gerontocrati sovietici erano ideologicamente paralizzati ed erano incapaci, e spesso anche contrari, a prendere una qualsiasi misura preventiva). Il regime massonico di Kerensky in Russia nel 1917, la monarchia in Iran o il regime dell’apartheid in Sud Africa erano crollati molto in fretta, una volta messo in atto e avviato il meccanismo di autodistruzione.
Potete pensare al “meccanismo di autodistruzione del regime” come alla nostra fase E1 nella metafora di cui sopra. Per quanto riguarda E2, potete immaginarla come un qualsiasi, piccolo evento scatenante che innesca il collasso rapido e finale, apparentemente con  grande facilità e minimo dispendio di energia.
A questo punto, è importante spiegare come si presenta esattamente un “collasso finale”. Alcune persone pensano erroneamente che una società o una nazione collassata assomigli al mondo di Mad Max. Non è così. L’Ucraina è uno stato fallito già da diversi anni, ma esiste ancora sulle carte geografiche. La gente ci vive, ci lavora, la maggior parte di essa ha ancora l’elettricità (anche se non 24 ore al giorno e 7 giorni su 7), esiste un governo e, almeno ufficialmente, la legge e l’ordine vengono mantenuti.
Questo tipo di società fallita può andare avanti per anni, forse per decenni, ma è comunque in uno stato di collasso, poiché ha attraversato tutte le 5 fasi del collasso, così come sono state descritte da Dmitry Orlov nel suo libro “The Five Stages of Collapse: Survivors ‘Toolkit”,  dove l’autore definisce le seguenti 5 fasi del collasso:
• Fase 1: collasso finanziario. La fede nell’“ordinaria amministrazione” è persa.
• Fase 2: collasso commerciale. La fede nel “ci penserà il mercato” è persa.
• Fase 3: collasso politico. La fede nel “il governo si prenderà cura di te” è persa.
• Fase 4: collasso sociale. La fede nel “la tua gente si prenderà cura di te” è persa.
• Fase 5: collasso culturale. La fede nella “bontà dell’umanità” è persa.
Avendo visitato di persona l’Argentina negli anni ’70 e ’80 e visto la Russia all’inizio degli anni ’90, posso attestare che una società può collassare completamente, pur mantenendo molte delle caratteristiche esterne di una normale società ancora funzionante. A differenza del Titanic, la maggior parte dei regimi collassati non affondano completamente. Rimangono metà sotto e metà sopra l’acqua, magari con un’orchestrina che suona ancora qualche musichetta. E nelle cabine più costose del ponte superiore, l’elite riesce ancora a mantenere uno stile di vita abbastanza lussuoso. Ma, per la maggior parte dei passeggeri, un simile collasso vuol dire povertà, insicurezza, instabilità politica e un’enorme perdita di benessere. Inoltre, in termini di movimento, una nave mezza affondata non è affatto una nave.
Ecco la cosa più importante: finché gli altoparlanti della nave continuano ad annunciare bel tempo e brunch a buffet, e finché la maggior parte dei passeggeri rimangono nelle loro cabine, incollati davanti alla TV invece di guardare fuori dagli oblò, l’illusione della normalità può essere mantenuta per un tempo abbastanza lungo, anche dopo un collasso. Durante la fase E1 delineata sopra, la maggior parte dei passeggeri verrà tenuta completamente all’oscuro (perchè non insorgano o protestino) e solo dopo l’avvento di E2 (totalmente inaspettato per la maggior parte di essi) la realtà, alla fine, distruggerà l’ignoranza e le illusioni di quei passeggeri a cui era stato fatto il lavaggio del cervello.
Obama è stato veramente l’inizio della fine 
Ho vissuto negli Stati Uniti dal 1986 al 1991 e dal 2002 fino ad oggi e non ho alcun dubbio che il paese abbia subito un enorme declino negli ultimi decenni. In realtà, direi che gli Stati Uniti hanno vissuto in condizioni E1 almeno da Dubya in poi e che questo processo ha accelerato drammaticamente con Obama e con Trump. Credo che abbiamo raggiunto il punto E2, “il bordo del tavolo”, nel 2018 e che da ora in poi anche un incidente relativamente piccolo potrebbe determinare un’improvvisa recessione (cioè una “catastrofe”). Tuttavia, ho deciso di verificare la situazione con l’indiscusso specialista di questo problema e così ho mandato una mail a Dmitry Orlov e gli ho posto la seguente domanda:
Nel tuo recente articolo “The Year the Planet Flipped Over” [L’anno in cui il pianeta si è ribaltato] dipingi un quadro devastante dello stato dell’Impero:
Si può già tranquillamente affermare che il piano di Trump per ripristinare la grandezza dell’America (MAGA) è un fallimento. Dietro le statistiche ottimistiche sulla crescita economica degli Stati Uniti rimane il fatto odioso che [questo dato positivo] è il risultato di un’esenzione fiscale concessa alle società transnazionali, per incoraggiarle a rimpatriare i loro profitti. Non solo non le ha aiutate (le loro quotazioni azionarie sono attualmente in forte calo), ma si è rivelata un disastro per il governo degli Stati Uniti, così come per il sistema economico nel suo insieme.
Le entrate fiscali sono diminuite, con un conseguente deficit di oltre 779 miliardi di dollari. Nel frattempo, le guerre doganali dichiarate da Trump hanno fatto crescere il deficit commerciale del 17% rispetto all’anno precedente. I piani di rimpatrio per la produzione industriale [precedentemente delocalizzata] nei paesi a basso costo sono tuttora in alto mare, perché mancano totalmente negli Stati Uniti i tre elementi chiave che la Cina aveva avuto a disposizione per la sua industrializzazione (energia a basso costo, manodopera a basso costo e bassi costi di gestione).
Il debito pubblico è già oltre il ragionevole e la sua espansione continua ad accelerare, con una previsione che, per quanto riguarda unicamente il pagamento degli interessi sul debito,  dovrebbe superare i 500 miliardi di dollari l’anno, entro un decennio. Questa traiettoria non promette nulla di buono per l’esistenza stessa degli Stati Uniti. Nessuno, negli Stati Uniti o altrove, ha il potere di cambiare questa tendenza in modo significativo. Le sbandate di Trump potrebbero aver fatto precipitare gli eventi più velocemente del normale, almeno nel senso che potrebbero aver aiutato a convincere il mondo che gli Stati Uniti sono egoisti, inoffensivi, in definitiva autodistruttivi, e generalmente inaffidabili come partner. Alla fine, non importa chi sia il presidente degli Stati Uniti, la situazione non cambia.
Tra quelli a cui il presidente degli Stati Uniti è riuscito a far più male vi sono i suoi alleati europei. I suoi attacchi alle esportazioni energetiche russe verso l’Europa, contro le case automobilistiche europee e contro gli scambi commerciali europei con l’Iran hanno provocato una gran quantità di danni, sia politici che economici, senza che potessero essere compensati da benefici reali o almeno percepiti. Nel frattempo, mentre l’ordine mondiale globalista, che una larga parte della popolazione europea sembra pronta a considerare un fallimento, inizia a sgretolarsi, l’Unione Europea sta diventando rapidamente ingovernabile, con i partiti politici governativi incapaci di formare coalizioni e sempre più populisti che escono allo scoperto.
È troppo presto per dire che l’UE ha fallito completamente, ma sembra già abbastanza certo che entro un decennio essa cesserà di essere un attore internazionale serio. Sebbene la qualità disastrosa e gli errori rovinosi della dirigenza dell’Unione Europea abbiano una grossa responsabilità, parte di essa dovrebbe essere attribuita al comportamento erratico e distruttivo del loro Grande Fratello d’oltreoceano. L’UE si è già trasformata in una entità strettamente regionale, incapace di proiettare il suo potere o mantenere ambizioni geopolitiche globali.
Lo stesso vale per Washington, che se ne andrà volontariamente (per mancanza di soldi) o verrà cacciata [a forza] da gran parte del mondo. La partenza dalla Siria è inevitabile, sia che Trump, sotto la pressione incessante dei falchi bipartisan, rinneghi o no questo impegno. Ora che la Siria dispone di una moderna forza di difesa antiaerea fornitale dalla Russia, gli Stati Uniti non mantengono più la superiorità aerea e, senza superiorità aerea, le forze armate statunitensi non possono fare nulla.
L’Afghanistan è il prossimo; è molto probabile che i Washingtoniani non saranno in grado di raggiungere un accordo ragionevole con i Talebani. La loro partenza significherà la fine di Kabul come centro di corruzione, dove gli stranieri fanno man bassa degli aiuti umanitari e delle altre risorse. Durante tutto questo processo, verrà anche ritirato quello che rimane delle truppe statunitensi dall’Iraq, dove il parlamento, irritato dalla visita improvvisa di Trump ad una base americana, ha recentemente votato per la loro espulsione. E questo danneggerà l’intera avventura americana in Medio Oriente; dall’11 settembre in poi sono stati sprecati 4.704 miliardi di dollari, per essere precisi, 14.444 dollari per ogni uomo, donna e bambino negli Stati Uniti.
I più grandi vincitori, ovviamente, sono le popolazioni dell’intera regione, perché non saranno più soggette alle vessazioni e ai bombardamenti indiscriminati degli Stati Uniti. Gli altri vincitori sono la Russia, la Cina e l’Iran, con la Russia che consolida la sua posizione come arbitro definitivo degli accordi internazionali sulla sicurezza, grazie alle sue capacità militari senza precedenti e alla sua comprovata esperienza nell’imporre la pace con metodi coercitivi. Il destino della Siria sarà deciso da Russia, Iran e Turchia, gli Stati Uniti non saranno nemmeno invitati ai negoziati. L’Afghanistan aderirà all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai.
E i più grandi perdenti saranno gli ex alleati regionali degli Stati Uniti, in primo luogo Israele, poi l’Arabia Saudita.
La mia domanda è questa: dove collocheresti gli Stati Uniti (o l’Impero) nelle tue 5 fasi del collasso e credi che gli USA (o l’Impero) siano in grado di invertire questa tendenza?
Ecco la risposta di Dmitry:
Il collasso, in ogni fase, è un processo storico che ha bisogno tempo per seguire il suo corso, perchè il sistema si adatta alle circostanze in continua evoluzione, compensa le proprie debolezze e trova modi per continuare a funzionare più o meno bene. Ma ciò che cambia all’improvviso è la fede o, per dirla in termini più aziendali, il sentimento. Un ampio segmento della popolazione o un’intera classe politica all’interno di una nazione o del mondo intero può continuare a funzionare sulla base di un certo insieme di presupposti per molto più tempo di quanto ci si aspetterebbe in base alla situazione, per poi passare, in un lasso di tempo brevissimo, ad insieme di presupposti completamente diversi. Tutto ciò che sostiene lo status quo [del sistema] al di là di questo punto è l’inerzia istituzionale. Essa impone dei limiti a quanto velocemente i sistemi possono cambiare senza crollare del tutto. Oltre quel punto, le persone tollereranno le metodiche più vecchie solo fino a quando non si sarà trovato il modo di sostituirle.
Fase 1: collasso finanziario. La fede nell’”ordinaria amministrazione” è persa.
A livello internazionale, il principale cambiamento mondiale del senso di fiducia ha a che fare con il ruolo del dollaro americano (e, in misura minore, dell’euro e dello yen, le altre due valute di riserva dello sgabello bancario globalista a tre gambe). Il mondo sta passando all’utilizzo delle valute locali, alle conversioni valutarie e ai mercati delle materie prime sostenuti dall’oro. Il catalizzatore di questa nuova consapevolezza è stato fornito dalla stessa amministrazione statunitense, che ha segato il ramo su cui stava seduta con il suo abuso di sanzioni unilaterali. L’uso del potere di controllo sugli scambi basati sul dollaro per bloccare le transazioni internazionali a lei non gradite ha costretto gli altri paesi a cercare delle alternative. Ora, un elenco crescente di paesi considera l’idea di liberarsi delle catene del dollaro americano alla stregua di un obbiettivo strategico. La Russia e la Cina usano il rublo e lo yuan per il loro commercio in espansione, L’Iran vende petrolio all’India in rupie. L’Arabia Saudita ha iniziato ad accettare lo yuan per il suo petrolio.
Questo cambiamento produce molti effetti a catena. Se il dollaro non è più necessario per il commercio internazionale, le altre nazioni non ne devono più detenere grandi quantità come riserva. Di conseguenza, non è più necessario acquistare grandi quantità di buoni del tesoro statunitensi. E quindi, non è più necessario avere grandi eccedenze commerciali con gli Stati Uniti (cioè operare praticamente in perdita). Inoltre, l’attrattiva degli Stati Uniti come mercato di esportazione cala e il costo delle importazioni verso gli Stati Uniti sale, facendo in questo modo aumentare l’inflazione al consumo. Ne segue una spirale viziosa, in cui le capacità del governo degli Stati Uniti di accendere prestiti a livello internazionale per finanziare la voragine aperta dai suoi tanti deficit risultano compromesse. Dopo vengono il default sovrano del governo degli Stati Uniti e la bancarotta nazionale.
Gli Stati Uniti possono ancora sembrare potenti, ma, con la loro terribile situazione fiscale e con il continuo diniego dell’inevitabilità della bancarotta, sembrano quasi la Blanche DuBois della commedia Tennessee Williams “A Streetcar Named Desire” [Un tram che si chiama Desiderio]. “Dipendeva sempre dalla gentilezza degli estranei,” ma era tragicamente incapace di distinguere tra gentilezza e desiderio. In questo caso, il desiderio è di avere vantaggi e sicurezza per la propria nazione, e di ridurre al minimo i rischi sbarazzandosi di un partner commerciale inaffidabile.
Quanto velocemente o lentamente questo avverrà è difficile da indovinare e impossibile da calcolare. È possibile pensare al sistema finanziario in termini di un analogo fisico, con la massa monetaria che viaggia ad una certa velocità e con una certa inerzia (p = mv) e con forze che agiscono su quella massa per accelerarla lungo una traiettoria diversa (F = ma). È anche possibile immaginarlo in termini di branchi di animali al galoppo che possono cambiare improvvisamente direzione quando vengono presi dal panico. I recenti e bruschi movimenti nei mercati finanziari, dove migliaia di miliardi di dollari, di valore unicamente teorico e speculativo, sono stati spazzati via in poche settimane, sono più in linea con quest’ultimo modello.
Fase 2: collasso commerciale. La fede nel “ci penserà il mercato” è persa
All’interno degli Stati Uniti non esistono veramente altre alternative al mercato. Ci sono alcune enclave rurali, per lo più comunità religiose, che possono autosostenersi, ma questo è un caso raro. Per tutti gli altri non c’è altra scelta che essere dei consumatori. I consumatori diventati poveri vengono chiamati “barboni”, ma continuano ad essere dei consumatori. Nella misura in cui gli Stati Uniti hanno una cultura, questa è una cultura commerciale in cui la bontà di una persona si basa sulle ‘buone’ somme di denaro in suo possesso. Una simile cultura può morire diventando irrilevante (quando tutti sono completamente rovinati) ma, a quel punto, è probabile che sia defunta anche la maggior parte dei portatori di questa cultura. In alternativa, potrebbe essere rimpiazzata da una cultura più umana, che non sia interamente basata sul culto di Mammona, magari, oserei pensare, attraverso il ritorno ad un’etica cristiana pre-protestante e pre-cattolica che ponga le anime delle persone al di sopra degli oggetti di valore.
Fase 3: collasso politico. La fede nel “il governo si prenderà cura di te” è persa.
Al momento tutto è molto oscuro, ma mi azzarderei a dire che la maggior parte delle persone negli Stati Uniti sono troppo distratte, troppo stressate e troppo preoccupate dei propri vizi e delle proprie ossessioni per prestare attenzione alla sfera politica. Di quelli che lo fanno, un buon numero sembra essere consapevole del fatto che gli Stati Uniti non sono affatto una democrazia, ma esclusivamente il terreno di gioco delle diverse elites, dove gli interessi corporativi transnazionali ed oligarchici costruiscono e abbattono castelli di sabbia.
La fortissima polarizzazione politica, in cui due partiti filo-capitalisti e bellicisti, virtualmente identici,  fingono di darsi battaglia mettendo in mostra le proprie virtù, può essere un sintomo dello stato di estrema decadenza dell’intero assetto politico: le persone vengono costrette a guardare le volute di fumo e ad ascoltare un rumore assordante, nella speranza che non si accorgano che il sistema ha smesso di funzionare.
Il fatto che un vero e proprio intrigo di palazzo (la frattura tra la Casa Bianca, i due rami del Congresso e un inquieto, macabro inquisitore di nome Mueller) sia al centro del palcoscenico ricorda stranamente diversi crolli politici avvenuti in precedenza, come la disintegrazione dell’Impero Ottomano o la caduta e la conseguente decapitazione di Luigi XVI. Il fatto che Trump, alla pari dei notabili ottomani, abbia riempito il suo harem con donne dell’Est Europeo, aggiunge una nota inquietante. Detto questo, la maggior parte delle persone negli Stati Uniti sembrano non accorgersi della vera natura dei loro padroni, un atteggiamento che i Francesi, con il loro movimento dei Giubbotti Gialli (solo per fare un esempio) non condividono affatto.
Fase 4: collasso sociale. La fede nel “la tua gente si prenderà cura di te” è persa.
Da alcuni anni sto affermando che, all’interno degli Stati Uniti, il collasso sociale ha già in gran parte terminato il suo corso, anche se la gente, in effetti, crede che la questione sia ancora tutta da chiarire. Dare una definizione della “tua gente” è piuttosto difficile. I simboli sono ancora tutti lì: la bandiera, la Statua della Libertà e una predilezione per le bevande ghiacciate e piatti abbondanti di cibi fritti e grassi, ma il melting pot sembra essersi fuso ed essere colato fino in Cina. Attualmente, negli Stati Uniti, metà delle famiglie parla in casa una lingua diversa dall’inglese e una buona parte delle altre si esprime con forme dialettali di inglese che non sono reciprocamente comprensibili con l’inglese nordamericano standard delle trasmissioni televisive e dei conferenzieri universitari.
Nel corso della loro storia come colonia britannica e poi come nazione, gli Stati Uniti sono stati dominati dall’ethnos anglosassone. Il termine “ethnos” non è un’etichetta etnica. Non si basa unicamente su genealogia, lingua, cultura, habitat, forma di governo o un qualsiasi altro singolo fattore o gruppo di fattori. Questi possono essere tutti importanti, in un senso o nell’altro, ma la possibilità di sopravvivenza di un ethnos si basa esclusivamente sulla sua coesione e sulla reciproca inclusività e sulla comunità di intenti dei suoi membri. L’ethnos anglosassone si era trovato al suo massimo subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, durante la quale molti gruppi sociali si erano arruolati nell’esercito ed erano venuti a contatto con i loro membri più culturalmente preparati.
Si era liberato un potenziale fantastico quando il privilegio (la maledizione originale dell’ethnos anglosassone) era stato temporaneamente sostituito dal merito e quando agli uomini più ricchi di talento che venivano messi in congedo, di qualsiasi estrazione essi fossero, era stata data una possibilità di istruzione e di avanzamento sociale tramite il GI Bill [1]. Esprimendosi in una nuova forma di inglese americano, basato sul dialetto dell’Ohio, come Lingua Franca, questi Yanks, maschi, razzisti, sessisti e sciovinisti e, almeno nella loro mente, vittoriosi, si erano ritrovati pronti a rifare il pianeta a loro immagine e somiglianza. Avevano iniziato ad inondare il mondo intero di petrolio (la produzione  statunitense di greggio era allora al suo massimo) e con le macchine per bruciarlo. Atti così appassionati di etnogenesi sono rari ma non inusuali: i Romani che avevano conquistato l’intero bacino del Mediterraneo, i barbari che poi avevano saccheggiato Roma, i Mongoli che più tardi avevano conquistato la maggior parte dell’Eurasia e i Tedeschi che, per un brevissimo periodo, avevano posseduto un enorme Lebensraum, sono altri esempi.
E ora è il momento di chiederci: che cosa rimane oggi di questo orgoglioso ethnos anglosassone conquistatore? Ascoltiamo stridule grida femministe sulla “mascolinità tossica” e minoranze di ogni genere che tuonano contro “l’arroganza dei bianchi” e, come tutta risposta, sentiamo qualche piagnucolio, ma soprattutto silenzio. Quei fieri, conquistatori e virili Yanks che si erano incontrati e avevano fraternizzato con l’Armata Rossa sul fiume Elba il 25 aprile 1945, dove sono? Si sono trasformati in una triste sub-etnia di ragazzini effeminati e pornodipendenti, che si radono i peli pubici e hanno bisogno del permesso scritto per fare sesso per paura di essere accusati di stupro?
Gli ethnos anglosassoni diventeranno un relitto, proprio come gli Inglesi sono riusciti a rimanere aggrappati ai loro reali (che, tecnicamente, non sono nemmeno più aristocratici dal momento che ora praticano l’esogamia con il popolino)? O verranno spazzati via da un’ondata di depressione, malattie mentali e abuso di oppiacei, la loro gloriosa storia di rapine, saccheggi e genocidi sarà cancellata e le statue dei loro eroi/criminali di guerra verranno abbattute? Solo il tempo ce lo dirà.
Fase 5: collasso culturale. La fede nella “bontà dell’umanità” è persa.
Il termine “cultura” per molta gente ha significati diversi, ma è più produttivo osservare le culture piuttosto che discuterne. Le culture si esprimono attraverso i comportamenti stereotipati degli individui e sono facilmente osservabili in pubblico. Non stiamo parlando degli stereotipi negativi, spesso usati per identificare e respingere gli estranei, ma degli stereotipi positivi (in realtà, standard di comportamento culturale), che sono i requisiti principali dell’inclusione e dell’adeguatezza sociale. Possiamo facilmente valutare la sostenibilità di una cultura osservando i comportamenti stereotipati dei suoi membri.
La gente esiste come entità unica, sovrana, continua, e inclusiva o come un insieme di enclavi esclusive, potenzialmente in guerra tra loro, segregate per reddito, etnia, livello di istruzione, affiliazione politica e così via? Vedete molti muri, cancelli, posti di blocco, telecamere di sicurezza e cartelli “non oltrepassare”? La legge dello stato è applicata in modo uniforme o ci sono quartieri buoni, quartieri cattivi e zone talmente pericolose dove persino la polizia ha paura ad entrare?
Persone qualsiasi che si ritrovano insieme in pubblico entrano spontaneamente in conversazione fra di loro e si sentono a loro agio nello stare tutte insieme, o sono distanti e paurose, e preferiscono nascondere le loro facce nei piccoli rettangoli luminosi dei loro smartphone, custodendo gelosamente lo spazio personale, pronte a considerare qualsiasi intrusione come un assalto?
Le persone rimangono di buon umore e tolleranti l’una verso l’altra anche se sono sotto stress o si nascondono dietro una facciata di tesa, superficiale cortesia e vanno su tutte le furie alla minima provocazione? La conversazione è tranquilla, gentile e rispettosa o è fatta ad alta voce, stridula, rozza e ammorbata da un linguaggio volgare? Le persone si vestono bene per rispetto reciproco, o per mettersi in mostra, o sembrano tutti solo degli sciattoni decaduti, anche quelli con i soldi?
Osservate come si comportano i loro figli: hanno paura degli estranei e sono intrappolati in un piccolo mondo tutto loro o sono aperti al mondo e pronti a trattare qualsiasi straniero come un fratello o una sorella surrogata, come zia o zio, nonna o nonno, senza chiedere una qualche introduzione speciale? Gli adulti ignorano di proposito i figli altrui o agiscono spontaneamente come un’unica famiglia?
Se capita un incidente stradale, corrono volontariamente in soccorso agli altri ed estraggono i feriti prima che il veicolo esploda, o, secondo gli immortali versi di Frank Zappa, “prenderanno il telefono e chiameranno qualche buono a nulla” che “si precipiterà e farà ancora più danni”?
Se c’è un’alluvione o un incendio, i vicini accoglieranno i senzatetto o li faranno aspettare fino a che le autorità non si saranno fatte vive e li avranno portati in un qualche rifugio governativo improvvisato?
È possibile citare statistiche o fornire prove aneddotiche per determinare lo stato e la sostenibilità di una cultura, ma i vostri occhi e gli altri sensi possono darvi tutte le prove di cui avete bisogno per capirlo da soli e decidere quanta fede mettere nella “bontà del genere umano” che vedete nelle persone intorno a voi.
Dmitry ha concluso la sua replica riassumendo così la sua opinione:
Il collasso culturale e quello sociale sono ancora molto lontani. Il collasso finanziario è in attesa di un innesco. Il collasso commerciale avverrà a tappe, alcune delle quali, i deserti alimentari, p.e., si sono già verificate in molti luoghi. Il collasso politico diventerà visibile solo quando la classe politica si sarà arresa. Non è semplice dire in quale fase ci troviamo attualmente. Stanno avvenendo tutte in parallelo, in un modo o nell’altro.
La mia (totalmente soggettiva) opinione è che gli Stati Uniti hanno già raggiunto gli stadi da 1 a 4 e che ci sono segnali che indicano che la fase 5 è iniziata; sopratutto nelle grandi città, mentre i piccoli centri degli Stati Uniti e le zone rurali (la base elettorale di Trump, tra l’altro) stanno ancora lottando per mantenere le norme di comportamento che si potevano osservare negli Stati Uniti degli anni ’80. Quando ho visitatori dall’Europa, rimangono sempre stupiti di quanto siano amichevoli e accoglienti gli Americani (è vero, vivo in una piccola città nella Florida centro-orientale, non a Miami …). Queste sono le comunità che hanno votato per Trump perché avevano detto “rivogliamo indietro il nostro paese“. Ahimè, invece di restituire loro il paese, Trump lo ha regalato ai Neoconservatori …
Conclusione: unire i puntini; o no
Francamente, i puntini sono dappertutto; è veramente difficile non vederli. Tuttavia, per i superbenpensanti “automi ideologici“, essi rimangono in gran parte invisibili, e questo non è dovuto a problemi di vista, ma alla totale incapacità di questi automi di unire i puntini. Sono quel genere di persone che ballavano sul ponte del Titanic mentre la nave stava affondando. Per loro, quando arriverà l’inevitabile catastrofe, sarà una sorpresa totale e strabiliante. Ma, fino a quel momento, continueranno a negare l’evidenza, non importa quanto evidente sia diventato l’ovvio.
Nel frattempo, le élites al potere negli Stati Uniti sono avvinghiate in una orrenda lotta intestina, che indebolisce ulteriormente la nazione. Ciò che è veramente significativo è che i Democratici sono ancora bloccati dalla loro stessa leadership incompetente ed infinitamente arrogante, nonostante tutti sappiano che il Partito Democratico è in crisi profonda e che sono disperatamente necessari dei volti nuovi. Ma no, sono ancora completamente arroccati nei loro vecchi sistemi e la stessa banda di gerontocrati continua a governare l’apparato del partito.
Questo è un altro sintomo infallibile di degenerazione: quando un regime riesce a produrre solo leader incompetenti, spesso vecchi, completamente fuori dalla realtà e che danno la colpa dei propri fallimenti a fattori interni (“deplorabili”) ed esterni (“i Russi”). Ancora una volta, pensate all’Unione Sovietica sotto Breznev, al regime dell’apartheid in Sudafrica sotto F. W. de Klerk, o al regime di Kerensky nel 1917 in Russia. E’ abbastanza significativo che un leader politico che gli Anglo-Sionisti cercano di spaventare li consideri semplicemente degli “idioti di prim’ordine“, non è così?
Per quanto riguarda poi i Repubblicani, questi sono fondamentalmente una succursale del Partito Israeliano Likud. Date solo un’occhiata alla lunga lista di nullità che il Likud ha prodotto a casa sua, e avrete un’idea di cosa possono fare nella loro colonia statunitense.
Alla fine, gli Stati Uniti si riprenderanno; non ho alcun dubbio a riguardo. Questo è un grande paese, con milioni di persone di talento, enormi risorse naturali e nessuna minaccia credibile al suo territorio. Ma ciò potrà avvenire solo dopo un reale cambio di *regime* (l’opposto di un cambiamento nell’amministrazione presidenziale) che, di per sé, avverrà solo dopo un collasso da “catastrofe E2”.
Fino ad allora, staremo tutti ad aspettare Godot.
The Saker
[1] Si tratta di un programma governativo che dal 1944 offre ai veterani importanti opportunità educative e lavorative, da cui sarebbero altrimenti esclusi.
Fonte: thesaker.is
Link: https://thesaker.is/category/breaking-articles/saker-analyses-interviews/
11.01.2019
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

lunedì 3 agosto 2015

Porto Rico e il debito da 72 miliardi: oggi fallisce la Grecia degli Stati Uniti. - Paolo Mastrolilli



L’isola caraibica è insolvente, ma le conseguenze le paga Washington.

Oggi, a meno di improbabili sorprese, fallisce Porto Rico. O quanto meno comincia il processo del default relativo ai suoi 72 miliardi di dollari di debito, che ormai fanno descrivere l’isola caraibica come la Grecia degli Stati Uniti.  

In queste ore, infatti, scade il primo pagamento che Porto Rico non sarà in grado di onorare, cioé 58 milioni di dollari dovuti a chi aveva comprato i suoi bond. E’ il week end, in teoria la resa dei conti potrebbe essere rinviata a lunedì, e la cifra in discussione è ancora molto ridotta. La sostanza, però, non cambia: il governo dell’isola è insolvente, e senza un serio intervento di ristrutturazione provocherà guai seri anche a Washington. 

Porto Rico non è uno stato americano, ma un territorio che appartiene agli Usa a tutti gli effetti. In teoria potrebbe avere un’economia florida, soprattutto grazie al turismo e ai servizi, ma nella pratica è in recessione ormai da nove anni. La crisi è stata provocata da una gestione scellerata delle finanze pubbliche, evasione fiscale, costi troppo alti di energia e trasporti, obbligo di garantire lo stesso livello di retribuzione minima degli Stati Uniti, cioé 7,25 dollari all’ora che sull’isola caraibica sono un’enormità insostenibile. La disoccupazione giovanile è schizzata sopra al 25% e, trattandosi di un territorio americano, chi ha potuto è emigrato negli Usa, riducendo ancora di più la forza lavoro e la base contributiva locale.  

Il governo ha cercato di contenere gli effetti della crisi offrendo un’assistenza pubblica insostenibile, che ormai beneficia circa il 40% della popolazione. Nello stesso tempo ha emesso obbligazioni con enormi facilitazioni fiscali, che hanno attirato gli investimenti dei locali in cerca di soluzioni per le loro pensioni, ma naturalmente non hanno prodotto ricavi per l’amministrazione pubblica.  

Così il debito si è gonfiato fino a 72 miliardi di dollari, e il mese scorso il governatore Alejandro Garcia Padilla è stato costretto ad ammettere che non ha i soldi per ripagarlo. Il problema è che la legge vieta al governo federale americano di andare in soccorso di Porto Rico, e quindi la soluzione deve essere interna: ristrutturazione del debito, aumento delle tasse e taglio dei servizi.  

Tutti questi provvedimenti, però, ricadrebbero in larga parte sulle spalle degli stessi abitanti dell’isola, perché sono loro i principali sottoscrittori dei bond in scadenza. Quindi sarebbero loro che dovrebbero nello stesso tempo perdere buona parte dei propri investimenti, pagare più tasse e ricevere meno benefici e servizi.  

Il segretario al Tesoro Lew ha chiesto al Congresso di cambiare le leggi, in modo da consentire il salvataggio di Porto Rico, ma intanto da oggi cominceranno a saltare i primi pagamenti. 

venerdì 26 giugno 2015

“Conti in rosso per 500 milioni di euro”. La Grande Milano già rischia di fallire. - Thomas Mackinson

“Conti in rosso per 500 milioni di euro”. La Grande Milano già rischia di fallire

Dopo Roma, la nuova grana del governo è Milano. La legge Delrio che ha cancellato la Provincia ha scaricato sulla Città metropolitana i debiti dell'ente soppresso e insieme ai tagli ai trasferimenti sottrae quasi 500 milioni di euro in tre anni al motore economico dell'Italia. Pisapia non ci sta: aveva programmato un'uscita di scena in punta di piedi, deve invece battere i pugni sul tavolo. I candidati a sostituirlo ne approfittano per aprire la campagna elettorale. E Roma, per ora, tace.

Non solo Roma e Mafia Capitale. Si materializza un’altra grana per il governo di Matteo Renzi. La Grande Milano che ha voluto e varato è appena nata e già  rischia di fallire, facendo virare sul rosso anche la “rivoluzione arancione” del suo sindaco, quel Giuliano Pisapia che voleva uscire di scena in punta di piedi e si ritrova invece a battere i pugni sul tavolo del governo. Sembra un fulmine a ciel sereno, in realtà il rischio default era stato rappresentato per tempo a Palazzo Chigi. Tutto nasce dalla riforma Delrio, quella che per i gufi premonitori era un gigantesco “pasticcio” e si scopre ora una ciambella col buco. Il buco è appunto quello della Città metropolitana di Milano, l’ente di area vasta che assorbe l’ex provincia e ne eredita anche il  debito: 94 milioni di euro. La scoperta ha mandato su tutte le furie il sindaco che giovedì scorso ha mollato su due piedi la first lady d’America, Michelle Obama, in visita all’Expo per volare a Roma a recapitare un messaggio a Palazzo Chigi: la città metropolitana rischia di sprofondare sotto il combinato disposto dei tagli ai trasferimenti al nuovo ente e dei debiti che eredita dalla disciolta provincia. Un’emergenza conti che diventa un boccone amarissimo per Pisapia e assai goloso per i candidati alla sua successione.
I conti in rosso: 500 milioni di bucoI numeri parlano chiaro. Il bilancio preventivo 2015 della Città Metropolitana sconta pesantemente la serie di tagli programmati dal governo agli enti di primo livello che sono stati fissati in un miliardo di euro, con una ricaduta sul capoluogo lombardo di 27 milioni nel 2015, il doppio nel 2016 e nel 2017 di 54 milioni. Così, lo squilibrio nei conti si attesterà a 94 milioni quest’anno, 163 milioni nel 2016 e altri 212 nel 2017. In tutto sono 500 milioni di euro. Poco o nulla, nel frattempo, è arrivato dalla rimodulazione del decreto sugli enti locali che doveva attenuare la corsa ai tagli: gli effetti del decreto si riducono essenzialmente al risparmio sullo sforamento del Patto di Stabilità della defunta Provincia, quantificato da 60 a 10 milioni. Il debito contratto defluisce dalle scritture contabili dell’ente morto. L’allarme risuona a sirene spiegate: per non portare i libri in tribunale ed evitare il commissariamento tocca correre ai ripari entro il 31 di luglio, un mese e poco più. Da contabile la vicenda diventa subito politica, perché nel 2016 si vota e i candidati in corsa che scaldano i motori si vedono già apparecchiato, sul piatto d’argento, un bellissimo boccone per cui scannarsi.
Le accuse di Passera e Gelmini, già in campagna elettoraleA cogliere la palla al balzo, ad esempio, è Corrado Passera, candidato a sindaco nel 2016 con la sua Italia Unica: “Ancora un volta emerge un buco di bilancio, e stavolta ci va di mezzo la Grande Milano. Ancora una volta comincia un rimpallo di responsabilità tra il sindaco e Palazzo Chigi su chi e come deve “ripianare”. Uno scaricabarile a cui i cittadini sono stanchi di assistere”. Stessi bersagli individuati dalla coordinatrice regionale di Fi, Mariastella Gelmini: “Non è Milano che affonda con la Città metropolitana: ad affondare è la sinistra milanese e nazionale e la sua costante, immutabile inconcludenza. Nel 2011 hanno promesso la “primavera” arancione per Milano, fallita a poco più di metà mandato con la rinuncia del sindaco a ricandidarsi e nessuna realizzazione del programma. Ora anche la Città metropolitana naufraga dopo alate promesse e decine di convegni a base di favole. Invece che abolire le Provincie e distribuire le competenze tra Comuni e Regioni, il governo ha creato un carrozzone vuoto con la Delrio. Ora naufraga nei debiti, con un surreale scaricabarile tra il Pd milanese e il Pd governativo”.
Via alle svendite di fine stagione: caserme, prefettura e immobili di lusso.Intanto la Grande Milano si prepara alle svendite per tappare una parte del buco. La Città metropolitana è pronta a vendere Palazzo Diotti, la storica sede della Prefettura e un paio di caserme che ora ospitano polizia e forze dell’ordine. Il piano di rientro allo studio del sindaco è subordinato alla possibilità di poter utilizzare almeno il 50 per cento proveniente dalle dismissioni del patrimonio immobiliare per la spesa corrente. Il palazzo e le caserme, spiega il Corriere della Sera, dovrebbero essere già inserite nel primo lotto del fondo Invimit, la società di gestione del risparmio del ministero dell’Economia e delle Finanze, dove confluiscono gli immobili delle Città metropolitane e delle Province che non sono più funzionali agli scopi dei nuovi enti. Chiaramente la funzione pubblica resta preservata e quindi non ci sarà nessuno “sfratto” della Prefettura o delle forze dell’ordine. Il valore degli immobili collocati nel fondo varia tra gli 80 e i 90 milioni di euro, a cui si aggiungerebbero i 38,7 milioni per la vendita del palazzo di corso di Porta Vittoria che è stato “prenotato” con una proposta irrevocabile.
Il “tradimento” di Pisapia, padre nobile della Grande MilanoE tuttavia il pasticcio politico resta. Per Pisapia e la sinistra milanese diventa un peso enorme in vista della competizione del 2016. Ci sono poi da rilevare due aspetti che possono fare la differenza nei rapporti sull’asse Roma-Milano. Il primo è che proprio Pisapia è stato tra i “padri nobili” delle città metropolitane. Lo raccontava lui stesso, in una lettera, durante lo sfibrante confronto parlamentare sulla riforma Delrio. “Oltre dieci anni fa – ricordava Pisapia – quando si è discusso del titolo V della Costituzione ero stato tra i proponenti della Città metropolitana. Nella stessa seduta avevo anche presentato un emendamento per una graduale soppressione delle province che, invece,  non è stato accolto”. Insomma, il padre nobile non riconosce la sua “creatura” per come la disegna il governo Renzi. Pisapia, va detto, aveva pure lanciato l’allarme per tempo, definendo Milano come una “Ferrari senza benzina”, e avvertendo il governo sul rischio di non riuscire a garantire più servizi essenziali come la manutenzione delle strade, i servizi scolastici, gli aiuti ai disabili.
La beffa dei congedi in rosso: la Moratti lasciò un buco da 186 milioni.
Ma c’è di più. Se si torna al 2011 si comprende meglio il furore che ha colto Pisapia il “mite”, quello della “rivoluzione gentile”. Quando si è insediato a Palazzo Marino, il neo sindaco di Milano e il suo assessore al bilancio Bruno Tabacci scoprirono nei conti del Comune un buco da 186 milioni di euro lasciato in eredità dall’amministrazione Moratti. “Siamo davanti a un disavanzo potenziale che rischia di mettere in ginocchio la città”, accusavano. E ora a Pisapia, dopo quattro anni di governo della città, non pare vero di ritrovarsi nella stesa situazione, con i candidati sindaco che banchettano sul “pasticcio”, imputandogli di aver lasciato la città coi conti in rosso. Ecco perché ha messo da parte il suo fair-play, ecco perché picchia i pugni sul tavolo. Il fallimento della città, ragiona il sindaco, non può essere la mia targa di addio alla Grande Milano.